«L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perchè togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuouo in battaglia. Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori, rapiscono solo che le spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico Nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesochè l'humana malitia per sè sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locchè descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia verde staggione, abbenchè la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure, per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medemo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Nè alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocchè, essendo cosa euidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti…» – Ma quando io avrò durata l'eroica fatica di trascrivere questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l'avrò data, come suol dirsi, alla luce, si troverà egli poi chi duri la fatica di leggerla?– Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del diciferare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensare più seriamente a quello che convenisse di fare. - Ben è vero, diceva io fra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella gragnuola di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l'opera. Il buon secentista ha voluto a prima giunta fare un po' di mostra della sua virtù; ma poi nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma come è dozzinale! come è sguaiato! come è scorretto! Idiotismi lombardi a furia, frasi della lingua adoperate a sproposito, gramatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnuola seminata qua e là; e poi, che è peggio, nei luoghi più terribili o più pietosi della storia, ad ogni occasione d'eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti quei passi insomma che richieggono bensì un po' di retorica, ma retorica discreta, fina, di buon gusto, costui non manca mai di mettervi di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con una abilità mirabile, le qualità più disparate, trova modo di riuscire rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, che è il proprio carattere degli scritti di quel secolo in questo paese. In vero non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son troppo avvisati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Manco male che il buon pensiero m' è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani. - Nell'atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perchè, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me ella era paruta, come dico, molto bella – Perchè non si potrebbe, pensai, prendere la serie dei fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura? – Non essendosi presentato alcun perchè ragionevole, il partito fu tosto abbracciato. Ed ecco l'origine del presente libro esposta con una ingenuità pari all'importanza del libro medesimo. Taluni però di quei fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, ci erano sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, noi abbiamo voluto interrogare altri testimonii; e ci siam data la briga di frugare nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbii: ad ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiamo perfino ritrovati alcuni personaggi, dei quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se avessero realmente esistito. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla. Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto. Chiunque, senza esser pregato, s'intromette a rifare l'altrui lavorìo si espone a rendere uno stretto conto del suo, e ne contrae in certo modo l'obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiamo punto di sottrarci. Anzi per conformarci ad essa di buon grado, noi ci eravamo proposti di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e a questo fine siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d'indovinare le critiche possibili e contingenti, coll'intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Nè in questo sarebbe stata la difficoltà; giacchè (dobbiamo dirlo ad onore del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvono le quistioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche a’ capelli fra loro, le facevamo battere l'una dall'altra; o, esaminandole ben addentro, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, erano però d'uno stesso genere, nascevano entrambe dal non avvertire i fatti e i principii su cui il giudizio doveva esser fondato: e postele, con loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non vi sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d'aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati a quello di raccapezzare tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Il che veduto, ponemmo da canto il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente valide: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d'un altro, potrebbe parere cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo. Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi a un tratto a ristringersi e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia riviera di rincontro; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lasciano l'acqua distendersi e allentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La riviera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il Resegone dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio dai bastioni di Milano che rispondono verso settentrione, non lo discerna tosto, con quel semplice indizio, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon tratto la riviera sale con un pendìo lento e continuo; poi si dirompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura dei due monti e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, interciso dalle foci de' torrenti, è pressochè tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigneti, sparsi di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando egli ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventare città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che imprendiamo di raccontare, quel borgo già considerabile era anche un castello, e aveva perciò l'onore di alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnuoli, che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre, e sul finire della state, non mancavano mai di spandersi nelle vigne, per diradare le uve, e alleggerire ai contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una all'altra di quelle terre, dalle alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano e corrono tuttavia strade e stradette, ripide, acclivi, piane, tratto tratto affondate, sepolte fra due muri, donde, levando il guardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; tratto tratto elevate su aperti terrapieni; e da quivi la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un tratto, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e svariato specchio dell'acqua; di qua lago, chiuso all'estremità o piuttosto smarrito entro un gruppo, un andirivieni di montagne, e di mano in mano più espanso tra altri monti che si spiegano ad uno ad uno allo sguardo, e che l'acqua riflette capovolti, coi paesetti posti in sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur fra i monti, che l'accompagnano, digradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo stesso da cui contemplate que' varii spettacoli, vi fa spettacolo da ogni banda: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili a ogni tratto di mano, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava in sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute. Per una di queste stradicciuole, tornava bel bello dal passeggio verso casa, in sulla sera del giorno 7 di novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, nè il casato del personaggio, non si trovano nel manoscritto, nè a questo luogo nè in seguito. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e alcuna volta, tra un salmo e l'altro, richiudeva il breviario, tenendovi entro, per segno, l'indice della mano destra; e messa poi questa nell'altra dietro le reni, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e rigettando verso il muro col piede i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava la faccia, e girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla schiena d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando pei fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe ed ineguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse ad una rivolta della stradetta, dove era solito di levar sempre gli occhi dal libro e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la rivolta la strada correva diritta forse una sessantina di passi, e poi si divideva in due viottoli a foggia di un ipsilon: a destra saliva verso il monte, ed era la via che conduceva alla cura: il ramo a sinistra scendeva nella valle fino ad un torrente; e da questo lato il muro non giungeva che alle anche del passeggiero. I muri interni dei due viottoli, invece di riunirsi ad angolo, si terminavano in una cappelletta, sulla quale erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, terminate in punta, che nella intenzione dell'artista e agli occhi degli abitanti del vicinato volevano dir fiamme; e alternate colle fiamme certe altre figure da non potersi descrivere, che volevano dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo grigiastro, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltato il canto, dirizzando, come era solito, il guardo alla cappelletta, vide una cosa che non si aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano l'uno rimpetto all'altro al confluente, per dir così, dei due viottoli: l'uno di costoro a cavalcioni sul muricciuolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della via; il compagno in piedi, appoggiato al muro, colle braccia incrocicchiate sul petto. L'abito, il portamento, e quello che dal luogo ov'era giunto il curato si poteva discernere dell'aspetto, non lasciavano dubbio intorno alla loro condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro terminata in un gran fiocco, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi inanellati alle estremità: il lembo del farsetto chiuso in una cintura lucida di cuoio, e a quella appese con uncini due pistole: un picciolo corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come un vezzo: alla parte destra delle larghe e gonfie brache, una taschetta donde usciva un manico di coltellaccio: uno spadone pendente dal lato manco, con una grande elsa traforata a lamine d'ottone congegnate in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie dei bravi. Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante dei suoi caratteri principali, degli sforzi messi in opera per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fino dagli otto d'aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor Don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, publica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi… i quali, essendo forestieri, o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno… ma senza salario, o pur con esso s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale, o mercante… per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri… A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgombrare il paese, intima la galea ai renitenti, e concede a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie, ed indefinite facoltà per l'esecuzione dell'ordine. Ma nell'anno seguente, ai 12 d'aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi… tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, nè scemato il numero, dà fuori un'altra grida ancor più vigorosa e notabile, nella quale fra le altre ordinazioni prescrive: Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonii consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorchè non si venfichi aver fatto delitto alcuno… per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo… et ancorchè non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si ommette, perchè Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno. All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che al rimbombo di quelle, tutti i bravi sieno scomparsi per sempre. Ma la testimonianza di un signore non meno autorevole, nè meno dotato di nomi ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano etc. Ai 5 di giugno dell'anno 1593, pienamente informato anch'egli di quanto danno e rovine sieno… i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che nel termine di giorni sei abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le stesse minacce e le stesse prescrizioni del suo predecessore. Ai 23 poi di maggio dell'anno 1598, informato con non poco dispiacere dell'animo suo che… ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), nè di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii, e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere ajutati dai capi e fautori loro;… prescrive di nuovo gli stessi rimedii, accrescendo la dose, come si usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude egli, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perchè in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua… essendo risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione. Non fu però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano;, non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, ai 5 di Dicembre 1600, una nuova monizione piena di gagliardi provvedimenti, con fermo proponimento che con ogni rigore e senza speranza di remissione siano onninamente eseguiti. Convien credere però ch'egli non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitare nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè per questa parte la storia attesta, come egli riuscisse ad armare contra quel re il duca di Savoia, a cui fece perdere più d'una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perdere la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso dei bravi, certa cosa è che esso continuava a germogliare ai 22 di settembre dell'anno 1612. In quel giorno l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A questo effetto spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti stampatori regii camerali la solita grida, corretta ed accresciuta, perchè la stampassero a sterminio dei bravi. Ma questi vissero ancora per toccare, ai 24 di Decembre dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc. Governatore, etc. Però, non essendo essi morti pure di quelle percosse, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde il passeggio di don Abbondio, s'era trovato costretto a ricorreggere e ripublicare la solita grida contra i bravi, il giorno 5 di ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento. Nè questa fu l'ultima publicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una dei 13 di febbraio dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta a farne certi che nel tempo di cui noi trattiamo c'era dei bravi tuttavia. Che i due descritti di sopra stessero ivi in aspetto di qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quello che più spiacque a don Abbondio fu l'esser chiarito per certi atti, che l'aspettato era egli. Poichè, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa con un movimento, dal quale si scorgeva che tutti e due ad un tratto avevan detto: egli è desso; quegli che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; ed entrambi si avviavano alla volta di lui. Egli, tenendo sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiare le mosse di coloro; e veggendoli venire proprio alla sua volta, fu assalito in un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sè stesso, se fra i bravi e lui vi fosse qualche uscita di strada a dritta o a sinistra; e gli sovvenne tosto di no. Fece un rapido esame per ricercare se avesse peccato contra qualche potente, contra qualche vendicativo; ma anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però si avvicinavano, guardandolo fiso. Si pose l'indice e il medio della sinistra mano nel collare come per rassettarlo, e girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardava colla coda dell'occhio fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Lanciò un'occhiata al di sopra del muricciuolo, nei campi: nessuno; un'altra più modesta sulla via che gli era dinanzi; nessuno, fuorchè i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire: inseguitemi, o peggio. Non potendo schifare il pericolo, gli corse incontro, perchè i momenti di quella incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che di abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete ed ilarità che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso, e quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò sui due piedi. «Signor curato!» disse uno di quei due, piantandogli gli occhi in faccia. «Chi mi comanda?» rispose subito don Abbondio, alzando gli occhi d'in sul libro, e tenendolo spalancato e sospeso con ambe le mani. «Ella ha intenzione» proseguì l'altro col piglio minaccioso ed iracondo di chi coglie un suo inferiore su l'intraprendere una ribalderia «ella ha intenzione di sposare domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!» «Cioè…» rispose con voce tremola don Abbondio: «cioè. Loro signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vadano queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro piastricci fra loro, e poi… poi, vengono da noi come s'andrebbe ad un banco a riscuotere; e noi… noi siamo i servitori del comune.» «Or bene» disse il bravo con voce sommessa, ma in tuono solenne di comando «questo matrimonio non s'ha da fare, nè domani, nè mai.» «Ma, signori miei» replicò don Abbondio, colla voce mansueta e gentile d'un uomo che vuol persuadere un impaziente «ma, signori miei, si degnino di mettersi nei miei panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedono bene che a me non importa nulla…» «Orsù» interruppe il bravo «se la cosa avesse a decidersi a ciarle, ella ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, nè vogliamo saperne di più. Uomo avvertito… ella c'intende.» «Ma codesti signori son troppo giusti, troppo ragionevoli…» «Ma» interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fino allora, «ma il matrimonio non si farà, o… » e qui una buona bestemmia, «o chi lo farà non se ne pentirà, perchè non ne avrà tempo e… » un'altra bestemmia. «Zitto, zitto,» ripigliò il primo oratore, «il signor curato sa il vivere del mondo; e noi siamo galantuomini, che non vogliamo fargli del male quando egli abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.» Questo nome fu nella mente di don Abbondio come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente ed in confuso gli oggetti, e cresce il terrore. Fece egli, come per istinto, un grande inchino, e disse: «se mi sapessero suggerire… » «Oh! suggerire a lei che sa di latino!» interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. «A lei tocca. E sopra tutto non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti… ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimomo. Via, che vuoi ella che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?» «Il mio rispetto… » «Si spieghi, signor curato» «…Disposto… disposto sempre alla ubbidienza.» E proferendo queste parole, non sapeva bene egli stesso se dava una promessa, o se gittava un complimento comunale. I bravi le presero o mostrarono di prenderle nel significato più serio. «Benissimo; e buona notte, signor curato,» disse l'un d'essi, in atto di partire col compagno. Don Abbondio, che pochi momenti prima avrebbe dato un occhio del corpo per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungare la conversazione e le trattative. «Signori…» cominciò egli, chiudendo il libro ad ambe mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada donde egli era venuto, e si dilungarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento colla bocca aperta, come incantato, poscia pigliò anch'egli quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che gli parevano ingranchite, e in uno stato di mente che il lettore comprenderà meglio dopo di avere appreso qualche cosa di più, dell'indole di questo personaggio e della condizione dei tempi in cui gli era toccato di vivere. Don Abbondio (il lettore se ne è già avveduto) non era nato con un cuor di lione. Ma fino dai primi suoi anni, egli aveva dovuto accorgersi che la situazione la più impacciata a quei tempi era quella d'un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione ad essere divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi da far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contra le violenze private. Le leggi anzi venivano giù a dirotta; i delitti erano annoverati, e particolareggiati con minuta prolissità; le pene pazzamente esorbitanti, e se non basta, aumentabili quasi per ogni caso ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiamo riportati delle gride contra i bravi, ne sono un picciolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte per ciò, quelle gride ripublicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l'impotenza dei loro autori; o se producevano qualche effetto immediato, egli era principalmente di aggiungere molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli sofferivano dai perturbatori, e di crescere le violenze e l'astuzia di questi. L'impunità era organizzata, ed aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smuovere. Tali erano gli asili, tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o negati con vane proteste, ma sostenuti di fatto e guardati da quelle classi e quasi da ogni individuo, con attività d'interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, questa impunità minacciata ed insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente ad ogni minaccia, e ad ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuovi ingegni per conservarsi. Così accadeva in fatti; e all'apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevano ben esse inceppare ad ogni passo e molestare l'uomo bonario che fosse senza forza propria e senza protezione; perchè col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario di mille magistrati ed esecutori. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ripararsi a tempo in un convento, in un palazzo dove i birri non avrebbero mal osato por piede; chi, senz'altre misure, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità, e l'interesse d'una famiglia potente, di tutto un ceto; quegli era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi che erano deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall'offenderle per l'amore d'un pezzo di carta affisso agli angoli delle vie. Gli uomini poi incaricati della esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e devoti come martiri, non avrebbero però potuto venirne a capo, inferiori come erano di numero a quelli coi quali si sarebbero posti in guerra, e colla probabilità frequente d'essere abbandonati o anche sagrificati da chi in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma oltracciò costoro erano generalmente dei più abietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro invece di arrischiare, anzi di gettare la vita in una impresa impossibile, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riserbassero ad esercitare la loro esecrata autorità, e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non v'era pericolo, nell'opprimere, cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa. L'uomo che vuole offendere, o che teme ad ogni istante d'essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era in quei tempi portata al massimo punto la tendenza degli individui a tenersi collegati in classi, a formarne di nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a difendere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste picciole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo trovava il vantaggio d'impiegare per sè, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevano di questo vantaggio alla difesa loro; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebbero bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste varie leghe erano molto impari; e nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con un drappello di bravi, e circondato da contadini avvezzi per tradizione famigliare, ed interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere al quale difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere. Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, non animoso, s'era dunque, quasi all'uscire dall'infanzia, avveduto d'essere in quella società come un vaso di terra cotta costretto a far cammino in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi assai di buon grado obbedito ai parenti, che lo vollero prete. Per dire la verità, egli non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: assicurarsi di che vivere con qualche agio, e porsi in una classe riverita e forte, gli erano parute due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non provvede all'individuo, non lo assicura, che fino ad un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente nei pensieri della propria sicurezza, non si curava di quei vantaggi per ottenere i quali fosse mestieri di adoperarsi molto, o di arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansare tutti i contrasti, e nel cedere in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese allora frequentissime tra il clero e le podestà laiche, dai contrasti pure frequentissimi di ufìziali e di nobili, di nobili e di magistrati, di bravi e di soldati, fino alle baruffe tra due contadini, nate da una parola, e decise colle pugna o coi coltelli. S'egli era assolutamente forzato a prender parte fra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro che egli non gli era volontariamente nimico: pareva che gli dicesse: ma perchè non avete saputo essere voi il più forte? io mi sarei posto dalla vostra parte. Stando alla larga dai prepotenti, dissimulando le loro soperchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommessioni a quelle che venissero da una intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi a fargli un sorriso, quando gli incontrava per via, il pover uomo era riuscito a varcare i sessant'anni, senza forti burrasche. Non è però che non avesse anch'egli il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo esercizio di sofferenza, quel dar così sovente ragione altrui, tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse qualche tratto potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute ne avrebbe certamente patito. Ma siccome v'erano poi finalmente al mondo e presso a lui persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così egli poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente concetto, e cavarsi anch'egli la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavano come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno anche lontano pericolo. Il battuto era almeno almeno un imprudente, l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostenere le sue ragioni contra un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perchè la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell'uno. Sopra tutto poi egli declamava contra quei suoi confratelli che, a loro rischio, pigliavano le parti d'un debole oppresso contra un soverchiatore potente. Questo chiamava egli un comprarsi le brighe a contanti, un volere dirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente ch'egli era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contra questi sermonava, sempre a quattro occhi però, o in un picciolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi erano conosciuti per alieni dal risentirsi in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che ad un galantuomo il quale badi a sè e stia ne' suoi panni, non accadono mai brutti incontri. Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, l'incontro che si è narrato. Lo spavento di quei visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere che era costato tanti anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo stretto, scabroso da attraversare, un passo del quale non si vedeva la uscita: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. – Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma egli vorrà delle ragioni; e che cosa ho io da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessuno lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli… ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come… Ragazzacci, che per non saper che fare s'innamorano, vogliono maritarsi, e non pensano ad altro, non si fanno carico dei travagli in che pongono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due fìguracce dovevano proprio piantarsi sul mio cammino, e pigliarla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perchè non sono andati piuttosto a parlare… Oh vedete un po': gran destino che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi mo pensato di suggerir loro che andassero a portare la loro imbasciata… – Ma a questo punto s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza dei suoi pensieri contra quell'altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva egli don Rodrigo che di vista e di fama, nè aveva mai avuto che fare con lui altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che lo aveva scontrato per via. Gli era occorso di difendere in più d'una occasione la riputazione di quel signore, contra coloro che a bassa voce, sospirando, e levando gli occhi al cielo, maledicevano qualche sua impresa: aveva detto cento volte ch'egli era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti quei titoli che non aveva mai udito applicargli da altrui senza interrompere in fretta con un: oibò. Giunto fra il tumulto di questi pensieri alla porta della sua casa, che era in capo del paesello, pose in fretta nella toppa la chiave che già teneva in mano, aperse, entrò, richiuse diligentemente, ed ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò tosto: «Perpetua! Perpetua!» avviandosi pure verso il salotto dove ella doveva essere certamente ad apparecchiare la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognuno se ne avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare secondo l'occasione, tollerare a tempo i brontolamenti e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerare le sue, che divenivano di giorno in giorno più frequenti, dacchè ella aveva passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, com'ella diceva, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le sue amiche. «Vengo,» rispose Perpetua, mettendo sul tavolino al luogo solito il picciol fiasco del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, che egli v'entrò con un passo così avviluppato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmeno bisognati gli occhi esperti di Perpetua per iscoprire a prima giunta che gli era accaduto qualche cosa di bene straordinario. «Misericordia! che ha ella, signor padrone?» «Niente, niente,» rispose don Abbondio, lasciandosi cadere tutto ansante sul suo seggiolone. «Come, niente? A me la vuol dare ad intendere? così brutto, com'è? Qualche gran caso è avvenuto.» «Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.» «Che non può dire nemmeno a me? Chi si piglierà cura della sua salute? Chi le darà un parere?…» «Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.» «Ed ella mi vorrà sostenere che non ha niente!» disse Perpetua, riempiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare. «Date qui, date qui» disse don Abbondio, prendendole il bicchiere con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta come se fosse un'ampolla medicinale. «Vuol ella dunque ch'io sia costretta di domandare qua e là che cosa sia accaduto al mio padrone?» disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi e le gomita appuntate davanti, guardandolo fiso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto. «Per amor del cielo! non mi fate pettegolezzi, non mi fate schiamazzi: ne va… ne va la vita!» «La vita!» «La vita.» «Ella sa bene che ogni volta ch'ella mi ha detto qualche cosa sinceramente in confidenza, io non ho mai…» «Brava! come quando…» Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde cangiando subitamente il tuono: «signor padrone» disse con voce commossa e da commuovere, «io le sono sempre stata affezionata; e se ora voglio sapere, egli è per premura, perchè vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l'animo…» Fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta Perpetua ne avesse di conoscerlo: onde dopo aver rispinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè!, le narrò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, fu d'uopo che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, levando le mani in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: «per amor del cielo!» «Misericordia!» sclamò Perpetua. «Oh che birbone! oh che soperchiante! oh che uomo senza il timor di Dio!» «Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?» «Oh! siamo qui soli che nessuno ci sente. Ma come farà ella povero signor padrone?» «Oh vedete,» disse don Abbondio con voce stizzosa: «vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse ella nell'impaccio, e toccasse a me di cavarnela.» «Ma! io l'avrei ben io il mio povero parere da darle; ma poi…» «Ma poi, sentiamo.» «Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un santo, e un uomo di polso, e che non ha paura di brutti musi, e quando può fare stare un di questi soperchianti per sostenere un curato, ei c'ingrassa; io direi, e dico che ella gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente…» «Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da darsi ad un pover uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena… Dio liberi!, l'arcivescovo me la torrebbe egli via?» «Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi valere, si porta rispetto; e appunto perchè ella non vuoi mai dir la sua ragione, siamo ridotti a segno che tutti ci vengono, con licenza, a…» «Volete tacere?» «Io taccio subito; ma è però certo che quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calarle…» «Volete tacere? È egli tempo da codeste baggianate?» «Basta: ella ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sè, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.» «Ci penserò io,» rispose brontolando don Abbondio «sicuro, io ci penserò, io ci ho da pensare.» E si alzò, continuando «non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che a me tocca pensarci. Ma! la doveva venire in capo proprio a me!» «Mandi almen giù quest'altra gocciola,» disse Perpetua, mescendo. «Ella sa che questo le racconcia sempre lo stomaco.» «Eh! ci vuol altro cerotto, ci vuol altro cerotto, ci vuol altro cerotto.» Così dicendo prese il lume, e brontolando sempre: «una picciola bagattella! ad un galantuomo par mio! e domani come andrà?» ed altre simili lamentazioni, si avviò alla sua camera per coricarsi. Giunto in su la soglia, ristette un momento, si rivolse indietro verso Perpetua, si pose l'indice sulle labbra, e disse con tuono lento e solenne «per amor del cielo!» e disparve. Si narra che il principe di Condè dormì profonda mente la notte che precesse alla giornata di Rocroi: ma, in prima egli era molto affaticato; secondaria mente aveva già dati tutti i provvedimenti necessariie statuito ciò che dovesse fare al mattino. Don Abbondio invece non sapeva altro ancora se non che il domani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non tener conto della intimazione ribalda, nè delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito che egli non volle nemmen porre in deliberazione. Confidare a Renzo l'occorrente, e cercare con lui qualche mezzo… Dio liberi! «Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm!» aveva detto un di quei bravi, e al sentirsi rimbombare quell'ehm! nella mente don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, ma si pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi? Quanti impacci, e quanti conti da rendere! Ad ogni partito che rifiutava, il poveretto si volgeva sull'altro lato. Il partito che gli parve migliore fu di guadagnar tempo, dando ciance a Renzo. Gli sovvenne a proposito, che pochi giorni mancavano al tempo proibito per le nozze, – e se posso tenere a bada per questi pochi giorni quel ragazzone, ho poi due mesi per me; e in due mesi e' può nascere di gran cose. – Ruminò pretesti da porre in campo; e benchè gli paressero un po' leggieri, pure si andava rassicurando col pensiero che l'autorità sua gli avrebbe fatti parere di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. – Vedremo, diceva tra sè: egli pensa all'amorosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare ch'io sono il più accorto: Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo. – Fermato così un po' l'animo ad una deliberazione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottoli, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate. Il primo svegliarsi dopo una sciagura, e in un impaccio, è un momento molto amaro. La mente appena risentita ricorre alle idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia tosto sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò tosto i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, si alzò, e stette aspettando Renzo, con timore e ad un tempo con impazienza. Lorenzo, o come tutti lo chiamavano Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora da potersi presentare al curato senza indiscrezione, vi andò colla lieta pressa d'un uomo di vent'anni che debbe in quel giorno sposare quella ch'egli ama. Era egli fino dall'adolescenza rimasto privo dei parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione negli anni indietro assai lucrosa, allora già in decadimento, ma non però al segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando, ma l'emigrazione continua dei lavoranti attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltracciò possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso nel tempo in cui era disoccupato dal filatoio, di modo che nella sua condizione poteva dirsi agiato. E quantunque quell'anno fosse più scarso ancora degli antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure egli, che da quando aveva posto gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava fornito bastantemente di scorte, e non aveva a piatire il pane. Comparve dinanzi a don Abbondio, in gran gala, con piume di vario colore al cappello, col suo pugnale del bei manico nella taschetta delle brache, con una certa aria di festa e nello stesso tempo di braverìa comune allora anche agli uomini i più quieti. L'accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi gioviali e risoluti del giovinotto. – Che abbia qualche pensiero pel capo, argomentò Renzo tra sè, poi disse: «son venuto, signor curato, per sapere a che ora le convenga che noi ci troviamo in chiesa.» «Di che giorno volete parlare?» «Come, di che giorno? non si ricorda ella che oggi è il giorno stabilito?» «Oggi?» replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi, oggi… abbiate pazienza, ma oggi non posso.» «Oggi non può! che cosa è accaduto?» «Prima di tutto non mi sento bene, vedete.» «Me ne spiace; ma quello ch'ella ha da fare è cosa di sì poco tempo e di sì poca fatica…» «E poi, e poi, e poi…» «E poi che cosa, signor curato?» «E poi c'è degli imbrogli.» «Degl'imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?» «Bisognerebbe essere nei nostri panni, per conoscere quanti impicci c'è in queste materie, quanti conti da rendere. Io sono troppo dolce di cuore, non penso che a tor via gli ostacoli, a facilitare tutto, a far le cose secondo il piacere altrui: e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e peggio.» «Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica una volta che cosa c'è.» «Sapete voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un matrimonio in regola?» «Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa,» disse Renzo cominciando ad alterarsi, «poichè ella me ne ha già rotta bastantemente la testa questi giorni addietro. Ma ora non s'è egli sbrigato ogni cosa? non s'è fatto tutto ciò che si aveva da fare?» «Tutto, tutto, pare a voi: perchè, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora… basta, so quel ch'io dico. Noi poveri curati siamo tra l'ancudine e il martello: voi impaziente, vi compatisco, povero giovane, e i superiori… basta, non si può dir tutto. E noi siamo quegli che ne andiamo di mezzo.» «Ma mi spieghi una volta che cosa è quest'altra formalità che s'ha da fare, come ella dice; e la sarà subito fatta.» «Sapete voi quanti sieno gl'impedimenti dirimenti?» «Che vuol ella ch'io sappia d'impedimenti?» «Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo… Si sis affinis…» «Si piglia ella giuoco di me? Che vuol'ella ch'io faccia del suo latinorum?» «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevene a chi le sa.» «Orsù!…» «Via, caro Renzo, non andate in collera, ch'io son pronto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando penso che stavate così bene; che cosa vi mancava? Vi è venuto il grillo di maritarvi…» «Che discorsi son questi, signor mio?» proruppe Renzo, con un volto tra l'attonito ed il collerico. «Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.» «In somma…» «In somma, fìgliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l'ho fatta io, e prima di conchiudere un matrimonio, noi siamo proprio obbligati a fare molte e molte ricerche, per assicurarci che non vi sieno impedimenti.» «Mo via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?» «Abbiate pazienza, non son cose da potersi diciferare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma nè più nè meno, queste ricerche noi le dobbiamo fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet…» «Le ho detto che non voglio latino.» «Ma bisogna pure che io vi spieghi…» «Ma non le ha già fatte queste ricerche?» «Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.» «Perchè non le ha fatte in tempo? perchè dirmi che tutto era finito? perchè aspettare…» «Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma… ma ora mi son venute… basta, so io.» «E che vorrebbe ella ch'io facessi?» «Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l'eternità: abbiate pazienza.» «Per quanto?» – Siamo a buon porto, pensò tra sè don Abbondio; e con un tratto più manieroso che mai: «via,» disse: «in quindici giorni cercherò di fare…» «Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! Si è fatto tutto ciò ch'ella ha voluto, si è fissato il giorno, il giorno arriva; e ora ella mi viene a dire che aspetti quindici giorni. Quindici…» ripigliò poi, con voce più alta e collerica, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell'aria; e chi sa quale diavoleria egli avrebbe appiccata a quel numero, se don Abbondio, non l'avesse interrotto, prendendogli l'altra mano con una amorevolezza timida e premurosa: «via, via non vi alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se in una settimana…» «E a Lucia che debbo dire?» «Che è stato un mio sbaglio.» «E i discorsi del mondo?» «Dite pure che son io che ho fatto un marrone, per la troppa pressa, per troppo cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.» «E poi, non ci sarà più altri impedimenti?» «Quando vi dico…» «Ebbene: starò cheto per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non mi appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.» E così detto, se ne andò, facendo a don Abbondio un inchino meno profondo del solito, e lanciandogli un'occhiata più espressiva che riverente. Uscito poi nella strada, e camminando a malincuore verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio, e sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda e impacciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme ed impaziente, quei due occhi grigi che, mentre egli parlava, erano sempre andati scappando qua e là, come se avessero paura d'incontrarsi con le parole che gli uscivano di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell'accennare sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro, tutte queste circostanze messe insieme facevano pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto indicare. Stette il giovane in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette e farlo parlar più chiaro; ma levando gli occhi vide Perpetua che gli camminava dinanzi ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, ch'ella apriva lo sportello, studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sull'uscio, e col disegno di scovare qualche cosa di più positivo, si fermò ad appiccare discorso con essa. «Buondì, Perpetua: io sperava che oggi saremmo stati allegri insieme.» «Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.» «Fatemi un piacere: il signor curato mi ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio il perchè egli non può o non vuole maritarci oggi.» «Oh! vi par egli ch'io sappia i segreti del mio padrone?» – L'ho detto io, che c'era misterio sotto, pensò Renzo; e per tirarlo in luce, continuò: «Via, Perpetua, siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.» «Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.» «Gli è vero» ripigliò questi, sempre più confermandosi nei suoi sospetti, e cercando di accostarsi più alla quistione, «gli è vero; ma tocca egli ai preti di trattar male coi poveri?» «Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perchè… non so niente; ma quello di che vi posso assicurare si è che il mio padrone non vuol far torto nè a voi nè a nessuno; e non ci ha colpa.» «Chi è dunque che ci ha colpa?» domandò Renzo, con un cotal atto trascurato, ma col cuor sospeso, e coll'orecchio all'erta. «Quando vi dico che non so niente… In difesa del mio padrone posso parlare; perchè mi fa male sentire che gli si dia cagione di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover uomo! se pecca, è di troppa bontà. C'è bene a questo mondo dei birboni, dei prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…» – Prepotenti! birboni! pensò Renzo: questi non sono i superiori. «Via,» diss'egli poi, nascondendo a stento l'agitazione crescente «via, ditemi chi è.» «Ah! voi vorreste farmi parlare; ed io non posso parlare, perchè… non so niente: quando non so niente, gli è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; egli è tempo perduto per tutti e due.» Così dicendo, entrò in fretta nell'orto, e chiuse lo sportello. Renzo, rispostole un saluto, tornò indietro pian piano, perchè al romore dei passi ella non s'avvedesse del cammino ch'egli prendeva; ma quando fu fuor del tiro delle orecchie della buona donna, studiò il passo; in un momento fu alla porta di don Abbondio, entrò, corse difilato al salotto dove lo aveva lasciato, ve lo trovò, e andò inverso lui con un tratto baldanzoso e con gli occhi arrovellati. «Eh! eh! che novità è questa?» disse don Abbondio. «Chi è quel prepotente,» disse Renzo colla voce d'un uomo che è risoluto di ottenere una risposta precisa: «chi è quel prepotente che non vuole ch'io sposi Lucia?» «Che? che? che?» barbugliò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio come un cencio che esca allora allora del bucato. E pur barbugliando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi alla porta. Ma Renzo che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all'erta, vi balzò prima di lui, la chiuse, e si pose la chiave in tasca. «Ah! ah! parlerà ella ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?» «Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima vostra.» «Penso che lo voglio sapere subito, sul momento.» E così dicendo pose, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dalla tasca. «Misericordia!» sclamò con voce fioca don Abbondio. «Lo voglio sapere.» «Chi v'ha detto?…» «No, no; non più rage. Parli chiaro e subito.» «Volete voi la mia morte?» «Voglio sapere ciò che ho ragione di sapere.» «Ma se parlo, son morto. Non mi ha da premere la mia vita?» «Dunque parli.» Quel «dunque» fu proferito con una tale energia, il volto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non potè più nemmeno supporre la possibilità di disobbedire. «Mi promettete, mi giurate,» diss'egli, «di non parlarne con nessuno, di non dir mai…?» «Le prometto che faccio uno sproposito, se ella non mi dice subito subito il nome di colui.» A quel nuovo scongiuro don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, articolò: «don…» «Don?» ripetè Renzo, come per aiutare il paziente a proferire il resto; e stava curvo con l'orecchio chino su la bocca di lui, con le braccia tese e i pugni stretti indietro. «Don Rodrigo!» proferì in fretta il forzato, affoltando quelle poche sillabe, e radendo le consonanti, parte pel turbamento, parte perchè, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparire la parola, nel punto stesso ch'era costretto a metterla fuori. «Ah cane!» urlò Renzo. «E come ha fatto? Che cosa le ha detto per…?» «Come eh? Come?» rispose con voce quasi sdegnosa don Abbondio, il quale dopo un così gran sagrificio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. «Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me che non c'entro per nulla; che certamente non vi sarebbero rimasti tanti grilli in capo.» E qui si fece a dipingere con colori terribili il brutto incontro; e nel discorrere, accorgendosi sempre più d'una gran collera che aveva in corpo e che fino allora era stata nascosta ed involta nella paura, e veggendo nello stesso tempo che Renzo, tra la stizza e la confusione, stava immobile col capo basso, continuò allegramente: «Avete fatta una bella azione ! Mi avete renduto un bel servigio ! Un tiro di questa sorte ad un galant'uomo, al vostro curato, in casa sua ! in luogo sacro ! Avete fatta una bella faccenda! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò che io vi nascondeva per prudenza, per vostro bene! E adesso mo che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste…! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando questa mattina io vi dava un buon parere… eh! subito nelle furie. Io aveva giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.» «Posso aver fallato,» rispose Renzo con voce raumiliata verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contra il nemico scoperto: «posso aver fallato; ma si ponga la mano al petto, e pensi se nel mio caso…» Così dicendo, egli s'era tratta la chiave di tasca e andava ad aprire. Don Abbondio gli tenne dietro, e mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli fece accanto, e con un volto serio ed ansioso, levandogli dinanzi agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anch'egli alla sua volta, «giurate almeno…» gli disse. «Posso aver fallato; e mi scusi,» rispose Renzo, volgendo l'imposta, e disponendosi ad uscire. «Giurate…» replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio, con la mano tremante. «Posso aver fallato,» ripetè Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la quistione, che al pari d'una quistione di letteratura o di filosofia o d'altro, avrebbe potuto durare dei secoli, giacchè ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento. «Perpetua! Perpetua!» gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più dove si fosse. È accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego porsi a letto con la febbre. Questo ripiego, don Abbondio non lo dovette andare a cercare, perchè gli si offerse da sè. La paura del giorno addietro, la veglia angosciosa della notte, la paura di giunta avuta pur allora, l'ansietà dell'avvenire, fecero l'effetto. Affannato e balordo si ripose egli sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nelle ossa, si guardava le ugne sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremola e stizzosa: «Perpetua!» Ella giunse finalmente con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla non fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglienze, le accuse, le difese, i: «voi sola potete aver parlato,» e i: «non ho parlato,» tutti i garbugli in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di sbarrar ben bene la porta, di non riporvi più il piede, e se alcuno bussasse, di rispondere dalla finestra che il curato s'era posto giù con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo ad ogni terzo scalino, «son servito», e si pose da vero a letto, dove noi lo lasceremo. Renzo intanto camminava a passo concitato verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualche cosa di strano e di terribile. I provocatori, i soperchianti, tutti coloro che in qualunque modo fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovane pacifico e alieno dal sangue, un giovane schietto e abborritore d'ogni insidia, ma in quei momenti il suo cuore non batteva che per l'omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo pel collo, e… ma gli sovveniva ch'ella era come una fortezza, guernita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori, che i soli amici e servitori ben conosciuti vi entravano liberamente, senza essere squadrati dal capo ai piedi; che un artigianello sconosciuto non vi porrebbe il piede senza un esame, e ch'egli sopra tutto… egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. S'immaginava allora di prendere il suo archibugio, di appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passare soletto; e internandosi con feroce compiacenza in quella immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, di alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava l'archibugio, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva per la via del confine a mettersi in salvo. – E Lucia? – Appena questa parola si fu gittata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri ai quali era avvezza la mente di Renzo, v'entrarono in folla. Gli sovvenne degli ultimi ricordi dei suoi parenti, gli sovvenne di Dio, della Madonna e dei Santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata del trovarsi senza delitti, all'orrore che aveva tante volte provato alla novella d'un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, ed insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri traeva seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tale novella? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell'iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un'ombra tormentosa gli passava ad ogni istante per la mente. Quella soperchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una sua brutale passione per Lucia. E Lucia? Che ella avesse dato a colui un menomo appicco, una più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse soggiornare un istante nella testa di Renzo. Ma ne era ella informata? Poteva colui avere conceputa quella infame passione senza che ella se ne avvedesse? Avrebbe egli spinte le cose tant'oltre, prima d'averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui, al suo promesso! Predominato da questi pensieri passò dinanzi alla sua casa che era posta nel mezzo del villaggio, e attraversatolo, si avviò a quella di Lucia che stava alla estremità opposta. Aveva quella casetta un picciol cortile dinanzi, che la separava dalla via, ed era cinto con un muretto. Renzo entrò nel cortile, e intese un misto e continuo gridìo che veniva da una stanza superiore. S'immaginò che sarebbero amiche e comari venute a far corteo a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella novella in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: «lo sposo! lo sposo!» «Zitto, Bettina, zitto!» disse Renzo. «Vien qua; va su da Lucia, pigliala in disparte, e dille all'orecchio… ma che nessun senta, nè sospetti di nulla, ve'… dille che ho da parlarle, che l'aspetto nella stanza terrena, e che venga subito.» La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d'avere una incumbenza segreta da eseguire. Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevano forza perchè si lasciasse vedere; ed ella si andava schermendo con quella modestia un po' guerriera delle foresi, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca si apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti al di sopra della fronte con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevano dietro il capo in cerchi moltiplici di trecce, trapunte da lunghi spilli d'argento che si scompartivano all'intorno quasi a guisa dei raggi d'un'aureola, come ancora usano le contadine del milanese. Intorno alla gola aveva un vezzo di granate alternate con bottoni d'oro a filigrana: portava un bei busto di broccato a fiori con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta a spesse e mnutissime pieghe, due calze vermiglie, due pianelle pur di seta a ricami. Oltre questo, che era l'ornamento particolare del dì delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevano sul volto: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra ad ora ad ora sul volto delle spose, e senza scomporre la bellezza, le dà un carattere particolare. La picciola Bettina si cacciò nel crocchio, si accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualche cosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all'orecchio.«Vado un momento e torno» disse Lucia alle donne, e scese in fretta. Al vedere la faccia mutata ed il portamento inquieto di Renzo, «che cosa c'è?» diss'ella, non senza un presentimento di terrore. «Lucia!» rispose Renzo, «per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.» «Che?» disse Lucia tutta smarrita. Renzo le narrò brevemente la storia di quel mattino: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, «ah!» sclamò, arrossando e tremando, «fino a questo segno!» «Dunque voi sapevate…?» disse Renzo. «Pur troppo!» rispose Lucia «ma a questo segno!» «Che cosa sapevate?» «Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamare mia madre e a congedare le donne: bisogna che siamo soli.» Mentre ella partiva, Renzo susurrò: «non mi avete mai detto niente.» «Ah, Renzo!» rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tuono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch'io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri? Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia) messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all'orecchio, e dallo sparire della figlia, era discesa a vedere che vi fosse di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne ragunate, e componendo l'aspetto e la voce come meglio potè, disse: «il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla.» Ciò detto, le salutò tutte in fretta e ridiscese. Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontare l'accaduto e a verificare se don Abbondio era veramente ammalato. La verità del fatto troncò tutte le congetture che già cominciavano a brulicare nei loro cervelli e ad annunziarsi tronche e misteriose nelle loro parole. Lucia entrò nella stanza terrena, che Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutti e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento il quale non poteva essere che doloroso tutti e due lasciando travedere in mezzo al dolore, e con l'amore diverso che ognun d'essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perchè ella avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese benchè ansiosa di sentir parlare la figlia, non potè tenersi di farle un rimprovero. «A tua madre non dir niente d'una cosa simile!» «Ora vi dirò tutto,» rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiale. «Parla, parla! – parlate, parlate!» gridarono in una volta la madre e lo sposo. «Santissima Vergine!» sclamò Lucia. «Chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno!» E con voce rotta dal pianto raccontò come, pochi giorni prima, mentre ella tornava dalla filanda, ed era rimasta addietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella diceva, non mica belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno appresso coloro s'erano pur trovati sulla strada, ma Lucia era nel mezzo delle compagne con gli occhi bassi; e l'altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. «Per grazia del cielo,» continuò Lucia, «quel giorno era l'ultimo della filanda. Io raccontai subito…» «A chi hai raccontato?» domandò Agnese, andando incontro, non senza un po' di sdegno, al nome del confidente preferito. «Al padre Cristoforo, in confessione, mamma,» rispose Lucia, con un accento soave di scusa. «Gli raccontai tutto l'ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e se avete posto mente, quella mattina io andava mettendo mano ora ad una cosa, ora ad un'altra, per indugiare tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e per fare la strada di compagnia con loro; perchè dopo quell'incontro, le strade mi facevano tanta paura…» Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno di Agnese si raddolcì. «Hai fatto bene,» diss'ella, «ma perchè non raccontar tutto anche a tua madre?» Lucia aveva avute due buone ragioni: l'una di non contristare nè spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar provvedimento; l'altra di non mettere a rischio di viaggiare per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebbero troncata, sul principiare, quella abbominata persecuzione. Di queste due ragioni ella non allegò che la prima. «E a voi,» diss'ella poi, rivolgendosi a Renzo con quella voce che vuol far riconoscere ad un amico ch'egli ha avuto il torto: «e a voi doveva io parlare di questo? Pur troppo lo sapete ora!» «E che ti ha detto il padre?» domandò Agnese. «M'ha detto ch'io cercassi di affrettare le nozze il più che potrei, e intanto mi stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e ch'egli sperava che colui, non mi veggendo, non si curerebbe più di me. E fu allora ch'io mi forzai,» proseguì ella, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in volto, e arrossando tutta, «fu allora ch'io feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di conchiudere prima del tempo che si era stabilito. Chi sa che cosa avrete pensato di me! Ma io faceva per bene ed era stata consigliata, e teneva per certo… e questa mattina io era tanto lontana da pensare…» Qui le parole di Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto. «Ah birbone! ah dannato! ah assassino!» sclamava Renzo scorrendo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tratto in tratto il manico del suo coltello. «Oh che imbroglio, per amor di Dio!» sclamava Agnese. Il giovine si arrestò subitamente dinanzi a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «questa è l'ultima che fa quell'assassino.» «Ah, no, Renzo, per amor del cielo!» gridò Lucia. «No, no, per amor del cielo! Iddio c'è anche pei poveri; e come volete che ci aiuti, se facciamo del male?» «No, no, per amor del cielo!» ripeteva Agnese. «Renzo,» disse Lucia con un'aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: «voi avete un mestiero, ed io so lavorare: andiamo tanto lontano che colui non senta più parlare di noi.» «Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà egli farci la fede di stato libero? Quell'uomo? Se fossimo maritati, oh allora…!» Lucia ricadde nel pianto: e tutti e tre rimasero in silenzio, atteggiati d'un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva dei loro abiti. «Sentite figliuoli; date retta a me,» disse dopo qualche momento Agnese. «Io sono venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi di troppo: il diavolo non è brutto come e' si dipinge. A noi poverelli le matasse paiono più imbrogliate, perchè non sappiamo trovare il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia studiato… so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco, cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli… Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor… Come si chiama mo egli? Oh to'! non lo so il nome vero: lo chiamano tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.» «Lo conosco di vista,» disse Renzo. «Bene,» continuò Agnese: «quegli è un uomo! Ho visto io più d'uno impacciato come un pulcino nella stoppa e che non sapeva dove darsi del capo, e dopo essere stato un'ora a quattr'occhi col dottor Azzecca-garbugli, (badate bene di non chiamarlo così!) l'ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui doveva io tirare il collo, pel banchetto di questa sera, e portateglieli; perchè non bisogna mai andare colle mani vuote da quei signori. Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che egli vi dirà su due piedi di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.» Renzo abbracciò molto volentieri questo parere, Lucia lo approvò, e Agnese, superba di averlo dato, tolse ad una ad una le povere bestie dalla capponaia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago e le consegnò in mano a Renzo che, date e ricevute parole di speranza, uscì per una porticella dell'orto, onde non esser veduto dai ragazzi, che gli correrebbero dietro gridando: lo sposo! lo sposo! Così attraversando i campi, o come dicono colà, i luoghi, se ne andò per viottoli, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie così legate e tenute per le zampe a capo in giù, nella mano d'un uomo che agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che a tumulto gli passavano per la mente, e in certi momenti d'ira o di risoluzione, o di disperazione, stendendo con forza il braccio dava loro di terribili squassi e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate, le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura. Giunto al borgo, chiese dell'abitazione del dottore; gli fu indicata, e vi andò. All'entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i poverelli illetterati provano in vicinanza di un signore e d'un dotto, dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina chiese alla fantesca se si poteva parlare al signor dottore. La fantesca vide le bestie, e come avvezza a simiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo le andasse ritirando, perchè voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli portava qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui, e passate nello studio». Renzo fece un grande inchino al dottore, che lo accolse umanamente con un «venite figliuolo», e lo fece entrare con sè nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale erano distribuiti i ritratti dei dodici Cesari; la quarta coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo una tavola gremita di allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all'intorno, e da un lato un seggiolone a bracciuoli, con un appoggio alto e quadrato, terminato agli angoli da due ornamenti di legno che si alzavano a foggia di corna, coperto di vacchetta con grosse borchie, alcune delle quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli angoli della copertura che si incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una lurida toga, che gli aveva servito molti anni addietro per perorare nei giorni di apparato, quando andava a Milano, per qualche gran causa. Chiuse la porta e fece animo al giovane con queste parole: «figliuolo, ditemi il vostro caso.» «Vorrei dirle una parola in confidenza.» «Son qui,» rispose il dottore: «parlate.» E si assettò sul seggiolone. Renzo, ritto dinanzi alla tavola, facendo rotare colla destra il cappello intorno all'altra mano, ricominciò: «vorrei sapere da lei che ha studiato… » «Ditemi il fatto come sta,» interruppe il dottore. «Ella ha da scusarmi, signor dottore: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere… » «Benedetta gente! siete tutti così: invece di raccontare il fatto, volete interrogare, perchè avete già i vostri disegni in testa.» «Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se a minacciare un curato, perchè non faccia un matrimonio, c'è pena.» – Ho capito, (disse fra sè e se il dottore, che in verità non aveva capito). Ho capito. – E tosto si fece serio, ma d'una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. «Caso serio; figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venire da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e… tenete, in una grida dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore. Adesso adesso, vi faccio vedere e toccar con mano.» Così dicendo, s'alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se gittasse biade in uno stajo. «Dov'è costei? Vieni oltre, vieni oltre. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la debb'esser qui sicuramente, perchè è una grida d'importanza. Ah! ecco, ecco.» La prese, la spiegò, guardò alla data, e fatto un viso ancor più serio, sclamò: «ai 15 di ottobre 1627! Sicuro; è dell'anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo?» «Qualche cosa, signor dottore.» «Or bene, venitemi dietro coll'occhio e vedrete.» E tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, barbugliando a precipizio in alcuni passi e fermandosi distintamente, con grande espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno: «Se bene per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall'Illustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni, et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contra questi Vassalli tanto divoti di S.M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, et la malitia, eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua, eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha risoluto che si pubblichi la presente. E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville, sentite? di questo Stato con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti… eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?» «È il mio caso,» disse Renzo. «Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi, che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera, che quello paghi un debito, quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che fare con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l'uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?» «Pare che abbiano fatta la grida apposta per me.» «Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da Feudatarii, nobili, mediocri, vili, e plebei. Non si scappa: ci sono tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite mo la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benchè siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S.E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera et fino alla morte… una picciola bagattella! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. Et questo ir-re-mis-si-bil-mente et con ogni rigore, eccetera. Ce n'è della roba, eh? E vedete qui le soscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più basso: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente.» Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente coll'occhio, cercando di cavare il costrutto chiaro, e di mirare proprio quelle sacrosante parole che gli parevano dover essere il suo aiuto. Il dottore, veggendo il novello cliente più attento che atterrito, si maravigliava. – Che sia matricolato costui, – diceva tra sè. «Ah! ah!» gli disse poi: «vi siete però fatto radere il ciuffo. Avete avuto prudenza: però volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quello che mi basti l'animo di fare, al bisogno.» Per intendere questa scappata del dottore, bisogna sapere, o ricordarsi, che a quel tempo i bravi di mestiere e i facinorosi d'ogni genere usavano portare un lungo ciuffo, che si tiravano poi sul volto come una visiera all'atto di affrontar qualcheduno, nei casi in cui stimassero necessario di travisarsi, e l'impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale all'arbitrio di Sua Eccellenza. Permette però che per occasione di trovarsi alcuno calvo o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta. E parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, nè capelli più lunghi dell'ordinano, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell'armadura e un distintivo dei bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci avrà forse alcuno dei nostri lettori milanesi che non si ricordi d'avere inteso nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche servo, dire di lui: gli è un ciuffo, gli è un ciuffetto. «In verità, da povero figliuolo,» rispose Renzo, «ch'io non ho mai portato ciuffo in vita mia.» «Non facciamo niente,» rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso tra malizioso e impaziente. «Se non avete fede in me, non facciamo niente. Chi dice bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna contar le cose chiare: a noi tocca poi d'imbrogliarle. Se volete ch'io vi aiuti, bisogna dirmi tutto dall'a alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e in questo caso io andrò da lui a fare un atto di dovere. Non gli dirò mica, vedete, ch'io sappia da voi che vi ha mandato egli: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorare la sua protezione per un povero giovane calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni per finir l'affare lodevolmente. Capite bene che salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purchè non abbiate offesa persona di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio: con un po' di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l'offeso, come si dice: e secondo la condizione, la qualità, e l'umore dell'amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o di appiccargli qualche criminale, e mettergli una pulce nell'orecchio; perchè, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. Quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà in disparte; se fosse un cervellino, c'è provvedimento, anche per quelli. D'ogni intrigo uno si può cavare; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si debbe decidere fra la giustizia e voi, così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, obbedire, fare tutto quello che vi sarà suggerito.» Mentre il dottore mandava fuori questa chiacchierata, Renzo lo stava guardando con una attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al bagattelliere che, dopo d'aversi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quando ebbe però bene inteso che cosa il dottore voleva dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca con queste parole: «Oh! signor dottore, come l'ha ella intesa? la cosa è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di questi lavori io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che io non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d'aver veduta quella grida.» «Diavolo!» sclamò il dottore, sbarrando gli occhi. «Che piastricci mi fate? Tant'è; siete tutti fatti così: possibile che non sappiate dirle chiaro le cose?» «Ma, signor dottore, mi scusi; ella non mi ha dato tempo: ora le conterò la cosa come sta. La sappia dunque ch'io doveva sposare oggi,» e qui la voce di Renzo si commosse, «doveva sposare oggi una giovane, alla quale io parlava fino da quest'estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e si era messo ogni cosa alla via. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l'ho fatto parlare, come era giusto; ed egli mi ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di fare questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…» «Eh via!» interruppe tosto il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, «eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurare le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa che cosa le valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi diciate: io non mi impaccio con ragazzi; non voglio sentire discorsi di questa sorte, discorsi in aria.» «Lo giuro…» «Andate, vi dico: che volete ch'io faccia dei vostri giuramenti? Io non c'entro: me ne lavo le mani.» E le andava fregando e ravvolgendo l'una su l'altra, come se le lavasse realmente. «Imparate a parlare: non si viene a sorprendere così un galantuomo.» «Ma senta, ma senta,» ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre baiando, lo sospingeva con le mani verso la porta; e cacciato che ve l'ebbe, la spalancò, chiamò la serva, e le disse: «restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.» Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch'era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, ch'ella non esitò ad obbedire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un piglio di compassione sprezzante che pareva volesse dire: bisogna che tu l'abbia fatto ben grosso il marrone. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e quegli attonito e trasognato e più stizzato che mai, dovette ripigliarsi le vittime rifiutate e partirsi e tornarsene al paese a riferire alle donne il bei costrutto della sua spedizione. Le donne, nella sua assenza, dopo aver tristamente cangiate le vesti nuziali coll'umile abito quotidiano, si misero a consultare di nuovo, Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato dei grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse, che bisognava vedere d'aiutarsi in tutti i modi; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da dar mano, quando si trattasse di sollevare poverelli, e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò che era accaduto. «Sì bene,» disse Agnese: e si diedero entrambe a cercare il modo; giacchè andar esse al convento distante di là forse due miglia, non era impresa che elleno avessero voluta arrischiare quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio ne avrebbe lor dato il parere. Ma nel mentre che bilanciavano i partiti, si udì un bussare alla porta, e nello stesso momento un sommesso ma distinto Deo gratias. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e tosto, fatto un inchino, entrò infatti un laico cercatore cappuccino, colla sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l'imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto. «Oh fra Galdino!» dissero le due donne. «Il Signore sia con voi» disse il frate. «Vengo per la cerca delle noci.» «Vanne a prender le noci pei padri,» disse Agnese. Lucia si alzò, e s'avviò all'altra stanza, ma prima di entrarvi, ristette dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva dritto nella medesima positura, e ponendosi l'indice sulla bocca, diede alla madre un'occhiata che domandava il segreto, con tenerezza, con supplicazione, ed anche con una certa autorità. Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: «E questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese come una confusione, come qualche cosa che indichi una novità. Che cosa è stato?» «Il signor curato è ammalato, e bisogna differire,» rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segnale, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. «E come va la cerca?» diss'ella poi, per cangiare discorso. «Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui.» E così dicendo, si levò la bisaccia dalle spalle, e la fece saltare fra le due mani. «Son tutte qui; e per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto bussare a dieci porte.» «Ma! l'anno è scarso, fra Galdino; e quando s'ha a litigare col pane, tutto si misura più pel sottile.» «E per far tornare il buon tempo, che rimedio c'è, buona donna? L'elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne molti anni sono, in quel nostro convento di Romagna?» «No, in verità; contate mo.» «Oh! dovete dunque sapere che in quel convento v'era un nostro padre, che era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d'inverno, passando per un viottolo in un campo d'un nostro benefattore, uomo dabbene anch'egli, il padre Macario vide questo benefattore presso ad un suo gran noce; e quattro contadini colle scuri alzate che davano dentro a scalzare la pianta per metterle le radici al sole. – Che fate voi a quella povera pianta? domandò il padre Macario. – Eh, padre, sono anni che non la mi vuol far noci, ed io ne faccio legna. – Non fate, non fate, disse il padre: sappiate che quest'anno la porterà più noci che foglie. Il benefattore, che sapeva chi era colui che avea detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori che gettassero di nuovo la terra sulle radici; e chiamato il padre che continuava la sua strada, – Padre Macario, gli disse, la metà del ricolto sarà pel convento. Andò attorno la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. Infatti a primavera fiori a furia, e poi noci, noci a furia. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di abbacchiarle; perchè andò prima del ricolto a ricevere il merito della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav'uomo aveva lasciato indietro un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, al ricolto, il cercatore andò per riscuotere la metà che era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai inteso dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora che cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e così gozzovigliando, egli raccontava la storia del noce, e rideva dei frati. Quei giovinastri ebbero voglia di andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; ed egli li condusse al granaio. Ma sentite mo: apre la porta, va verso il cantuccio dove era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu egli un esempio questo? E il convento, invece di scapitare per quella elemosina negata, ci guadagnò; perchè, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto e tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d'un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant'olio, che ogni povero veniva a prenderne secondo il suo bisogno; perchè noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.» Qui ricomparve Lucia col grembiale così carico di noci che a fatica lo reggeva, tenendone i due capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi la bisaccia di collo la poneva giù e ne scioglieva la bocca, per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede una occhiata che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augurii, in promesse, in ringraziamenti, e rimessa la bisaccia si avviava. Ma Lucia richiamatolo: «vorrei un servigio da voi,» disse, «vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di venire da noi poverette, subito, subito; perchè non posso venire io alla chiesa.» «Non volete altro? Non passerà un'ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio.» «Mi fido.» «Non dubitate.» E così detto, se n'andò un po' più curvo e più contento di quel che fosse venuto. Al vedere che una povera tosa mandava a chiamare con tanta confidenza il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione senza maraviglia e senza difficoltà, nessuno si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Egli era anzi uomo di molta autorità presso ai suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione dei cappuccini, che nulla paresse per loro troppo basso nè troppo elevato. Servire gl'infimi ed esser servito dai potenti, entrare nei palazzi e nei tugurii collo stesso contegno di umiltà e di sicurezza, essere talvolta nella stessa casa un soggetto di passatempo e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, cercare la limosina da per tutto e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per via, poteva egualmente abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci, che fingendo di essere alle mani fra loro gl'inzaccherassero la barba di fango. La parola frate, in quei tempi era proferita col più grande rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d'ogni altro ordine, erano oggetto dei due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perchè non possedendo nulla, portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione di umiliazioni, si esponevano più da vicino alla venerazione ed al vilipendio che queste cose possono attirare dai diversi umori e dal diverso pensare degli uomini. Partito fra Galdino, «tutte quelle noci!» sclamò Agnese: «in quest'anno!» «Mamma, perdonatemi» rispose Lucia; «ma se avessimo fatta una elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora Dio sa quanto, prima di avere la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e colle ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente…» «Mo, hai pensato bene; e poi poi è tutta carità che porta sempre buon frutto,» disse Agnese, la quale coi suoi difettucci era una buona donna, e si sarebbe, come si dice, sparata per quella unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza. In questa giunse Renzo, ed entrando con la faccia adirata e vergognosa nello stesso tempo, gittò i capponi sur una tavola; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie per quel giorno. «Bel parere che mi avete dato!» diss'egli ad Agnese. «Mi avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli!» E tosto raccontò il suo abboccamento col dottore. La donna stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo doveva non aver saputo far le cose a dovere; ma Lucia interruppe quella quistione, annunziando ch'ella sperava di avere trovato un migliore aiuto. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impaccio. «Ma se il padre», diss'egli, «non ci trova un ripiego, lo troverò io in un modo o nell'altro.» Le donne consigliarono la pace e la pazienza e la prudenza. «Domani», disse Lucia, «il padre Cristoforo verrà sicuramente, e vedrete che troverà qualche rimedio di quelli che noi poveretti non sappiamo nemmeno immaginare.» «Lo spero;» disse Renzo, «ma in ogni caso saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente.» Coi dolorosi colloquii, e colle andate e venute che si sono raccontate, quel giorno era trascorso, e cominciava ad imbrunire. «Buona sera,» disse tristamente Lucia a Renzo che non sapeva risolversi d'andarsene. «Buona sera,» rispose egli ancor più tristamente. «Qualche santo ci aiuterà,» replicò ella. «Usate prudenza, e rassegnatevi.» La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se ne andò col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: «a questo mondo c'è giustizia, finalmente!» Tanto è vero che un uomo sopraffatto da grandi dolori non sa più quello che si dica. Il sole non era ancora tutto apparso sull'orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì del suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dove era aspettato. È Pescarenico una terricciuola sulla riva sinistra dell'Adda, o vogliam dire del lago, pochi passi al di sotto del ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era posto, (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all'entrata della terra, con di mezzo la via che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: a misura che il sole si alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce dalle sommità dei monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per le chine e nella valle: un venticello d'autunno, spiccando dai rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere a qualche passo dall'albero. A dritta e a sinistra, nei vigneti, sui tralci ancor tesi brillavano le foghe rosseggianti a varie tinte; e le aiuole lavorate di fresco spiccavano brune e distinte fra i campi di stoppie biancastre e luccicanti per la guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d'uomo che vi si movesse, contristava lo sguardo e il pensiero. Ad ogni tratto s'incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o indotti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano cheti a canto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e benchè non avessero nulla a sperare da lui, giacchè un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento per la elemosina che avevano ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo dei lavoratori sparsi nei campi aveva non so che di ancor più doloroso. Alcuni andavano gettando le loro sementi, rade, con risparmio e a malincuore, quale chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevano la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella smunta e stecchita, guardava attentamente, e si chinava in fretta, a rubarle per cibo della famiglia qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che gli uomini, potevano pur vivere. Queste viste crescevano ad ogni passo la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore di andare a sentire una qualche sciagura. – Ma perchè pigliava egli tanto pensiero di Lucia? E perchè al primo avviso s'era egli mosso così sollecitamente, come ad una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? – Bisogna soddisfare a tutte queste domande. Il padre Cristoforo da *** era un uomo più presso ai sessanta che ai cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la picciola striscia di capegli che lo cingeva al mezzo come una corona, secondo il costume cappuccinesco, si alzava di tempo in tempo con un movimento che lasciava trasparire un non so che di altero e d'inquieto; e tosto si abbassava per riflessione di umiltà. La barba grigia e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un'astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più dato di gravità che tolto di espressione. Due occhi incavati erano per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano con vivacità repentina, come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno per costume che non si può vincerla, pure danno di tratto in tratto qualche scambietto, che scontano tosto con una buona strappata di morso. Il padre Cristoforo non era sempre stato così, nè sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Ludovico. Era egli figliuolo d'un mercante di *** , (questi asterischi vengono tutti dalla circospezione del mio anonimo) che sugli ultimi anni suoi, trovandosi assai fornito di beni, e con quell'unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s'era dato a vivere da signore. Nel suo nuovo ozio, cominciò ad entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso in far qualche cosa a questo mondo. Predominato da questa fantasia, studiava egli ogni modo di far dimenticare che era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare egli stesso. Ma il fondaco, le balle, il giornale, il braccio, gli comparivano sempre nella memoria, come l'ombra di Banco a Macbeth, anche fra la pompa delle mense e il sorriso dei parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano porre quei poveretti a schifare ogni parola che potesse parere allusiva alla antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una sola, un giorno, in sul finire della tavola, nei momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d'avere apparecchiato, andava egli stuzzicando con superiorità amichevole uno di quei commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questi, per corrispondere alla celia, senza la menoma ombra di malizia, proprio col candore d'un bambino, rispose: «eh, io faccio orecchie da mercante.» Egli stesso fu tosto colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò con faccia incerta alla faccia del padrone, che si era annuvolata: l'uno e l'altro avrebbero voluto riprendere quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano ognuno da per sè al modo di sopire il picciolo scandalo e di fare una diversione; ma pensando, tacevano, ed in quel silenzio lo scandalo era più manifesto. Ognuno scansava d'incontrare gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti erano occupati del pensiero che tutti volevano dissimulare. La gioia per quel giorno se ne andò; e il povero imprudente, o per parlare con più giustizia, disfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Ludovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d'essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comperare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l'aveva pure esercitata per tanti anni, in presenza del publico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la ragione dei tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e di esercizii cavallereschi; e morì lasciandolo ricco e giovanetto. Ludovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, fra i quali era cresciuto, lo avevano avvezzo ad esser trattato con molto rispetto. Ma quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che per vivere in loro compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una ad ogni momento. Un tale modo di vivere non si accordava nè colla educazione, nè colla natura di Ludovico. Si allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano a malincuore; perchè gli pareva che questi veramente avrebbero dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d'inclinazione e di odio, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che fare con loro in qualche modo, si era dato a competere con loro di sfoggio e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole onesta ad un tempo e violenta l'aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva egli un orrore spontaneo e sincero per le angherie e pei soprusi: orrore renduto ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; che erano appunto coloro ch'egli odiava. Per acchetare, o per esercitare tutte queste passioni in un punto, prendeva egli volentieri le parti d'un debole sopraffatto, s'impegnava a fare stare un soverchiatore, s'intrometteva in una briga, se ne recava addosso un'altra; tanto che a poco a poco venne a costituirsi come un protettore degli oppressi e un vendicatore dei torti. L'impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Ludovico avesse nimici, incontri e pensieri. Oltre la guerra esterna, era egli poi tribolato continuamente da contrasti interiori; perchè a spuntare un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto) doveva egli stesso mettere in opera molti mezzi di raggiri e di violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e tanto per la sua sicurezza, quanto per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi, e vivere coi birboni, per amore della giustizia. Tanto che più d'una volta o scoraggiato dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del guardarsi continuo, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell'avvenire per le sue sostanze che disgocciolavano di giorno in giorno in opere buone e in braverie, più d'una volta gli era venuta la fantasia di farsi frate; che a quei tempi era la via più comune per uscire d'impacci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, per un accidente, il più serio e il più terribile che gli fosse ancora incontrato. Andava egli un giorno per una via della sua città, accompagnato da un antico fattore di bottega, che suo padre aveva trasmutato in maggiordomo, e con due bravi alla coda. Il maggiordomo, di nome Cristoforo, era un uomo di circa cinquant'anni, devoto dalla gioventù al padrone che aveva veduto nascere, e colle paghe e colla liberalità del quale viveva egli, e faceva vivere la moglie ed otto figliuoli. Vide Ludovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soperchiatore di professione, col quale egli non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale egli rendeva pur di cuore il contraccambio: giacchè è uno dei vantaggi di questo mondo quello di potere odiare ed essere odiati senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, si avanzava ritto, con passo superbo, colla testa alta, colla bocca composta all'alterigia e allo sprezzo. Tutti e due camminavano rasente il muro; ma Ludovico (notate bene) lo radeva col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a cacciare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro per dar passo a chi che fosse; del che allora si faceva gran caso. Il sopravvegnente teneva all'incontro che quel diritto competesse a lui come a nobile, e a Ludovico toccasse di scendere; e ciò in forza d'un'altra consuetudine. Perocchè in questo, come accade in molti altri affari, vigevano due consuetudini opposte, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s'abbattesse in un'altra della stessa tempra. Quei due si venivano incontro, entrambi stretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono muso a muso, il sopravvegnente, squadrando Ludovico a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse in un tuono corrispondente di voce: «ritiratevi a basso.» «A basso voi,» rispose Ludovico. «La strada è mia.» «Coi pari vostri la strada è sempre mia.» «Sì, se l'arroganza dei pari vostri fosse legge pei pari miei.» I due accompagnamenti erano rimasti fermi, ciascuno dietro il suo capo, guardandosi in cagnesco colle mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che giungeva nella via, si ritraeva, ponendosi in distanza ad osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio dei contendenti. «A basso, vile meccanico; o ch'io t'insegno una volta le creanze che son dovute ai gentiluomini.» «Voi mentite ch'io sia vile.» «Tu menti ch'io abbia mentito.» Questa risposta era di prammatica. «E se tu fossi cavaliere, come son io,» aggiunse quel signore, «ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa che tu sei il mentitore.» «È un buon pretesto per dispensarvi dal sostenere coi fatti l'insolenza delle vostre parole.» «Gittate nel fango questo ribaldo,» disse il gentiluomo rivolto ai suoi. «Vediamo!» disse Ludovico, dando addietro un passo subitamente, e mettendo mano alla spada. «Temerario!» gridò quell'altro, sfoderando la sua: «io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.» Così si avventarono l'uno sull'altro; i servi delle due parti si lanciarono alla difesa dei loro padroni. Il combattimento era disuguale, e pel numero, e anche perchè Ludovico mirava piuttosto a scansare i colpi e a disarmare il nemico che ad ucciderlo; ma questi voleva la morte di lui ad ogni modo. Ludovico aveva già rilevata al braccio sinistro una pugnalata d'un bravo, e una scalfittura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo, quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questi, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò colla spada. A quella vista, Ludovico, come uscito di sè, cacciò la sua nel ventre del provocatore, il quale cadde moribondo, quasi ad un punto col povero Cristoforo. Gli scherani del gentiluomo, vedutolo sul terreno, si diedero alla fuga malconci: quelli di Ludovico, pur tartassati e sfregiati, non v'essendo più cui dare, e non volendo trovarsi impacciati nella gente che già accorreva, se la batterono dall'altra parte: e Ludovico si trovò solo con quei due funesti compagni ai piedi, in mezzo ad una folla. «Com'è andata? – Gli è uno. – Son due. – Gli ha fatto un occhiello nel ventre. – Chi è stato ammazzato? – Quel prepotente. – Oh santa Maria, che sconquasso! – Chi cerca trova. – Un momento le paga tutte. – Anch'egli ha finito. – Che colpo! – Vuol essere una faccenda seria. – E quell'altro disgraziato! – Misericordia! che spettacolo! – Salvatelo, salvatelo. – Sta fresco anch'egli. – Vedete come è concio! va tutto a sangue. – Scappate, pover uomo, scappate! Non vi lasciate pigliare.» Queste parole, che più di tutte si facevano sentire nel frastuono confuso di quella pressa, esprimevano il voto comune; e col consiglio venne anche l'aiuto. Il fatto era accaduto vicino ad una chiesa di cappuccini, asilo, come ognuno sa, impenetrabile allora ai birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone che si chiamava la giustizia. L'uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di senso; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che lo raccomandava a loro, dicendo: «è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l'ha fatto per sua difesa: c'è stato tirato pe' capelli.» Ludovico non aveva mai prima d'allora versato sangue; e benchè l'omicidio fosse a quei tempi cosa tanto comune che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione che egli ricevette dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu nuova ed indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico, l'alterazione di quei tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal furore all'abbattimento ed alla quiete solenne della morte, fu una vista che cangiò in un punto l'animo dell'uccisore. Strascinato al convento, egli non sapeva quasi dove fosse, nè che si facesse; e quando fu tornato nella memoria, si trovò in un letto della infermeria, nelle mani del frate chirurgo, (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento) che aggiustava faldelle e bende sulle due ferite che egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era di assistere ai moribondi, e che aveva spesso renduto di questi ufìzii sulla via, fu chiamato tosto al luogo del combattimento. Tornato pochi minuti dopo, entrò nella infermeria, e fattosi al letto dove Ludovico giaceva, «consolatevi» gli disse: «almeno è morto bene, e mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo.» Questa parola fece rinvenire affatto il povero Ludovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti che erano confusi ed affollati nel suo animo: dolore dell'amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e nello stesso tempo una angosciosa compassione dell'uomo ch'egli aveva ucciso. «E l'altro?» domandò egli ansiosamente al frate. «L'altro era spirato, quand'io arrivai.» Frattanto gli accessi e i contorni del convento formicolavano di popolo curioso: ma giunta la sbirraglia, fece smaltire la folla, e si pose in agguato a una certa distanza dalle porte; in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure armati da capo a piede, con grande accompagnamento di bravi; e si posero a far la ronda intorno, guardando con piglio e con atti di dispetto minaccioso quei musardi, che non osavano dire: ben gli sta; ma lo avevano scritto sui volti. Appena Ludovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono dell'esser egli stato la cagione, quantunque ben certo involontaria di quella desolazione, e nello stesso tempo le desse assicurazione ch'egli si pigliava la famiglia sopra di sè. Riflettendo quindi ai casi suoi sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli s'era girato per la mente: gli parve che Dio stesso lo avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere facendolo giungere in un convento in quella congiuntura: e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli espose il suo disegno. Ne ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che s'egli persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora egli, fatto venire un notaio, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (che era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto ai figliuoli. La risoluzione di Ludovico veniva molto a taglio pei suoi ospiti, che a cagione di lui erano in un bell'intrigo. Rimandarlo dal convento, esporlo quindi alla giustizia, cioè alla vendetta dei suoi nemici, non era partito da metter pure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare ai proprii privilegi, screditare il convento presso tutto il popolo, attirarsi l'animavversione di tutti i cappuccini dell'universo per aver lasciato ledere il diritto di tutti, concitarsi contra tutte le autorità ecclesiastiche, le quali allora si consideravano come tutrici di questo diritto. Dall'altra parte, la famiglia dell'ucciso, potente assai, forte di aderenze, s'era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque volesse porvi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell'ucciso, ne tampoco che una lagrima fosse stata sparsa per lui in tutto il parentado: dice soltanto ch'erano tutti infiammati d'aver nell'unghie l'uccisore vivo o morto. Ora questi vestendo l'abito di cappuccino accomodava ogni cosa. Faceva in certo modo una emenda, s'imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritraeva da ogni gara; era in somma un nemico che depone le armi. I parenti del morto potevano poi anche, se loro piacesse, credere e spampanare ch'egli si era fatto frate per disperazione e per terrore del loro sdegno. E ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, e camminare a pie' nudi, a dormire sulla paglia, a vivere di elemosina, poteva parere una punizione competente anche all'offeso il più borioso. Il padre guardiano si presentò con una umiltà disinvolta al fratello del morto, e dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Ludovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta; insinuando poi soavemente e con ancor più destro modo che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo giusto dolore.» Fece intendere che in ogni caso la sua famiglia avrebbe saputo pigliarsi una soddisfazione; e il cappuccino, che che ne pensasse non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l'uccisore di suo fratello partirebbe tosto di quella città. Il cappuccino che aveva già deliberato di far così, disse che lo farebbe, lasciando che l'altro credesse, se gli aggradiva, esser questo un atto di ubbidienza: e tutto fu conchiuso. Contenta la famiglia, che si toglieva d'un impegno; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo che vedeva uscir d'impaccio un uomo ben voluto, e che nello stesso tempo ammirava una conversione; contento finalmente e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Ludovico, il quale cominciava una vita di espiazione e di servigio che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, lo afflisse un momento; ma tosto si consolò col pensiero che anche quell'ingiusto giudizio sarebbe un castigo per lui, e un mezzo di espiazione. Così a trent'anni si ravvolse nel sacco; e dovendo, secondo l'uso, lasciare il suo nome e prenderne un altro, ne scelse uno che gli richiamasse ad ogni momento ciò ch'egli aveva da espiare; e si chiamò fra Cristoforo. Appena compiuta la cerimonia della vestizione, il guardiano gl'intimò che andrebbe a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all'indomani. Il novizio si chinò profondamente, e chiese una grazia. «Permettetemi, padre,» diss'egli, «che prima di partire da questa città, dove ho sparso il sangue d'un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell'affronto, ch'io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, chiedendo scusa al fratello dell'ucciso, e gli tolga, se Dio il consente, il rancore dall'animo.» Al guardiano parve che un tal atto, oltre ad esser buono in sè, servirebbe a riconciliare sempre più la famiglia col convento; e andò difilato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì insieme con la maraviglia, un risorgimento di sdegno, misto però di compiacenza. Dopo aver pensato un istante, «venga domani,» diss'egli; e indicò l'ora. Il guardiano tornò a portare al novizio la licenza desiderata. Il gentiluomo s'avvisò tosto che quanto più quella sommissione fosse solenne e clamorosa, tanto più crescerebbe il suo credito presso tutta la parentela e presso il publico; e sarebbe (per dirla con una formola di eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che al l'indomani, al mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venire da lui, a ricevere una soddisfazione comune. Al mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d'ogni età e d'ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di grandi cappe, di alte piume, di durlindane pendenti, un muoversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavano di servi, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell'apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma dopo un istante disse tra sè: – sta bene: l'ho ucciso in publico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione. – Così, con gli occhi a terra, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e di mezzo all'altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padrone di casa, il quale circondato dai parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo abbassato, e il mento in aria, impugnando con la sinistra mano il pomo della spada e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto. V'ha talvolta nel volto e nel contegno d'un uomo una espressione così immediata, si direbbe quasi una effusione dell'interno animo, che in una folla di spettatori, il giudizio di quell'animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro a tutti gli astanti, ch'egli non s'era fatto frate nè veniva a quella umiliazione per timore umano e questo cominciò a conciliargli tutti gli animi. Quando egli vide l'offeso, affrettò il passo, gli si pose ginocchione a' piedi, incrocicchiò le mani sul petto, e chinando la sua testa rasa, disse queste parole: «io sono l'omicida di suo fratello. Sa Iddio se io vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma non potendo che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico di accettarle per Dio.» Tutti gli occhi erano immobili sul novizio e sul personaggio a cui egli parlava; tutte le orecchie erano tese. Quando fra Cristoforo tacque, si levò per tutta la sala un mormorio di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d'ira compressa, fu turbato da quelle parole; e chinandosi verso l'inginocchiato, «alzatevi», disse con voce alterata. «L'offesa… il fatto veramente… ma l'abito che portate… non solo questo, ma anche per voi… Si alzi, padre… Mio fratello… non lo posso negare… era un cavaliere… era un uomo… un po' precipitoso… un po' vivo. Ma tutto accade per disposizione di Dio. Non se ne parli più… Ma, padre, ella non debbe stare in codesta positura». E presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi ma col capo chino, rispose: «io posso dunque sperare ch'ella mi abbia accordato il suo perdono! E se l'ottengo da lei, da chi non deggio sperarlo? Oh! s'io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!» «Perdono?» disse il gentiluomo. «Ella non ne ha più bisogno. Ma pure, poichè ella lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti.» «Tutti! tutti!» gridarono ad una voce gli astanti. Il volto del frate si aperse ad una gioia riconoscente, sotto alla quale traspariva però ancora una umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo vinto da quell'aspetto e trasportato dalla commozione generale, gittò le braccia al collo di Cristoforo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace. Un «bravo! bene!» scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servi con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi accomiatare, e gli disse: «padre, gradisca qualche cosuccia; mi dia questa prova di amicizia.» E si mise in atto di servirlo prima d'ogni altro; ma egli ritraendosi con un certo modo di resistenza cordiale, «queste cose,» disse «non fanno più per me; ma tolga il cielo ch'io rifiuti i suoi doni. Io sto per pormi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perchè io possa dire di aver goduta la sua carità, di aver mangiato il suo pane, e tenuto un segno del suo perdono.» Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne tosto un maggiordomo in gran gala, portando un pane sur un bacile d'argento, e lo presentò al padre, il quale presolo e ringraziato, lo pose nella sua sporta. Chiese quindi licenza, e abbracciato di nuovo il padrone di casa, e tutti quelli che trovandosi più presso a lui poterono impadronirsene un momento, si sviluppò da essi a fatica; ebbe a combattere nelle anticamere per isbrigarsi dai servi, ed anche dai bravi, che gli baciavano il lembo dell'abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella via portato come in trionfo, ed accompagnato da una folla di popolo fino ad una porta della città, d'onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio verso il luogo del suo noviziato. Il fratello dell'ucciso, e il parentado, che si erano preparati ad assaporare in quel giorno la trista gioia dell'orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La brigata si trattenne ancora qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, venendo quivi. Invece di soddisfazioni prese, di soprammani vendicati, d'impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno che per la cinquantesima volta avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo in quella famosa congiuntura, fare stare quel marche se Stanislao, che era quel rodomonte che ognuno sa, parlò invece delle penitenze e della pazienza mirabile d'un fra Simone, morto molti anni prima. Sciolta la brigata, il padrone, ancora tutto commosso, riandava tra sè con maraviglia ciò che aveva inteso, ciò ch'egli medesimo aveva detto; e borbottava fra i denti: – diavolo d'un frate! (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) – diavolo d'un frate! se rimaneva ancor lì per qualche momento in ginocchio, quasi quasi gli domandava io scusa che egli mi abbia ammazzato il fratello. – La nostra storia nota espressamente che da quel giorno in poi egli fu un po' meno rovinoso e un po' più alla mano. Il padre Cristoforo camminava con una consolazione quale non aveva provata mai dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva essere consacrata. Ai novizii era imposto silenzio; ed egli serbava senza stento questa legge, tutto assorto nel pensiero delle fatiche, delle privazioni, e delle umiliazioni che avrebbe durate per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all'ora della refezione presso un benefattore, egli mangiò con una specie di voluttà del pane del perdono: ma ne risparmiò un tozzo, e lo ripose nella sporta onde serbarlo come un ricordo perpetuo. Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo sempre di gran voglia e con gran cura gli ufìci che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e di assistere ai moribondi, non lasciava mai sfuggire una occasione di esercitare due altri ufici ch'egli si era imposti da sè: comporre dissidii e proteggere oppressi. In questo genio entrava, senza che egli se ne avvedesse, per qualche parte quella sua vecchia abitudine, e un resticciuolo di spiriti guerreschi, che le umiliazioni e le macerazioni non avevano potuto spegnere del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente piano ed umile; ma quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, si animava in un tratto dell'impeto antico, che misto e modificato da una enfasi solenne venutagli dall'uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l'aspetto, annunziava una lunga guerra tra un'indole subita, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all'erta e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, lo aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni quantunque costumati nel resto, quando la passione trabocca, pronunziano smozzicate, con qualche lettera mutata, parole che in quel travisamento fanno però ricordare della loro energia primitiva. Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse domandato l'aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe accorso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, egli accorse con tanto più di sollecitudine in quanto conosceva ed ammirava l'innocenza di lei, aveva già tremato pei suoi pericoli, e provata una viva indegnazione per la laida persecuzione della quale era divenuta l'oggetto. A tutto ciò si aggiungeva che, avendola egli consigliata per lo migliore di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse avere prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, che era in lui come ingenita, si aggiungeva in questo caso quell'angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni. Ma frattanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, egli è giunto, si è affacciato alla porta; e le donne lasciando il manico dell'aspo che facevano girare e stridere, si sono alzate, dicendo ad una voce: «oh padre Cristoforo! sia benedetto!» Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e appena ebbe traguardate le donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non erano fallaci. Onde, con quel tuono d'interrogazione che va incontro ad una trista risposta, levando la barba con un moto leggiero della testa all'indietro, disse: «e bene?» Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a fare scusa dell'avere osato…, ma egli si avanzò, e postosi a sedere sur un deschetto a tre piedi, troncò tutte le scuse, dicendo a Lucia: «quietatevi, povera figliuola. E voi,» disse poi ad Agnese, «contatemi che cosa c'è!» Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua trista relazione, il frate diventava di mille colori, e quando alzava gli occhi al cielo, quando batteva i piedi. Terminata la storia, si coperse il volto con ambe le mani e sclamò: «o Dio benedetto! fino a quando…!» Ma senza compiere la frase, rivolto di nuovo alle donne: «poverette!» disse: «Dio vi ha visitate. Povera Lucia!» «Non ci abbandonerà, padre?» disse singhiozzando Lucia. «Abbandonarvi!» rispose egli. «Gran Dio! e con che faccia potrei io chiedergli qualche cosa per me, quando io vi avessi abbandonata? Voi in questo stato! Voi, che Egli mi confida! Non vi perdete d'animo: Egli vi assisterà. Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d'un uomo da nulla come son'io per isconfondere un… Vediamo, pensiamo che si possa fare.» Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro in sul ginocchio, chinò la fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme ed unite tutte le potenze dell'animo. Ma la più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante ed intricato, e quanto scarsi, quanto incerti, e pericolosi i ripieghi. – Incutere vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto egli manchi del suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando egli ha paura. E fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella ch'egli ha d'una schioppettata? Informare di tutto il cardinale arcivescovo, e invocare la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand'anche questa infelice innocente fosse moglie, sarebb'egli un freno per quell'uomo…? Chi sa a qual segno possa egli arrivare? E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, quei di Milano! Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l'amico del convento, si spaccia per partigiano dei cappuccini: e i suoi scherani non sono essi venuti più d'una volta a ricoverarsi da noi? Mi troverei solo in ballo; mi buscherei anche del torbido, dell'imbroglione, dell'accattabrighe; e quel che è più, potrei fors'anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa poveretta. – Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito, il migliore gli parve d'affrontare don Rodrigo stesso, tentare di smuoverlo dal suo infame proposito, colle supplicazioni, coi terrori dell'altra vita, di questa anche se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere per questa via più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprire qualche cosa di più delle sue intenzioni, e prender consiglio da ciò. Mentre il frate stava così meditando, Renzo il quale, per tutte le ragioni che ognuno può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso in su la porta; ma visto il padre assorto, e le donne che facevano cenno di non disturbarlo, si teneva sulla soglia in silenzio. Levando la faccia per comunicare alle donne il suo disegno, il frate s'accorse di lui, e lo salutò in un modo che esprimeva una affezione consueta, resa più intensa dalla pietà. «Le hanno detto…, padre?» gli domandò Renzo con voce commossa. «Pur troppo; e per questo son qui.» «Che dice ella di quel birbone…?» «Che vuoi che io dica di lui? È lontano: a che gioverebbero le mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non ti abbandonerà.» «Benedette le sue parole!» sclamò il giovane. «Ella non è di coloro che danno sempre torto ai poverelli. Ma il signor curato e quel signor dottore…» «Non rivangare quello che non può servire ad altro che a crucciarti inutilmente. Io sono un povero frate; ma ti ripeto quello che ho detto a queste donne: per quel poco ch'io sono, non v'abbandonerò.» «Oh, ella non è come gli amici del mondo! Disutilacci! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevano costoro nel buon tempo; eh eh! Erano pronti a dare il sangue per me; mi avrebbero sostenuto contra il diavolo. S'io avessi avuto un nemico?… bastava ch'io mi lasciassi intendere; e' non avrebbe mangiato molto pane. E ora, s'ella vedesse come si ritirano…» A questo punto il parlante, levando gli occhi al volto del suo ascoltatore, vide che s'era tutto rannuvolato, e s'accorse d'aver detto una minchioneria. Ma volendo rattopparla, s'andava intricando e avviluppando: «voleva dire… non intendo mica… cioè, voleva dire… » «Che cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l'opera mia prima ch'ella fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che? tu andavi in cerca di amici… quali amici!… che non ti avrebbero pur potuto aiutare volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l'amico dei tribolati che confidano in Lui? Non sai tu che spiegar le unghie non fa pro al debole? E quando pure…» A questo punto, egli afferrò fortemente il braccio di Renzo il suo aspetto, senza perdere di autorità, si atteggiò di una compunzione solenne, gli occhi si abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: «quando pure il faccia, egli è un terribile pro! Renzo! vuoi tu confidare in me?… che dico in me, uomiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?» «Oh sì!» rispose Renzo. «Quegli è il Signore da vero.» «E bene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che ti lascierai guidare da me.» «Lo prometto.» Lucia mise un gran respiro, come se un peso le venisse tolto da dosso: e Agnese disse: «bravo figliuolo.» «Sentite, figliuoli,» ripigliò fra Cristoforo: «io andrò oggi a parlare a quell'uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: quando che no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi mostrate. Questa sera, o domattina al più tardi, mi rivedrete. » Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S'avviò al convento, giunse a tempo d'andare in coro a salmeggiare, pranzò, e si mise tosto in cammino verso il covile della fiera che aveva tolto ad ammansare. Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca, sulla cima d'uno dei promontorii ond'è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l'anonimo aggiunge che il sito (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del promontorio, dalla parte che guarda all'infuori verso il lago, giaceva un mucchietto di casipole abitate da contadini di don Rodrigo; e quivi era come la picciola capitale del suo picciolo regno. Bastava passarvi per esser chiarito della condizione e dei costumi del paese. Gittando un'occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano appesi alle muraglie archibugi, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e taschette da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s'incontrava erano fanti tarchiati ed arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo e chiuso in una reticella, vecchi che perdute le zanne parevano sempre pronti, chi appena gl'inzigasse, a digrignar le gengive, donne con certe facce maschie e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, alla prima occorrenza: nei sembianti e negli atti dei fanciulli stessi che giucavano per la via, appariva un non so che di arrischiato e di provocativo. Fra Cristoforo attraversò il casale, salì per un sentieruolo a chiocciola, e pervenne sur una picciola spianata, dinanzi al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva essere frastornato. Le rade, e picciole finestre che guardavano nella via, chiuse da imposte sconnesse e cadenti per vetustà, erano però difese da grosse ferriate, e quelle del piano terreno tanto elevate che un uomo avrebbe appena potuto affacciarvisi salendo sulle spalle d'un altro. Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere ch'ella fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, poste in simmetria al di fuori, non avessero dato un indizio di abitanti. Due grandi avoltoi colle ali spalancate, e coi teschi spenzolati, l'uno spennacchiato e mezzo consunto dal tempo, l'altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati ciascuno sur una imposta del portone: e due bravi, sdraiati ciascuno sur una delle panche poste a diritta e a sinistra, facevano la guardia, aspettando d'essere chiamati a godere i rilievi della tavola del signore. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma uno dei bravi si alzò, e gli disse: «padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: ed io vi sono stato in certi momenti che al di fuori non era troppo buon'aria per me; e se mi avessero tenuta la porta chiusa, la sarebbe andata male». Così dicendo battè due colpi del martello. A quel suono risposero tosto di dentro le urla e i guai di mastini e di cagnolini, e pochi momenti dopo giunse borbottando un vecchio servitore; ma veduto il padre, gli fece un grande inchino, acquetò le bestie colle mani e colla voce, introdusse l'ospite in un angusto cortile e richiuse la porta. Scortolo poi in un salotto, e guardandolo con una certa cera maravigliata e rispettosa, disse: «non è ella… il padre Cristoforo di Pescarenico?» «Per l'appunto.» «Ella qui?» «Come vedete, buon uomo.» «Sarà per fare del bene. Del bene,» continuò egli mormorando fra' denti, e rimettendosi in via, «se ne può fare da per tutto.» Scorsi due o tre salotti oscuri, giunsero alla porta della sala del convito. Quivi un gran frastuono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti di stagno, e sopra tutto di voci discordi che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva ritrarsi, e stava litigando sulla porta col servo, per ottenere di esser lasciato in qualche canto della casa fin che il pranzo fosse terminato; quando la porta si aperse. Un certo conte Attilio che stava seduto di contro (era un cugino del padrone di casa; ed abbiamo già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi della intenzione modesta del buon frate, «ehi! ehi!» gridò: «non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti.» Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so quale presentimento confuso, ne avrebbe fatto senza. Ma poichè lo spensierato d'Attilio aveva fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: «venga, padre, venga.» Questi si avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo ad ambe mani alle salutazioni dei commensali. L'uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo colla fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prendere quella attitudine, si richieggono molte circostanze, le quali è ben rado che si riscontrino insieme. Perciò non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa ch'egli veniva a sostenere, e un sentimento misto d'orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert'aria di peritanza e di sommissione al cospetto di quello stesso don Rodrigo, che era lì seduto a scranna, in casa sua, nel suo regno, circondato di amici, d'omaggi, e degli indizii della sua potenza, con una cera da far morire in bocca a chi che sia una domanda, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. A destra di lui sedeva quel conte Attilio suo cugino, e se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare per alcuni giorni con lui. A sinistra, e ad un altro lato della tavola, stava con un gran rispetto, temperato però d'una certa quale sicurezza e d'una certa quale saccenteria, il signor podestà, quegli medesimo al quale, secondo le gride, sarebbe toccato di far giustizia a Renzo Tramaglino, e di applicare a don Rodrigo una di quelle tali pene. Di rincontro al podestà, in atto d'un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzeccagarbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: rimpetto ai due cugini, due convitati oscuri, dei quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, inchinare il capo, sorridere ed approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse. «Da sedere al padre,» disse don Rodrigo. Un servo presentò una scranna, sulla quale si pose il padre Cristoforo facendo qualche scusa al signore dell'esser venuto in ora inopportuna. «Bramerei di parlarle da solo a solo, per un affare d'importanza,» soggiunse egli, poi con voce più sommessa, all'orecchio di don Rodrigo. «Bene, bene, parleremo;» rispose questi: «ma intanto si porti da bere al padre.» Il padre voleva schermirsi, ma don Rodrigo levando la voce in mezzo al trambusto che era ricominciato, gridava: «no per bacco, la non mi farà questo torto; non sarà mai che un cappuccino si parta da questa casa senza aver gustato del mio vino, nè un creditore insolente senza avere assaggiato della legna dei miei boschi.» Queste parole furono susseguite da un riso universale, e interruppero un momento la quistione che si agitava caldamente fra i commensali. Un servo, portando sur un bacile un'ampolla di vino, e un lungo bicchiero a foggia di calice, lo presentò al padre, il quale, non volendo resistere ad un invito tanto pressante dell'uomo che egli aveva tanto bisogno di farsi propizio, non esitò a mescere, e si pose a sorbire lentamente il vino. «L'autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi sta contro di lei;» riprese ad urlare il conte Attilio: «perchè quell'uomo erudito, quell'uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo di Argante prima di esporre la sfida ai cavalieri cristiani, domandi licenza al pio Buglione…» «Ma questo» replicava non meno urlando il podestà, «questo è un sopra più, un mero sopra più, un ornamento poetico, giacchè il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E i proverbii, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto…» «Ma quando vorrà ella capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime…?» «Con buona licenza delle signorie loro,» interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la quistione andasse troppo oltre: «rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza.» «Bene, benissimo,» disse il conte Attilio al quale parve cosa molto garbata il far decidere una quistione di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà più infervorato di cuore nella quistione, s'acchetava a stento, e con una smorfia leggiera che pareva volesse dire: ragazzate. «Ma, da quel che mi pare d'avere inteso,» disse il padre, «non sono cose di cui io debba aver cognizione.» «Solite scuse di modestia di loro padri;» disse don Rodrigo: «ma non mi scapperà. Eh via! sappiamo bene ch'ella non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo lo ha conosciuto. Via, via. Ecco la quistione.» «Il fatto è questo,» cominciava a gridare il conte Attilio. «Lasciate dir me, che sono neutrale, cugino,» riprese don Rodrigo. «Ecco la storia. Un cavaliere spagnuolo manda una sfida ad un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello ad un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta…» «Ben date, bene applicate,» gridò il conte Attilio. «Fu una vera inspirazione.» «Del demonio,» soggiunse il podestà. «Battere un ambasciatore! persona sacra! Anch'ella, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.» «Signor sì, da cavaliere,» gridò il conte: «e lo lasci dire a me che debbo intendermi di ciò che compete a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un'altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è il perchè le premano tanto le spalle d'un mascalzone.» «Chi le ha mai parlato delle spalle, signor conte mio? Ella mi fa dire spropositi che non mi sono mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto delle leggi della cavalleria. Mi dica un po' in grazia, se i feciali che gli antichi romani mandavano ad intimar le sfide agli altri popoli, domandavano licenza di esporre l'ambasciata: e mi trovi un po' uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.» «Che hanno a far con noi gli oficiali degli antichi romani? gente che andava alla buona, e che in queste cose era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, che è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano ad un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo…» «Risponda un po' a questo sillogismo.» «Niente, niente, niente.» «Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percuotere un disarmato è atto proditorio. Atqui il messo de quo era senz'arme. Ergo…» «Piano, piano, signor podestà.» «Come, piano?» «Piano, le dico: che mi vien ella a contare? Atto proditorio è ferire uno colla spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e anche per questo, ponno darsi certi casi… ma stiamo nella quistione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastoriate ad un paltoniere! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe ad un galantuomo: mano alla spada. – Ed ella, signor dottore riverito, invece di farmi dei sogghigni, per darmi ad intendere che è del mio parere, perchè non sostiene le mie ragioni colla sua buona tabella, per aiutarmi a far entrare la ragione in capo a questo signore?» «Io…» rispose confusetto il dottore: «io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell'accidente che ha dato occasione ad una guerra d'ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice… qui il padre…» «È vero;» disse don Rodrigo: «ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono tacere?» «Ammutolisco,» disse il conte Attilio. Il podestà fece pur cenno che tacerebbe. «Ah finalmente! A lei, padre,» disse don Rodrigo con una serietà mezzo beffarda. «Ho già fatte le mie scuse col dire che non me ne intendo,» rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere ad un servo. «Scuse magre:» gridarono i due cugini: «vogliamo la sentenza.» «Quand'è così,» riprese il frate, «il mio debole parere sarebbe che non vi fossero nè sfide, nè portatori, nè bastonate.» I commensali si guardarono l'un l'altro maravigliati. «Oh questa è grossa!» disse il conte Attilio. «Mi perdoni, padre, ma la è grossa. Si vede che ella non conosce il mondo.» «Egli?» disse don Rodrigo. «Ah! ah! lo conosce, cugino, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica se non ha fatta la sua carovana?» Invece di rispondere a questa benevola interpellazione, il padre disse una parolina in segreto a sè medesimo: – queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto. – «Sarà,» disse il cugino: «ma il padre… come si chiama il padre?» «Padre Cristoforo» rispose più d'uno. «Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, ella vorrebbe mandare il mondo sossopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d'onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.» «Alto, dottore,» scappò su don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, «alto, a voi, che per dar ragione a tutti siete un uomo. Vediamo un po' come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.» «In verità,» rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, «in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l'uomo di mondo, non abbia posto mente che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non vale niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalieresca. Ma il padre sa meglio di me che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che questa volta abbia voluto cavarsi con una celia dall'impiccio di proferire una sentenza.» Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate. Ma don Rodrigo, per voler troncare quella quistione, ne venne a suscitare un'altra. «A proposito,» diss'egli, «ho inteso che a Milano correvano voci di accomodamento. » Il lettore sa che in quell'anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata prole maschile, era entrato in possesso il duca di Nevers suo parente più prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, voleva sostenervelo, perchè suo ben affetto e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d'Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non ve lo voleva, per le stesse ragioni, e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell'impero, così le due parti s'adoperavano con pratiche, con istanze, con minacce presso l'imperator Ferdinando II, la prima perchè accordasse l'investitura al nuovo duca; la seconda perchè gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato. «Non son lontano dal credere,» disse il conte Attilio, «che le cose si possano aggiustare. Ho certi argomenti…» «Non creda, signor conte, non creda,» interruppe il podestà. «Io, in questo cantoncello, posso saperle le cose; perchè il signor castellano spagnuolo, che per sua degnazione mi vuole un po' di bene, e per esser figliuolo d'un creato del conte duca è informato d'ogni cosa…» «Le dico che a me occorre ogni giorno di parlare in Milano con altri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com'è per la pace, ha fatto proposizioni…» «Così debb'essere, la cosa è in regola, sua santità fa il suo dovere; un papa dee sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e…» «E, e, e; sa ella, signor mio, come la pensi l'imperatore in questo momento? Crede ella che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? Le cose da provvedersi son molte, signor mio. Sa ella, per esempio, fino a che segno l'imperatore possa fidarsi in questo momento di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, come che lo chiamino, e se…» «Il nome legittimo in lingua alemanna,» interruppe ancora il podestà, «è Vagliensteino, come l'ho inteso proferire più volte dal nostro signor castellano spagnuolo. Ma stia pure di buon animo, che…» «Vuol ella insegnarmi…?» insorgeva il conte, ma don Rodrigo gli disse col ginocchio che per amor suo cessasse dal contraddire. Quegli tacque, e il podestà, come un naviglio disimpacciato da una secca, continuò a vele gonfie il corso della sua eloquenza. «Vagliensteino mi dà poco fastidio: perchè il conte duca ha l'occhio a tutto, e da per tutto; e se Vagliensteino vorrà fare il bell'umore, saprà ben egli farlo andar diritto, colle buone o colle cattive. Ha l'occhio da per tutto, dico, e le mani lunghe; e se ha fisso il chiodo, come lo ha fisso, e giustamente, da quel gran politico ch'egli è, che il signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers non ve le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell'acqua. Mi fa pur ridere quel caro signor cardinale a voler cozzare con un conte duca, con un Olivares. Dico il vero che vorrei rinascere di qui a dugent'anni, per sentire che cosa diranno i posteri di questa bella pretensione. Ci vuol altro che invidia; testa vuol essere: e teste come la testa d'un conte duca ce n'è una sola al mondo. Il conte duca, signori miei,» proseguiva il podestà, sempre col vento in poppa, e un po' maravigliato anch'egli di non incontrar mai uno scoglio: «il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che farebbe perder la traccia a chi che sia: e quando accenna a destra, si può esser sicuro che batterà a sinistra: ond'è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che debbono metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscono niente. Io posso parlare con qualche cognizione di causa; perchè quel brav'uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa appuntino che cosa bolle in pentola di tutte le altre corti; e tutti que' politiconi, che ve n'ha di dritti assai, non si può negare, hanno appena immaginato un disegno, che il conte duca te lo ha già indovinato, con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con quei suoi fili tesi da per tutto. Quel pover'uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s'ingegna: che è? quando è riuscito a scavare una mina, trova la contrammina già bell'e fatta dal conte duca…» Sa il cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche dalle smorfie del cugino, accennò ad un servo che recasse un certo fiasco. «Signor podestà,» disse don Rodrigo, «e signori miei; un brindisi al conte duca, e mi sapranno poi dire se il vino sia degno del personaggio.» Il podestà rispose con un inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare, perchè tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, egli lo riteneva in parte come fatto per sè. «Viva mill'anni don Gasparo Guzman, conte d'Olivares, duca di san Lucar, gran privato del re don Filippo il grande, nostro signore!» sclamò egli, innalzando il bicchiere. Privato, chi nol sapesse, era il termine in uso a quel tempo per significare il favorito di un principe. «Viva mill'anni!» risposero tutti. «Servite il padre,» disse don Rodrigo. «Mi perdoni,» rispose quegli: «ma ho già fatto un disordine, e non potrei…» «Come!» disse don Rodrigo: «si tratta d'un brindisi al conte duca. Vuol dunque far credere ch'ella tenga dai navarrini?» Così dicevano ai partigiani de' francesi: e la parola era nata probabilmente nel tempo che al re di Navarra Enrico IV si contendeva la successione al trono di Francia, e veniva anch'egli da' suoi avversarii chiamato il navarrese. A tale scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in lodi del vino; fuor che il dottore, il quale col sollevar del capo, coll'intendere degli occhi, col serrar delle labbra, diceva, tacendo, più d'ogni altro. «Che ve ne pare eh, dottore?» domandò don Rodrigo. Tirato fuori dal bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: «dico, proferisco, e sentenzio che questo è l'Olivares dei vini: censui, et in eam ivi sententiam che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e diffinisco che i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene di Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove regna e siede la splendidezza.» «Ben detto! ben diffinito!» gridarono in coro i commensali: ma quella parola, carestia, ch'egli aveva gittata a caso, rivolse in un punto tutte le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavano d'accordo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che se vi fosse stato disparere. Tutti parlavano in una volta. «Non c'è carestia,» diceva uno: «sono gli ammassatori che…» «E i fornai,» diceva un altro, «che nascondono il grano. Impiccarli.» «Sì bene, impiccarli, senza misericordia.» «Dei buoni processi,» gridava il podestà. «Che processi?» gridava più forte il conte Attilio: «giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che per la voce publica son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.» «Esempii! esempii! senza esempii non si fa nulla.» «Impiccarli! impiccarli e scaturirà grano da tutte le parti.» Chi, passando per una fiera, s'è trovato a godere l'armonia che fa una brigata di cantambanchi, quando tra una sonata e l'altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente in mezzo al romore degli altri, s'immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. Si andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com'era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica, cosicchè le parole che si udivano più sonore e più frequenti erano: ambrosia, e impiccarli. Don Rodrigo intanto adocchiava di tempo in tempo il frate; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d'impazienza nè di pressa, senza fare atto che tendesse a ricordare ch'egli stava quivi aspettando; ma in aria di non volersi partire prima d'essere stato ascoltato. Lo avrebbe egli mandato a spasso volentieri, e fatto senza quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poichè la seccaggine non si poteva scansare, si risolse d'affrontarla tosto, e di liberarsene; si levò di tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il gridìo. Egli, chiesta licenza agli ospiti, si avvicinò in atto contegnoso al frate che si era tosto alzato con gli altri; gli disse: «ai suoi ordini padre,» e lo condusse seco in un'altra sala. «In che posso obbedirla?» disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui erano proferite, voleva dire chiaramente: bada a cui tu stai dinanzi, pesa le tue parole, e sbrigati. Per dare animo al nostro fra Cristoforo non v'era mezzo più sicuro e più spedito che apostrofarlo con piglio arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere fra le dita le pallottoline del rosario che teneva a cintola, come se in qualcuna di quelle sperasse di trovare il suo esordio, a quel contegno di don Rodrigo, si sentì tosto venire su le labbra più cose da dire che non facesse mestieri. Ma pensando tosto quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò che era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si erano presentate alla mente, e disse con guardinga umiltà: «vengo a proporle un atto di giustizia, a supplicarla d'una carità. Certi uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura ad un povero curato e stornarlo dal compire il suo dovere; e per sopraffare due innocenti. Ella può con una parola confondere coloro, rimetter tutto nell'ordine, e sollevare quelli a cui è fatto così gran torto. Lo può; e potendolo… la coscienza, l'onore…» «Ella mi parlerà della mia coscienza, quand'io crederò di chiederlene consiglio. Quanto al mio onore ella ha da sapere che il custode ne sono io, ed io solo; e che chiunque ardisce ingerirsi a divider con me questa cura, io lo riguardo come il temerario che l'offende.» Fra Cristoforo avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non gli dar luogo di venire alle strette, s'impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all'altro di dire, e rispose tosto con un tuono sommesso: «se ho detto cosa che le dispiaccia, certo, ciò è accaduto contra ogni mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio al cui cospetto tutti dobbiamo comparire…» e così dicendo, aveva preso fra mano e poneva dinanzi agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno appeso al suo rosario, «non si ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a dei poverelli. Pensi che Dio ha gli occhi sempre sopra di loro, e che le loro imprecazioni sono ascoltate lassù. L'innocenza è potente al suo…» «Eh padre!» interruppe bruscamente don Rodrigo: «il rispetto che io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso ad uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.» Questa parola fece salire una fiamma sulle guance del frate: ma col sembiante di chi inghiotte un'amarissima medicina, egli riprese: «ella non crede che un tal titolo mi si convenga. Ella sente in cuor suo che l'atto ch'io faccio ora qui, non è nè vile nè spregevole. Mi ascolti, signor don Rodrigo; e faccia il cielo, che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia ripor la sua gloria… qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Ella può molto quaggiù; ma…» «Sa ella,» disse, interrompendo con istizza ma non senza qualche raccapriccio, don Rodrigo, «sa ella che quando mi viene il ghiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh!» e continuò con un sorriso forzato di scherno: «ella mi tratta per da più ch'io non sono. Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi.» «E quel Dio che domanda conto ai principi della parola che fa loro intendere nelle loro reggie, quel Dio le fa ora un tratto di misericordia mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregare per una innocente…» «In somma, padre,» disse don Rodrigo, facendo atto di partire, «io non so quello, ch'ella si voglia dire: non capisco altro se non che vi debb'essere qualche fanciulla che le preme assai. Vada a fare le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la sicurtà d'infastidire più a lungo un gentiluomo.» Al muoversi di don Rodrigo, il frate s'era mosso, gli si era posto riverentemente dinanzi, e levate le mani come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: «la mi preme, è vero, ma non più di lei; sono due anime che entrambe mi premono più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso fare altro per lei che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tenere nell'angoscia e nel terrore una poverella innocente. Una parola di lei può far tutto.» «E bene,» disse don Rodrigo, «giacchè ella crede che io possa far molto per quèsta persona; giacchè questa persona le sta tanto a cuore…» «E bene?» riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l'atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano di abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole. «E bene, la consigli di venirsi a mettere sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà inquietarla, o ch'io non son cavaliere.» A proposta siffatta, l'indegnazione del frate compressa a stento fino allora, traboccò. Tutti quei bei proponimenti di prudenza e di pazienza svanirono: l'uomo vecchio si trovò d'accordo col nuovo; e in quei casi fra Cristoforo valeva veramente per due. «La vostra protezione!» sclamò egli, dando indietro due passi, appoggiandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull'anca, levando la sinistra coll'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la vostra protezione! Bene sta che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura; e non vi temo più.» «Come parli, frate?» «Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Io sapeva bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora con tanta certezza che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome colla fronte alta, e cogli occhi immobili.» «Come! in questa casa…!» «Ho compassione di questa casa: la maledizione le è sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà rispetto a quattro pietre e a quattro scherani. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine per darvi il diletto di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete sprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurato quanto il vostro, e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e quanto a voi, sentite bene quello che io vi prometto. Verrà un giorno…» Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia attonito, non trovando parole; ma quando sentì intonare una predizione, un lontano e misterioso spavento s'aggiunse alla stizza. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e levando la voce per troncar quella dell'infausto profeta, gridò: «levamiti dinanzi, villano temerario, poltrone incappucciato.» Queste parole così precise, acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All'idea di strapazzo e di villania era nella sua mente così bene e da tanto tempo associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che a quel complimento gli cadde ogni spirito d'ira e di entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che di udire tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse di aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo e rimase immobile, come al cader del vento, nel forte della burrasca, un'antica pianta ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la gragnuola come la manda il cielo. «Villan rifatto!» proseguì don Rodrigo: «tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di paltoniere, e ti salva dalle carezze che si fanno ai pari tuoi, per insegnar loro a parlare. Esci colle tue gambe, per questa volta; e la vedremo.» Così dicendo, additò con impero sprezzante una porta opposta a quella per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, ed uscì, lasciando don Rodrigo a misurare a passi concitati il campo di battaglia. Quando il frate ebbe serrato l'uscio dietro a sè, vide nell'altra stanza dove entrava, un uomo tirar pian piano lunghesso la parete, come per non esser veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore che era venuto a riceverlo alla porta della strada. Stava costui in quella casa da quarant'anni, cioè fin da prima che don Rodrigo nascesse; entratovi ai servigi del padre, il quale era stato un tutt'altr'uomo. Lui morto, il nuovo padrone, dando lo sfratto a tutta la famiglia e facendo nuova brigata, aveva però ritenuto quel servo, e perchè già vecchio, e perchè sebbene d'ingegno e di costume diverso interamente dal suo, ricomperava però questo difetto con due qualità: un alto concetto della dignità della casa, e una grande pratica del cerimoniale, di cui conosceva meglio di ogni altro le più antiche tradizioni e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si sarebbe mai arrischiato di accennare non che di esprimere la sua disapprovazione di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione, qualche rimprovero fra i denti ai suoi colleghi di servizio; i quali se ne divertivano, e lo mettevano anzi talvolta sul discorso, provocandolo a fare una predica e a ricantare le lodi dell'antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non venivano agli orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle baie che se n'erano fatte; dimodochè riuscivano anche per lui un soggetto di scherno senza risentimento. Nei giorni poi d'invito e di ricevimento, il vecchio diventava un personaggio serio e d'importanza. Il padre Cristoforo lo guardò passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il vecchio se gli fece accosto misteriosamente, si pose l'indice sulla bocca, e poi coll'indice stesso gli fece un cenno d'invito ad entrare seco lui in un andito oscuro. Trattolo quivi, gli disse sotto voce: «padre, ho inteso tutto, e ho bisogno di parlarle.» «Dite su tosto, buon uomo.» «Qui no: guai se il padrone s'avvede… Ma io potrò saper molte cose; e vedrò di venir domani al convento.» «C'è qualche disegno?» «Qualche cosa nell'aria c'è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò sull'avviso, e saprò tutto. Lasci fare a me. Mi tocca di vedere e di sentir cose… cose di fuoco! Sono in una casa…! Ma io vorrei salvare l'anima mia.» «Dio vi benedica!» e proferendo sommessamente queste parole, il frate pose la mano sul capo del servo, che quantunque più vecchio di lui, gli stava curvo dinanzi nell'attitudine d'un figliuolo. «Dio vi ricompenserà,» proseguì il frate: «non mancate di venir domani.» «Verrò,» rispose il servo: «ma ella vada tosto e… per amor del cielo… non mi tradisca.» Così dicendo, e guatando intorno, egli uscì per l'altro capo dell'andito in un salotto, che metteva al cortile; e veduto il campo libero chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell'ultima parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servo gli additò l'uscita, ed egli senza fare altro motto, partì. Quel servo era stato ad origliare all'uscio del suo padrone: aveva egli fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarnelo? Secondo le regole più comuni e più acconsentite, la è cosa molto disonesta; ma quel caso non poteva riguardarsi come una eccezione? E v'ha egli delle eccezioni alle regole più acconsentite? Sono quistioni che il lettore risolverà da sè, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizii: ci basta di aver dei fatti da raccontare. Uscito nella via, e volte le spalle a quella caverna, fra Cristoforo respirò più liberamente, e si affrettò giù per la discesa tutto infocato in volto, commosso e rimescolato, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva inteso, e per quel che aveva detto. Ma quella proferta così inaspettata del servo era stata un gran cordiale per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione. – Ecco un filo, pensava egli, un filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza che io sognassi pure di cercarlo! – Così ruminando, levò gli occhi verso l'occidente, vide il sole inclinato che già già toccava la cima del monte, e pensò che ben poco rimaneva del giorno. Allora, benchè sentisse le ossa gravi e fiaccate dai varii strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo, per poter riportare un avviso, qual ch'ei fosse, ai suoi protetti, e arrivar poi al convento prima di notte: che era una delle leggi più assolute, e più severamente mantenute del codice cappuccinesco. Intanto nella casetta di Lucia erano stati messi in campo e ventilati disegni dei quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, i tre rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia ammanendo tristamente il desinare; Renzo in fra due, movendosi ad ogni istante per togliersi dallo spettacolo di lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta in apparenza all'aspo che faceva girare. Ma nel vero ella stava maturando una pensata; e quando le parve matura, ruppe il silenzio in questi termini: «Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto fa mestieri, se vi fidate di vostra madre,» quel vostra fece trasalire Lucia, «io m'impegno a cavarvi di questo impiccio, meglio forse e più presto del padre Cristoforo, quantunque egli sia quell'uomo ch'egli è.» Lucia ristette e la guardò con un volto che esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e Renzo disse subitamente: «cuore? destrezza? dite, dite quel che si può fare.» «Non è egli vero,» proseguì Agnese, «che se voi foste maritati, sarebbe già un bell'innanzi? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego?» «C'è dubbio?» disse Renzo: «maritati che fossimo… Tutto il mondo è paese; e a due passi di qui, su quel di Bergamo, chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte. Sapete quante volte Bortolo mio cugino mi ha fatto sollecitare d'andarvi a star con lui, che farei fortuna, come ha fatto egli: e se non gli ho mai dato retta, gli è… che serve? perchè il mio cuore era qui. Maritati, si va tutti insieme, si fa casa colà, si vive in santa pace, fuor dell'unghie di questo ribaldo, lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N'è vero, Lucia?» «Sì,» disse Lucia: «ma come…!» «Come ho detto io,» ripigliò Agnese: «cuore e lestezza; e la cosa è facile.» «Facile!» dissero ad una quei due, per cui la cosa era divenuta tanto stranamente e dolorosamente diffìcile. «Facile, a saperla fare,» replicò Agnese. «Ascoltatemi bene, che vedrò di farvela intendere. Io ho udito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io un caso, che per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia; basta che ci sia.» «Come sta questa faccenda?» domandò Renzo. «Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimonii ben lesti e ben d'accordo. Si va dal parroco: il punto sta di chiapparlo all'improvvista, che non abbia tempo di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimonii sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; tutto è niente, siete marito e moglie.» «Possibile!» sclamò Lucia. «Come!» disse Agnese: «state a vedere che in trent'anni che sono stata al mondo prima di voi altri, io non avrò imparato niente. La cosa è tal quale io ve la dico: per segno tale che una mia amica che voleva torre uno contra la volontà dei parenti, facendo a quel modo, ottenne l'intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all'erta; ma i due diavoli seppero far così pulito, che lo arrivarono in un punto giusto, dissero le parole, furono marito e moglie: benchè la poveretta se ne pentì poi in capo di tre giorni.» La cosa stava di fatto come Agnese l'aveva rappresentata: le nozze contratte a quel modo erano in allora, e furono fino ai nostri giorni tenute per valide. Siccome però non ricorreva ad un tale espediente se non chi avesse trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi ponevano gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e quando un d'essi venisse pure sorpreso da una di quelle coppie accompagnata da testimonii, tentava ogni via di scapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza. «Se fosse vero, Lucia!» disse Renzo, adocchiandola con una cera di aspettazione supplichevole. «Come! se fosse vero!» ripigliò Agnese. «Anche voi credete ch'io dica fandonie. Io mi affanno per voi, e non son creduta: bene bene; cavatevi d'impaccio come potete: io me ne lavo le mani.» «Ah no! non ci abbandonate,» disse Renzo. «Parlo così, perchè la cosa mi par troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se mi foste la madre da vero.» Queste parole fecero svanire il cruccio istantaneo d'Agnese, e dimenticare un proponimento, che per verità non era stato che di parole. «Ma perchè dunque, mamma,» disse con quel suo contegno sommesso Lucia, «perchè questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo?» «In mente?» rispose Agnese: «pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne avrà voluto parlare.» «Perchè?» dimandarono a un tratto i due giovani. «Perchè… perchè, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene.» «Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quando è fatta?» disse Renzo. «Che volete che vi dica io?» rispose Agnese. «La legge l'hanno fatta gli altri, come è piaciuto loro; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose… Ecco; gli è come lasciare andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma dato che gliel abbiate, non glielo può tor via nè anche il papa.» «Se è cosa che non istà bene,» disse Lucia, «non bisogna farla.» «Che!» disse Agnese, «ti vorrei io forse dare un parere contra il timor di Dio? Se fosse contra la volontà dei tuoi parenti, per torre uno scavezzacollo… ma contenta me, e per torre questo figliuolo; e chi fa tutto il disturbo è un birbone; e il signor curato…» «L'è chiara come il sole,» disse Renzo. «Non bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa;» proseguì Agnese: «ma fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che sia per dirti il padre? –Ah figliuola! è una scappata grossa; me l'avete fatta. – I religiosi debbono parlar così. Ma credi pure che in cuor suo ne sarà anch'egli contento.» Lucia, senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava però molto capace: ma Renzo tutto rincorato disse: «quando è così, la cosa è fatta.» «Piano,» disse Agnese. «E i testimonii? E trovare il verso di cogliere il signor curato, che da due giorni se ne sta rintanato in casa? E farlo star lì? che benchè sia gravaccio di sua natura, vi so dir io che al vedervi comparire in quella conformità, diventerà lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall'acqua santa.» «Ho trovato io il verso, l'ho trovato,» disse Renzo, battendo il pugno sulla tavola, tal che fece trasaltare le stoviglie apparecchiate pel desinare. E seguitò esponendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto. «Sono garbugli,» disse Lucia: «non le son cose nette. Finora abbiamo operato sinceramente: tiriamo innanzi con fede; e Dio ci aiuterà: il padre Cristoforo lo ha detto. Sentiamo il suo parere.» «Lasciati guidare da chi ne sa,» disse Agnese con volto grave. «Che bisogno c'è di domandar pareri? Dio dice: aiutati, che ti aiuterò. Al padre racconteremo tutto dopo il fatto.» «Lucia,» disse Renzo, «volete voi mancarmi ora? Non avevamo noi fatto tutto da buoni cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva egli stesso dato il giorno e l'ora? E di chi è la colpa se dobbiamo ora aiutarci con un po' d'ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno colla risposta.» E salutando Lucia con un atto di supplicazione, e Agnese con una cera d'intelligenza, partì in fretta. La vessazione, suol dirsi, dà intelletto: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano di vita percorso da lui fino allora, non s'era mai trovato nella occasione di assottigliar molto il suo, ne aveva in questo caso immaginata una da fare onore ad un giureconsulto. Andò a dirittura, secondo che aveva divisato, alla casetta che era lì presso d'un certo Tonio; e lo trovò in cucina, che con un ginocchio appoggiato sulla predella del focolare, e tenendo con la destra l'orlo d'una pentola posta sulle ceneri calde, vi tramestava col matterello ricurvo una picciola polenta grigia di grano saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, stavano seduti alla mensa; e tre o quattro figliuoletti ritti all'intorno, aspettando, con gli occhi fissi alla pentola, che venisse il momento di rovesciarla. Ma non v'era quell'allegria che la vista del pranzo suol pur dare a chi l'ha meritato colla fatica. La mole della polenta era in ragione dei tempi, e non del numero e della buona voglia dei commensali: e ognuno d'essi, affisando con un guardo bieco d'amore collerico la vivanda comune, pareva pensare alla porzione di appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo scambiava i saluti colla famiglia, Tonio riversò la polenta sul tagliere di faggio che stava apparecchiato a riceverla: e parve una picciola luna in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: «volete restar servito?» complimento che il contadino di Lombardia non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand'anche questi fosse un ricco epulone levatosi allora da tavola, ed egli fosse su l'ultimo boccone. «Vi ringrazio,» rispose Renzo: «io veniva solamente per dire una parolina a Tonio; e se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, noi possiamo andare a desinare all'osteria, e parleremo.» La proposta fu per Tonio tanto gradita quanto meno aspettata; e le donne non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. L'invitato non istette a domandare altro, e partì con Renzo. Giunti all'osteria del villaggio, seduti a tutto loro agio in una perfetta solitudine giacchè la miseria aveva svezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie, fatto recare quel poco che si trovava, votato un boccale di vino, Renzo con aria di mistero disse a Tonio: «se tu vuoi farmi un picciolo servigio, io ne voglio fare un grande a te.» «Parla, parla; comandami pure,» rispose Tonio, mescendo. «Oggi io andrei nel fuoco per te.» «Tu sei in debito di venticinque lire col signor curato per fitto del suo campo che lavoravi l'anno passato.» «Ah, Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Che mi vieni tu ora a menzionare? M'hai fatto passare la buona voglia.» «Se ti parlo del debito,» disse Renzo: «egli è perchè, se tu vuoi, io intendo di darti il modo di pagarlo.» «Dì tu da vero?» «Da vero. Eh? saresti contento?» «Contento? Per diana, se sarei contento! Se non foss'altro, per non veder più quelle smorfie e quei segni del capo che mi fa il signor curato, ogni volta che c'incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo per quel negozio? A segno tale che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi addosso, io sto quasi in timore ch'egli abbia a dirmi lì in publico: quelle venticinque lire! Che maladette sieno le venticinque lire! E poi, mi avrebbe a restituire la collana d'oro di mia moglie, che la cangerei in tanta polenta. Ma…» «Ma, ma, se tu mi vuoi fare un servigetto, le venticinque lire sono apparecchiate.» «Dì su.» «Ma…!» disse Renzo, ponendosi l'indice a croce su le labbra. «Fa egli bisogno di queste cose? tu mi conosci.» «Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio matrimonio; ed io vorrei spicciarmi. Mi dicono mo di sicuro che, andandogli dinanzi i due sposi con due testimonii, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e fatto. M'hai tu inteso?» «Tu vuoi ch'io venga per testimonio?» «Sì bene.» «E pagherai per me le venticinque lire?» «Così la intendo.» «Birba chi manca.» «Ma bisogna trovare un altro testimonio.» «L'ho trovato. Quel martorello di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli pagherai da bere?» «E da mangiare,» rispose Renzo. «Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà egli fare?» «Gl'insegnerò io: tu sai bene che io ho avuta anche la sua parte di cervello.» «Domani…» «Bene.» «Sulla bass'ora…» «Benone.» milestone unit="comma" n="55"/>«Ma!…» disse Renzo, mettendo ancora l'indice sulle labbra. «Poh!…» rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e levando la sinistra mano, con un atto del volto che diceva: mi fai torto. «Ma se tua moglie ti dimanda, come senza dubbio ti dimanderà…» «Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a saldare il conto. Qualche pastocchia troverò, da metterle il cuore in pace.» «Domattina,» disse Renzo, «ci accorderemo meglio, per fare andar la cosa pulito.» Con questo uscirono dell'osteria, Tonio avviandosi a casa e studiando la fandonia che racconterebbe alle donne, e Renzo a render conto dei concerti presi. In questo mezzo Agnese s'era affaticata invano a persuadere la figlia. Questa andava ad ogni ragione opponendo or l'una, or l'altra parte del suo dilemma: o la cosa è cattiva, e non si vuoi farla; o non è, e perchè non comunicarla al padre Cristoforo? Renzo arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un ahn? interiezione milanese che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di meglio? vi sarebbe ella venuta in mente?, e cento cose simili. Lucia scrollava mollemente il capo; ma i due infervorati le badavano poco, come si suol fare con un fanciullo, al quale si dispera di fare intendere tutta la ragione d'una cosa, e che si indurrà poi colle preghiere e colla autorità a ciò che si vuole da lui. «Va bene,» disse Agnese: «va bene: ma… non avete pensato a tutto.» «Che ci manca?» rispose Renzo. «E Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Ella lascerà ben entrar Tonio e suo fratello; ma voi! voi due! Pensate! avrà ordine di tenervi lontani più che un ragazzo da un pero che ha i frutti maturi.» «Come faremo?» disse Renzo, entrato in pensiero. «Vedete mo? ci penso io. Verrò io con voi, ed ho io un segreto per attirarla, e per incantarla di maniera ch'ella non si accorga di voi, e voi possiate entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda… vedrete.» «Benedetta voi!» sclamò Renzo: «l'ho sempre detto che voi siete il nostro aiuto in tutto.» «Ma tutto questo non serve a nulla,» disse Agnese, «se non si persuade costei, che si ostina a dire che è peccato.» Renzo pose anch'egli in campo la sua eloquenza; ma Lucia non si lasciava smovere. «Io non so che dire a queste vostre ragioni;» diceva ella: «ma vedo che, per far questa cosa come dite voi, bisogna andare innanzi a furia di soppiatterie, di bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiamo cominciato così. Io voglio esser vostra moglie,» e non c'era verso ch'ella potesse proferire quella parola e spiegare quella intenzione, senza farsi tutta di fuoco in volto: «io voglio esser vostra moglie, ma per la via dritta, col timor di Dio, all'altare. Lasciamo fare a Quel di lassù. Non volete ch'Egli sappia trovare il bandolo d'aiutarci, meglio che non possiamo far noi con tutte codeste furberie? E perchè far misteri al padre Cristoforo?» La disputa durava tuttavia, e non pareva presso a risolversi, quando un calpestìo affrettato di sandali e un romore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i buffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo. Si fece silenzio; e Agnese ebbe appena il tempo di susurrare all'orecchio di Lucia: «guardati bene di dirgli nulla.» Il padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon capitano che, perduta senza sua colpa una battaglia importante, afflitto ma non iscorato, sopra pensiero ma non istordito, a corsa e non in fuga, si porta ove il bisogno lo chiede a premunire i luoghi minacciati, a rassettare le truppe, a dar nuovi ordini. «La pace sia con voi,» diss'egli entrando. «Non v'è nulla da sperare dall'uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.» Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacchè il vedere un potente recedere da una soperchieria, senza essere sopraffatto da un'altra forza, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piuttosto inaudita che rara; nullameno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell'animo di Renzo l'ira prevalse all'abbattimento. Quell'annunzio lo trovava già amareggiato ed accanito da una seguenza di sorprese dolorose, di tentativi falliti, di speranze deluse, e per sopra più inacerbito in quel momento dalle ripulse di Lucia. «Vorrei sapere,» gridò egli, digrignando i denti ed alzando la voce quanto non aveva mai fatto dinanzi al padre Cristoforo, «vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere… per sostenere che la mia sposa non debb'essere la mia sposa.» «Povero Renzo!» rispose il frate, con un accento di pietà e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza: «se il potente che vuol commettere l'ingiustizia fosse sempre obbligato a dire le sue ragioni, le cose non andrebbero come vanno.» «Ha detto dunque, il cane, che non vuole, perchè non vuole?» «Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commettere l'iniquità, dovessero confessarla apertamente.» «Ma qualche cosa ha dovuto dire: che cosa ha detto quel tizzone d'inferno?» «Le sue parole, io le ho intese, e non te le saprei ripetere. Le parole dell'iniquo che è forte penetrano e sfuggono. Egli può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e nello stesso tempo farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e domandar ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chiedere più oltre. Colui non ha proferito il nome di questa innocente nè il tuo, non ha mostrato pur di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma… ma pur troppo ho dovuto capire ch'egli è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d'animo: e tu, Renzo… oh! credi pure, ch'io so vestirmi i tuoi panni, ch'io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! E una magra parola, una parola amara, per chi non crede: ma tu… ! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo ch'Egli vuol prendere per far venire al di sopra la buona ragione? Il tempo è suo; ed Egli ce ne ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi… sappiate tutti ch'io tengo già un filo per aiutarvi. Per ora non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; debbo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, fa di venirvi: o se per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, pel quale io possa farvi sapere quello, che occorrerà. Si fa notte; conviene ch'io corra al convento. Fede, coraggio; e buona sera.» Detto questo, uscì frettolosamente e se ne andò saltelloni giù per quel viottolo torto e sassoso, per non giugner tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona gridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza che lo impedisse il domani di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il servigio dei suoi protetti. «Avete inteso che cosa ha detto d'un non so che… d'un filo ch'egli tiene per aiutarci?» disse Lucia. «Convien fidarsi di lui; è un uomo che quando promette dieci…» «Se non c'è altro…! » interruppe Agnese. «Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o almeno tirar me in disparte e dirmi che cosa sia questo…» «Chiacchiere! la finirò io: io la finirò!» interruppe alla sua volta Renzo, andando furiosamente innanzi e indietro per la stanza, e con una voce, con un volto da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole. «Oh Renzo!» sclamò Lucia. «Che volete dire?» sclamò Agnese. «Che bisogno c'è di dire? La finirò io. Abbia pure cento, mille diavoli nell'anima, finalmente è di carne e d'ossa anch'egli.» «No, no, per amor del cielo…!» cominciò Lucia, ma il pianto le troncò la voce. «Non son discorsi da fare nè anche per baia,» ripigliò Agnese. «Per baia?» gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati, «Per baia! vedrete se sarà baia.» «Oh Renzo!» disse Lucia a stento fra i singhiozzi, «non vi ho mai veduto così.» «Non dite di queste cose, per amor del cielo,» ripigliò ancora in fretta Agnese, bassando la voce. «Non vi ricordate quante braccia egli tiene ai suoi comandi? E ancor che… Dio liberi!… contra i poveri c'è sempre giustizia.» «La farò io la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch'io. E' si guarda bene il cane assassino: sa come sta: ma non importa. Pazienza, e risoluzione… e il momento arriva. Sì, la farò io la giustizia: lo libererò io il paese: quanta gente mi benedirà…! E poi in quattro salti…!» L'orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede animo a parlare. Levando dalle palme la faccia lagrimosa, disse a Renzo con voce accorata, ma risoluta: «non v'importa più dunque di avermi per moglie. Io m'era promessa ad un giovane che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse… Fosse egli al sicuro di ogni giustizia e d'ogni vendetta, fosse il figlio del re…» «E bene!» gridò Renzo, con una faccia più che mai stravolta: «io non v'avrò; ma non vi avrà nè anche egli. Io qui senza di voi, ed egli a casa del…» «Ah no! per misericordia, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così,» sclamò piangendo, implorando, giungendo le mani, Lucia; mentre Agnese chiamava ripetutamente il giovane per nome, e gli palpava le spalle, le braccia, le mani, per rabbonirlo. Stette egli immobile, pensoso, quasi smosso un momento a contemplare quella faccia supplichevole di Lucia; poi tutto ad un tratto l'affisò torvamente, diede indietro, tese il braccio e l'indice verso di essa, e proruppe: «questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!» «Ed io che v'ho fatto di male, perchè mi facciate morire?» disse Lucia, gettandosi alle sue ginocchia. «Voi!» diss'egli con una voce che esprimeva un'ira ben diversa, ma un'ira tuttavia: «voi! Che bene mi volete voi? Che prova mi avete dato? Non v'ho io pregata, e pregata, e pregata? Ho io potuto ottenere…?» «Sì sì,» rispose precipitosamente Lucia: «verrò dal curato domani, adesso, se volete, verrò. Tornate quello di prima; verrò.» «Me lo promettete?» disse Renzo, con una voce e con una cera divenuta ad un tratto più umana. «Ve lo prometto.» «Me lo avete promesso.» «Ah! Signore, vi ringrazio!» sclamò Agnese, doppiamente contenta. In mezzo a quella sua escandescenza, Renzo aveva egli avvertito di che profitto poteva essere per lui lo spavento di Lucia? E non aveva egli adoperato un po' di artificio a crescerlo per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; ed io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Fatto sta ch'egli era realmente fuor de' gangheri contra don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor di un uomo, nessuno, nè anche il paziente, può sempre discernere chiaramente l'una voce dall'altra, e dire con sicurezza quale sia quella che predomini. «Ve l'ho promesso;» rispose Lucia con un accento di rimprovero timido ed affettuoso: «ma voi pure avevate promesso di non fare scandali, di rimettervene al padre…» «Oh via! per amor di chi vado io in furia? Volete voi ora tirarvene indietro? E farmi fare uno sproposito?» «No no,» disse Lucia pronta a ricadere nello spavento. «Ho promesso, e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia…» «Perchè volete fare dei cattivi augurii, Lucia? Dio sa che non facciamo torto a nessuno.» «Promettetemi almeno che questa sarà l'ultima.» «Ve lo prometto, da povero figliuolo.» «Ma questa volta mantenete poi,» disse Agnese. Qui l'autore confessa di non sapere un'altra cosa: se Lucia fosse assolutamente e per ogni parte malcontenta d'essersi trovata costretta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio. Renzo avrebbe voluto prolungare il colloquio, e divisare partitamente il da farsi nel dì seguente; ma era notte scura, e le donne gliel'augurarono buona; non parendo loro cosa conveniente ch'egli dimorasse più a lungo in quell'ora. La notte però fu a tutti e tre così buona come può essere quella che succede ad un giorno pieno di agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato ad una impresa importante e di esito incerto. Renzo si fece vedere di buon mattino, e concertò colle donne o piuttosto con Agnese la grande operazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antiveggendo contrattempi, e ricominciando, or l'uno or l'altra, a descrivere la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di fare il meglio che saprebbe. «Andrete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come egli vi ha detto ier sera?» domandò Agnese a Renzo. «Zucche!» rispose questi: «sapete che diavoli d'occhi ha il padre: mi leggerebbe in volto, come sur un libro, che c'è qualche cosa nell'aria; e se cominciasse a farmi degli interrogatorii, non potrei uscirne a bene. E poi io ho a star qui, per accudire alle cose. Sarà meglio che mandiate voi un qualcheduno.» «Manderò Menico.» «Sì bene,» rispose Renzo; e partì per accudire alle cose, come aveva detto. Agnese andò alla casa vicina a dimandare di Menico: un garzoncello di dodici anni circa, svegliato assai, e che per via di cugini e di cognati, veniva ad essere un po' nipote della donna. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto quel giorno, «per un certo servigio», diceva ella. Avutolo, lo condusse nella sua cucina; gli diede da colezione, e gl'impose che ne andasse a Pescarenico, e si mostrasse al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi con una risposta, quando sarebbe tempo. «Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, colla barba bianca, quel che chiamano il santo…» «Ho capito,» disse Menico: «quegli che accarezza sempre i ragazzi, e che dà loro di tempo in tempo qualche immagine.» «Appunto, Menico. E s'egli ti dirà che tu aspetti qualche tempo lì presso al convento, non ti sviare: bada di non andare cogli altri ragazzi al lago a far saltellare le piastrelle nell'acqua, nè a veder pescare, nè a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, nè…» «Poh, zia; non sono poi un ragazzo.» «Bene, abbi giudizio, e quando tornerai colla risposta… guarda; queste due belle parpagliole nuove sono per te.» «Datemele ora, che…» «No, no, tu le giucheresti. Va e portati bene, che ne avrai anche di più.» Nel rimanente di quella lunga mattina si videro certe novità che misero non poco in sospetto l'animo già conturbato delle donne. Un mendico, nè sfinito nè cencioso come i suoi pari, e con un non so che di oscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a domandare per Dio, gettando qua e là certi occhi da spione. Gli fu sporto un pezzo di pane ch'egli ricevette e ripose con una indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi con una certa impudenza e nello stesso tempo con esitazione, facendo molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò di rispondere sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per partire, finse di errare la porta, entrò per quella che metteva alla scala, e quivi die' d'occhio in fretta, quanto potè. Gridatogli dietro: «ehi ehi! dove andate galantuomo? per di qua,» tornò, e uscì per la porta che gli veniva indicata, scusandosi con una sommessione, con una umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti rubesti e duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere di tempo in tempo altre strane figure. Che razza d'uomini fossero, non si sarebbe potuto trovar facilmente, ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevano parere. Quale entrava col pretesto di chiedere della via; altri giunti dinanzi alla porta allentavano il passo, e sogguardavano a traverso il cortile nella stanza, come chi vuol vedere senza dar sospetto. Finalmente verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì. Agnese si alzava di tempo in tempo, attraversava il cortile, si faceva all'uscio di strada, guatava a dritta e a sinistra, e tornava dicendo: «nessuno:» parola ch'ella proferiva con piacere, e che Lucia con piacere intendeva senza che nè l'una nè l'altra sapessero ben chiaramente il perchè. Ma ne rimase ad entrambe una perturbazione indeterminata che portò lor via, e alla figlia principalmente, una gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera. Convien però che il lettore sappia qualche cosa di più preciso intomo a quei ronzatori misteriosi: e per informamelo ordinatamente, noi dobbiamo tornare un passo addietro, e ritrovare don Rodrigo, che abbiamo lasciato ieri dopo il pranzo, soletto in una sala del suo palazzotto, al partire del padre Cristoforo. Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro a gran passi quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col muso ad una parete, e dava di volta, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore dei nemici e de' suoi soldati, torvo nella guardatura, i corti capegli irti sulla fronte, le basette tirate e appuntate che sporgevano dalle guance, il mento obliquo: ritto in piedi l'eroe, colle gambiere, coi cosciali, colla corazza, coi bracciali, coi guanti, tutto di ferro, colla destra compressa sul fianco, e la manca mano sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava, e quando gli era arrivato sotto e voltava, ecco in faccia un altro antenato magistrato, terrore dei litiganti, seduto sur un'alta scranna di velluto rosso, involto in un'ampia toga nera, tutto nero fuorchè un collare bianco con due larghe facciuole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo dei senatori, e non lo portavano che il verno; ragione per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d'estate); squallido, colle ciglia aggrottate; teneva in mano una supplica e pareva dicesse: vedremo. Di qua una matrona terrore delle sue damigelle, di là un abate terrore dei monaci; tutta gente in somma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle immagini. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più si arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace che un frate avesse osato venirgli addosso colla prosopopea di Nathan. Formava un disegno di vendetta, lo abbandonava, pensava come soddisfare ad un tempo alla passione, e a ciò ch'egli chiamava onore; e talvolta (vedete un po'!) sentendosi rifischiare agli orecchi quel cominciamento di profezia, rabbrividiva istantaneamente, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servo, e gli ordinò che lo scusasse alla brigata, dicendo ch'egli era trattenuto da un affare urgente. Quando il servo tornò a riferire che que' signori erano partiti lasciando i loro ossequii: «e il conte Attilio?» domandò sempre passeggiando don Rodrigo. «È uscito con quei signori, illustrissimo signore.» «Bene: sei persone di seguito pel passeggio: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito.» Il servo partì, rispondendo con un inchino; e poco stante tornò colla ricca spada, che il padrone si cinse; colla cappa, ch'egli si gittò sulle spalle; col cappello a grandi piume, ch'egli si pose e inchiodò con una palmata fieramente sul capo: segno di marina gonfiata. Si mosse, e sulla soglia trovò i sei cagnotti tutti armati, i quali, fatto ala ed inchino, gli tennero dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritraevano rasente il muro, e di quivi facevano scappellate e inchini profondi, ai quali egli non rispondeva. Come inferiori lo inchinavano pur quelli che da questi eran detti signori; chè in tutto il contorno non ve n'era uno che potesse a gran pezza competere con lui di nome, di ricchezze, di aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò per istar sopra gli altri. E a questi egli corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva ch'egli s'incontrasse nel signor castellano spagnuolo, l'inchino allora era egualmente profondo dalle due parti: la cosa era come fra due potentati, i quali non abbiano nulla da partire tra loro; ma per convenienza fanno onore al grado l'uno dell'altro. Per passare un po' la mattana, e per contrapporre all'immagine del frate che gli assediava la fantasia, volti ed atti in tutto diversi, don Rodrigo entrò quel giorno in una casa dov'era raccolta una brigata, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e riverente che è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e finalmente, a notte fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era rientrato in quel punto; e fu servita la cena, alla quale don Rodrigo sedette sopra pensiero, e, parlò poco. «Cugino, quando pagate questa scommessa?» disse con una cera maliziosa e beffarda il conte Attilio, levate appena le tavole, e partiti i servi. «San Martino non è ancor passato.» «Tanto fa che la paghiate tosto; perchè passeranno tutti i santi del taccuino, prima che…» «Questo è quello che si ha da vedere.» «Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e tanto son certo di aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra.» «Che?» «Che il padre… il padre… che so io? quel frate in somma vi ha convertito.» «La è veramente una pensata delle vostre.» «Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me ne godo. Sapete che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto e cogli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa pettoruto! Non son mica pesci che si piglino ogni giorno, nè con ogni rete. Siate certo che vi porterà per esempio; e quando andrà a far qualche missione un po' lontano, parlerà dei fatti vostri. Mi par di sentirlo.» E qui parlando nel naso, e accompagnando le parole con gesti caricati continuò in tuono di predica: «in una parte di questo mondo, che per degni rispetti non nomino, viveva, uditori carissimi, e vive tuttavia un cavaliere scapestrato, amico più delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale avvezzo a far d'ogni erba fascio, aveva posto gli occhi…» «Basta basta,» interruppe don Rodrigo mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. «Se volete raddoppiar la scommessa, io sono pronto anch'io.» «Diavolo! che aveste voi convertito il padre!» «Non mi parlate di colui: e quanto alla scommessa, san Martino deciderà.» La curiosità del conte era stuzzicata; egli non fece risparmio d'inchieste, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della diffinizione, e non volendo comunicare alla sua parte disegni che non erano nè incamminati, nè assolutamente fermati. Al mattino vegnente don Rodrigo si destò don Rodrigo. Quel po' di compugnimento che il verrà un giorno gli aveva messo in corpo, era svanito coi sogni della notte; e la stizza sola rimaneva, esacerbata anche dal rimorso di quella debolezza passeggiera. Le immagini più recenti della camminata trionfale, degl'inchini, delle accoglienze, il canzonare del cugino avevano contribuito non poco a reintegrargli l'animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso. – Cose grosse – disse tra sè il servo a cui fu dato l'ordine; perchè l'uomo che aveva quel soprannome non era niente meno che il capo dei bravi, quegli a cui s'imponevano le faccende più arrischiate e insolenti; il fidatissimo del padrone, l'uomo devoto a lui a tutte prove, per gratitudine e per interesse. Reo di publico omicidio, per sottrarsi alla caccia della giustizia, era egli venuto ad implorare la protezione di don Rodrigo; e questi prendendolo al suo servigio, lo aveva messo al coperto da ogni persecuzione. Così, coll'impegnarsi ad ogni delitto che gli venisse comandato, colui s'era assicurata l'impunità del primo. Per don Rodrigo l'acquisto non era stato di poca importanza; perchè il Griso, oltre all'essere il più valente, senza paragone, della famiglia, era anche una mostra di ciò che il suo padrone aveva potuto attentare felicemente contra le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita nel fatto e nella opinione. «Griso!» disse don Rodrigo: «in questa congiuntura si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia debbe trovarsi in questo palazzo.» «Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell'illustrissimo signor padrone.» «Piglia quanti uomini possono bisognare, ordina e disponi come meglio ti pare; purchè la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia fatto male.» «Signore, un po' di spavento, perchè la non faccia troppo strepito… non si potrà far di meno.» «Spavento… capisco… è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra tutto le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?» «Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza trassinarlo nulla nulla. Ma non si farà che il puro necessario.» «Sotto la tua sicurtà. E… come farai?» «Ci stava pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in capo del paese. Abbiam bisogno d'un luogo per andarci a posare: e appunto v'è poco discosto di là quel casolare disabitato in mezzo ai campi, quella casa… vossignoria non saprà niente di queste cose… una casa che è bruciata pochi anni sono, e non hanno avuto danari da rassettarla, e l'hanno abbandonata, e ora vi vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani che son pieni d'ubbie, non vi bazzicherebbero in nessuna notte della settimana, per un tesoro: sicchè possiamo andarci a porre colà sicuramente che nessuno verrà certo a guastare i fatti nostri.» «Va bene; e poi?» Qui il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finchè d'accordo ebbero concertato il modo di condurre a fine l'impresa, senza che rimanesse traccia degli autori, il modo anche di rivolgere i sospetti a un'altra parte con indizii fallaci, d'impor silenzio alla povera Agnese, d'incutere a Renzo tale spavento da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la voglia di lagnarsi; e tutte le altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferire quei concerti, perchè, come il lettore vedrà, non sono necessarii all'intelligenza della storia, e c'incresce di trattenerci e di trattenerlo lungamente a sentir parlamentare quei due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se ne andava per metter mano all'esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: «ascolta: se per caso quel tanghero temerario vi desse nell'unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. Così l'ordine che gli verrà intimato domani di star zitto, farà più sicuramente l'effetto. Ma non lo andate a cercare, per non guastare quello che più importa: mi hai inteso.» «Lasci fare a me,» rispose il Griso, inchinandosi con un atto d'ossequio e di millanteria; e andò. La mattina si spendette a riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s'era inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altri che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti erano suoi ribaldi ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione più leggiera del luogo. E fatta la scoperta, non s'eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto. Tornati che furono tutti al palazzotto, il Griso rendette conto, e fermò definitivamente il disegno dell'impresa, assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si potè fare senza che quel vecchio servo, il quale stava ad occhi aperti e ad orecchi levati, s'accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza d'attendere e di dimandare, accattando una mezza notizia di qua, una mezza di là, chiosando tra sè un motto oscuro, interpretando un andare misterioso, tanto fece che venne a chiarirsi di ciò che si doveva eseguire in quella notte. Ma quando ne fu chiarito, essa era già poco lontana, e già una picciola vanguardia di scherani era sortita in campagna e avviata ad imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giucava, e con ciò temesse di non portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, sotto scusa di pigliare un po' d'aria, e s'avviò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l'avviso promesso. Poco dopo si mossero gli altri scherani, e discesero a uno, a due, alla spicciolata, per non parere una compagnia: il Griso venne da poi, e non rimase indietro che una lettiga, la quale doveva essere e fu portata al casolare, a sera avanzata. Ragunati che furono quivi, il Griso spedì tre di coloro all'osteria del villaggio: uno che si mettesse sulla porta ad osservare i movimenti della via, e a vigilare il momento in cui ogni abitante sarebbe ritirato: gli altri due che stessero dentro a giucare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare vi fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell'agguato ad aspettare. Il povero vecchio trottava ancora, i tre esploratori arrivavano al posto loro, il sole cadeva, quando Renzo entrò dalle donne e disse loro; «Tonio e Gervaso son qua fuori: vado con loro a cenare all'osteria; e al tocco dell'ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da un momento.» Lucia sospirò e rispose: «oh sì, coraggio,» con una voce che smentiva la parola. Quando Renzo e i due compagnoni giunsero all'osteria, vi trovarono quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiato colla schiena ad uno stipite, colle braccia incrocicchiate sul petto, e sguaraguatava a dritta e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni. Una berretta piatta di velluto chermisino, posta per traverso, gli copriva la metà del ciuffo, che dividendosi sur una fronte fosca, terminava in trecce fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello: arme propriamente, non ne portava in mostra; ma solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe immaginato che doveva averne soppanno quante ve ne poteva capire. Quando Renzo primo dei tre gli fu presso, e mostrò di volere entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fiso fiso; ma il giovane, intento a schifare ogni quistione, come suole ognuno che abbia un'impresa scabrosa da condurre a termine, non disse pure: fatevi in là; e rasentando l'altro stipite, passò in isbieco, col fianco innanzi, per l'apertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero fare la stessa evoluzione, se vollero entrare. Entrati videro gli altri dei quali già avevano intesa la voce, quei due bravacci, che seduti a un deschetto, giucavano alla mora, gridando tutti e due ad un fiato e versandosi or l'uno or l'altro a bere d'un gran fiasco posto fra loro. Questi pure adocchiarono i sopravvegnenti; e uno dei due specialmente, tenendo sospesa in aria la destra con tre grosse dita sparpagliate, e la bocca squarciata per un gran «sei» che ne era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo ben bene, indi fece d'occhio al collega, poi a quel della porta, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare nei loro aspetti una interpretazione di tutte quelle smorfie: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L'ostiere guardava in faccia a lui, come per attender gli ordini: egli lo fece venire con sè in una stanza vicina e comandò da cena. «Chi sono quei forestieri?» gli chiese poi a voce bassa, quando quegli tornò con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano. «Non li conosco,» rispose l'ostiere, spiegando la tovaglia. «Come? nè anche uno?» «Sapete bene,» rispose ancora colui, stirando ad ambe mani la tovaglia sul desco, «che la prima regola del nostro mestiere è di non cercare dei fatti altrui: tanto che infìno alle nostre donne, le non sono curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: sempre un porto di mare: quando gli anni son discreti, voglio dire; ma stiamo pure allegri che tornerà un po' di buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate.» «Come volete sapere…?» ripigliava Renzo; ma l'oste già avviato alla cucina, seguitò la sua strada. Quivi, mentre dava di mano al tegame delle polpette summentovate, gli si accostò chetamente quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovane, e gli disse sottovoce: «Chi sono quei galantuomini?» «Buona gente qui del paese,» rispose l'oste, rovesciando le polpette nel piatto. «Va bene; ma come si chiamano? chi sono?» insistette colui con voce aspretta. «Uno si chiama Renzo,» rispose l'oste pur sottovoce: «un buon giovane, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L'altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che rie abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L'altro è un baciocco che mangia volentieri quando gliene danno. Con licenza.» E con uno scambietto, uscì tra il fornello e l'interrogante, e andò a portare il piatto cui si doveva. «Come volete sapere,» rappiccò Renzo, quando lo vide ricomparire, «che sieno galantuomini, se non li conoscete?» «Le azioni, caro mio l'uomo si conosce alle azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che mostrano sul banco la faccia del re senza taccolare, che non attaccano quistioni con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar di fuori e lontano dall'osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente pulito, come ci conosciamo fra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt'altro in testa? e con dinanzi quelle polpette che farebbero risuscitare un morto?» Così dicendo, se ne tornò in cucina. Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle inchieste, dice ch'egli era un uomo così fatto che in tutti i suoi discorsi faceva professione d'essere molto amico dei galantuomini in generale; ma in atto pratico usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Era, come ognun vede, un uomo d'un carattere ben singolare. La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto assaporarne lentamente il diletto; ma il convitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, inquieto anche un po' del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva l'ora d'andarsene. Si parlava sottovoce, per rispetto di quelli; ed erano parole tronche e svogliate. «Che bella cosa,» scappò su un tratto Gervaso, «che Renzo voglia tor moglie e abbia bisogno…» Renzo gli fece un viso brusco «Vuoi tu tacere, bestia!» gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione andò languendo fino alla fine. Renzo, osservando una stretta sobrietà, attese a mescere ai due testimonii con discrezione, in modo da dar loro un po' di baldanza, senza farli andar fuori di cervello. Sparecchiato, pagato lo scotto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre passar nuovamente dinanzi a quelle facce, le quali tutte si rivolsero a Renzo, come la prima volta. Quand'egli ebbe fatti pochi passi fuori dell'osteria, si guardò indietro e vide che i due che aveva lasciati seduti in cucina, lo seguivano: si fermò allora coi suoi compagni, come se dicesse: vediamo che cosa vogliono da me costoro. Ma i due, quando s'accorsero d'essere osservati, si fermarono anch'essi, si parlarono sotto voce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto presso da rilevarne le parole, gli sarebbero queste parute strane assai. «Sarebbe però un bell'onore, senza contare la mancia,» diceva uno dei malandrini, «se tornando al palazzo, potessimo raccontare di avergli spianate le costure in fretta in fretta, e così da per noi, senza che il signor Griso fosse qui a regolare.» «E guastare il negozio principale!» rispondeva l'altro. «Ecco, si è addato di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih, se fosse più tardi! Torniamcene, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da ogni parte: lasciamoli andar tutti a pollaio.» V'era in fatti quel brulichìo, quel ronzo che si sente in un villaggio sul far della sera, e che dopo pochi momenti dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivano dal campo, portandosi in collo i bambini, e traendo per mano i figliuoletti più adulti, ai quali facevano ripetere le orazioni della sera; venivano gli uomini colle vanghe, e colle zappe in su le spalle. All'aprirsi degli usci si vedevano luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si udivano nella via saluti dati e renduti, e colloquii brevi e tristi sulla scarsezza del ricolto, e sulla miseria dell'anno: e più delle parole si udivano i tocchi misurati e sonori della squilla che annunziava il finire del giorno. Quando Renzo vide che i due indiscreti s'erano ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando a bassa voce ora un ricordo ora un altro, ora all'uno ora all'altro fratello. Giunsero alla casetta di Lucia ch'egli era notte fatta. Tra il primo concetto d'una impresa terribile e l'esecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure. Lucia era da molte ore nelle angosce d'un tal sogno: e Agnese, la stessa Agnese, l'autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma al momento del destarsi, al momento in cui si vuol por mano all'azione, l'animo si trova tutto trasformato. Al terrore ed al coraggio che vi contendevano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una nuova apparizione: ciò che più si apprendeva da prima, sembra talvolta divenuto in un punto agevole: talvolta s'ingrandisce l'ostacolo che appena si era avvertito; l'immaginazione si arretra spaventata, le membra negano il loro uficio, e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu presa da tanto terrore che risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa da lui, piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando egli si fu mostrato, ed ebbe detto: «son qui, andiamo;» quando tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile, Lucia non ebbe spazio nè cuore d'intromettere difficoltà, e come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse colla brigata avventuriera. Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, uscirono della porta e presero la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata di attraversarlo, per divenire all'altro capo dove era la casa di don Abbondio: ma scelsero quell'altra per non esser veduti. Per viottoli tra gli orti e i campi, giunsero presso a quella casa, e quivi si divisero. I due promessi rimasero nascosti dietro l'angolo di essa; Agnese con loro, ma un po' più innanzi, per accorrere in tempo ad incontrare Perpetua e ad impadronirsene; Tonio col disutilaccio di Gervaso che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta, e toccarono il martello. «Chi è, a quest'ora?» gridò una voce alla finestra che si aperse in quel momento: era la voce di Perpetua. «Malati non ce n'è, ch'io sappia. E forse accaduta qualche disgrazia?» «Son'io,» rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare al signor curato.» «È ora da cristiani questa?» rispose bruscamente Perpetua. «Che discrezione? Tornate domani.» «Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscossi non so che danari, e veniva a saldare quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi so come spenderli, e tornerò quando ne abbia messi insieme degli altri.» «Aspettate, aspettate: vado e torno. Ma perchè venire a quest'ora?» «Se l'ora potete mutarla, io non mi oppongo: per me son qui; e se non mi volete, me ne vado.» «No, no, aspettate un momento; torno con la risposta.» Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e detto sotto voce a Lucia: «coraggio; è un momento; gli è come far cavare un dente», venne ad unirsi ai due fratelli dinanzi alla porta, e si mise a ciarlare con Tonio in maniera che Perpetua tornando e veggendola quivi dovesse credere che ella passava per di là, e Tonio l'aveva rattenuta un momento. –Carneade! Chi era costui? – ruminava tra sè don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza al piano di sopra, con un libricciuolo aperto dinanzi, quando Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. – Carneade! questo nome mi par bene di averlo inteso o letto; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? – Tanto il pover uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse in sul capo! Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere qualche riga ogni giorno, ed un curato suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli prestava un libro dopo l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano due anni prima. Il santo vi era paragonato, per l'amore dello studio ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perchè Archimede ne ha fatte di così belle, ha fatto dir tanto di sè, che per saperne qualche cosa, non è mestieri d'una erudizione molto vasta. Ma dopo Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e quivi il lettore era rimasto arrenato. In questa, Perpetua annunziò la visita di Tonio. «A quest'ora?» disse anch'egli don Abbondio, com'era naturale. «Che vuol ella? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo…» «Se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare. Fatelo venire… Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia egli, Tonio?» «Diavolo!» risposePerpetua, e scese, aperse la porta, e disse: «dove siete?» Tonio si mostrò; e in quella si mostrò pure Agnese, e salutò Perpetua per nome. «Buona sera, Agnese,» disse Perpetua: «donde si viene a quest'ora?» «Vengo da…» e nominò un paesetto vicino. «E se sapeste…» continuò: «mi sono indugiata appunto in grazia vostra.» «Oh perchè?» domandò Perpetua; e rivolta ai due fratelli, «entrate,» disse, «che vengo anch'io.» «Perchè,» ripigliò Agnese, «una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare… credereste? si ostinava a dire che voi non vi siete sposata con Beppo Suolavecchia, nè con Anselmo Lunghigna, perchè non vi hanno voluta. Io sosteneva che voi gli avete rifiutati, l'uno e l'altro…» «Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?» «Non me lo domandate, che non mi piace metter male.» «Me lo direte, me lo avete a dire: oh la bugiarda!» «Basta…; ma non potete credere quanto mi sia saputo male di non conoscer bene tutta la storia, per confonder colei.» «È una bugiacciaccia,» disse Perpetua, «la più infame! Quanto a Beppo, tutti sanno e hanno potuto vedere… Ehi, Tonio! socchiudete la porta e salite pure, ch'io vengo.» Tonio rispose di dentro che sì, e Perpetua proseguì la sua narrazione appassionata. In faccia alla porta di don Abbondio si apriva tra due casipole una stradetta, la quale non correva diritta più che la lunghezza di quelle, e volgeva nei campi. Agnese vi s'avviò, come se volesse trarsi alquanto in disparte per parlare più liberamente, e Perpetua dietro. Quando ebbero voltato il canto, e furono in luogo donde non si poteva più vedere ciò che accadesse dinanzi alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segno: Renzo lo intese, fece animo a Lucia con una stretta di braccio, ed entrambi in punta di piedi voltarono anche essi il loro canto, strisciaron quatti quatti rasente il muro, vennero alla porta, l'aprirono dilicatamente; uno e due, cheti e chinati, furono nell'andito: quivi erano i due fratelli ad aspettare. Renzo abbassò pian piano il saliscendo nel monachetto: e tutti quattro su per le scale, non facendo pur romore per due. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli si fecero alla porta della stanza che era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero alla parete. «Deo gratias,» disse Tonio, a voce spiegata. «Tonio, eh? Entrate,» rispose la voce di dentro. Il chiamato schiuse le imposte appena quanto era necessario per passare egli e il fratello ad un per volta. La riga di luce che uscì d'improvviso per quella apertura e scorse a traverso il pavimento oscuro del pianerottolo, fece trepidare Lucia, come s'ella fosse scoverta. Entrati i fratelli, Tonio si chiuse l'uscio dietro: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con le orecchie tese, tenendo il fiato: il romore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia. Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto a foggia di camauro che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d'una picciola lucerna. Due folte ciocche che gli scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli, due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e sparsi su quella faccia brunazza e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli nevicosi sporgenti da un dirupo, al chiarore della luna. «Ah! ah!» fu il suo saluto, mentre si cavava gli occhiali e gli riponeva nel libricciuolo. «Dirà il signor curato che son venuto tardi,» disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso. «Sicuro che è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete che sono ammalato?» «Oh me ne spiace!» «L'avrete inteso dire, sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere… Ma perchè vi siete tirato dietro quel… quel figliuolo?» «Così per compagnia, signor curato.» «Basta, vediamo.» «Sono venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant'Ambrogio a cavallo,» disse Tonio, cavandosi un gruppetto di tasca. «Vediamo,» replicò don Abbondio: e preso il gruppetto, si rimesse gli occhiali, lo spiegò, cavò le berlinghe, le volse, le rivolse, le noverò, le trovò irreprensibili. «Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.» «È giusto,» rispose don Abbondio: e andò ad un armadio, e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una partecd'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse il cartoccino, disse: «va bene?» lo ripiegò, e lo consegnò a Tonio. «Ora,» disse questi, «si contenti di mettere un po' di nero sul bianco.» «Anche questa!» disse don Abbondio: «le sanno tutte. Ih! com'è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?» «Come, signor curato! s'io mi fido? Ella mi fa torto. Ma, siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito… dunque giacchè ella ha già avuto l'incomodo di scrivere una volta, così… dalla vita alla morte…» «Bene bene,» interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sè un cassetto del tavolino, ne tolse carta, penna e calamaio, e si pose a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, a misura che gli uscivano dalla penna. Frattanto Tonio e ad un suo cenno Gervaso, si posero in piedi dinanzi al tavolino in modo di togliere allo scrittore la vista della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar segno a quei di fuori che entrassero, e per confondere nello stesso tempo il romore delle loro pedate. Don Abbondio attuffato nella sua scrittura non badava ad altro. Al fruscìo dei quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse per darle coraggio, e si mosse traendosela dietro tutta tremante, che da per sè non vi si sarebbe potuta condurre. Entrarono pian piano, in punta di piedi, comprimendo il respiro, e si collocarono dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza sollevar gli occhi dalla carta; la piegò, dicendo: «sarete contento ora?» e levatisi con una mano gli occhiali dal naso, sporse con l'altra il foglio a Tonio, alzando la faccia. Tonio, stendendo la destra a prenderlo, si ritirò da una parte, Gervaso, ad un suo cenno, dall'altra: ed ecco, come al dividersi d'una scena, apparire nel mezzo Renzo e Lucia. Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: «signor curato, in presenza di questi testimonii, quest'è mia moglie.» Le sue labbra non erano ancora tornate in riposo, che don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza, afferrata colla manca, e sollevata la lucerna, ghermito con la destra il tappeto che copriva la tavola e tiratolo a sè con furia, gittando a terra libro, carta, calamaio e polverino; e balzando tra la seggiola e la tavola s'era avvicinato a Lucia. La poveretta con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: «e questo…» che don Abbondio le aveva gittato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul volto, per impedirle di pronunziare intera la formola. E tosto, lasciata cadere la lucerna che teneva nell'altra mano, si aiutò anche con quella a ravvolgerle quel drappo intorno alla faccia, che quasi l'affogava; e intanto gridava a testa, come un toro ferito: «Perpetua, Perpetua, tradimento, aiuto!» Il lucignolo morente sul pavimento mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale affatto smarrita, non tentava pure di svilupparsi, e poteva parere una statua sbozzata in creta, sulla quale l'artefice ha gittato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tentone la porta che metteva ad una stanza più interna, la trovò, vi entrò, si chiuse dentro, gridando tuttavia: «Perpetua, tradimento, aiuto, fuori di questa casa, fuori di questa casa.» Nell'altra stanza tutto era confusione: Renzo, cercando di cogliere il curato e remigando colle mani, come se facesse a gatta cieca, era giunto alla porta, e bussava, gridando: «apra, apra, non faccia schiamazzo.» Lucia chiamava Renzo con voce fioca, e diceva supplicando: «andiamo, andiamo, per amor di Dio.» Tonio, carpone andava scopando colle mani il pavimento, per adunghiare la sua quitanza. Gervaso spiritato, gridava e trasaltava, cercando la porta della scala per uscire a salvamento. In mezzo a questo serra serra, non possiamo lasciare di arrestarci un momento a fare una riflessione. Renzo il quale strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era tramesso di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure alla fine del fatto, egli era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente ai fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure in realtà era egli che faceva torto. Così va sovente il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo. L'assediato, veggendo che il nemico non dava segno di sgomberare, aperse una finestra che guardava in sul sagrato, e si diede a gridare: «aiuto! aiuto!» Batteva la più bella luna del mondo: l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga ed acuta del campanile si stendeva bruna, immobile e netta sul piano erboso e lucente del sagrato: ogni oggetto si poteva discernere quasi come di giorno. Ma fin dove giungeva lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che guardava verso la casa parrocchiale, era un picciolo abituro, un bugigattolo dove dormiva il sagrestano. Fu questi riscosso da quello sformato grido, fe’ un balzo in sul letto, ne scese in fretta, aperse l'impannata d'una sua finestrella, mise la testa fuori, colle palpebre incollate tuttavia, e disse: «che cosa c'è?» «Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa,» gridò verso lui don Abbondio. «Vengo subito,» rispose quegli; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e quantunque mezzo trasognato e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi uno spediente per dar più aiuto che non gliene venisse dimandato, senza cacciarsi egli nel tafferuglio, qual ch'ei fosse. Dà di piglio alle brache che teneva sul letto, cacciasele sotto il braccio come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che v'erano, e suona a martello. Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i garzoni sdraiati sul fenile, tendono l'orecchio e saltano in piedi. «Che è? Che è? Campana a martello! Fuoco? Ladri? Banditi?» Molte donne consigliano, pregano i mariti di non si muovere, di lasciar correre gli altri: alcuni si alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, si rappiattano sotto le coltri: i più curiosi e più bravi scendono a torre le forche e gli archibugi, per correre al romore: altri stanno a vedere. Ma prima che quelli fossero all'ordine, prima anzi che fossero ben desti, il romore era giunto agli orecchi d'altre persone che vegliavano, non lontano, in piedi e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facessero coloro dal momento in cui gli abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all'osteria. Questi tre, quando videro tutte le porte chiuse e la via deserta, uscirono, mostrando di andarsene lontano, diedero pian piano una giravolta pel villaggio, onde chiarirsi se ognuno era ritirato; e in fatti non iscontrarono anima viva, nè intesero il più picciolo strepito. Passarono anche, e più pianamente, dinanzi alla nostra povera casetta: la più quieta di tutte, giacchè non v'era più nessuno. Andarono allora diritto al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Tosto egli si pose in testa un cappellaccio, in su le spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di arselle, prese in mano un bordone da pellegrino, disse: «andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini,» si mosse il primo, gli altri dietro; e in breve divennero alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n'era allontanata la nostra brigatella, andando anch'essa alla sua spedizione. Il Griso rattenne la truppa alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e visto tutto deserto e tranquillo al di fuori, fece venire avanti due di que' tristi, diede loro ordine di scalar chetamente il muro che chiudea il cortiletto, e calati dentro, di appiattarsi in un angolo, dopo una folta ficaia ch'egli aveva appostata il mattino. Ciò fatto, picchiò sommessamente, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito che domandava ricovero fino a giorno. Nessuno risponde: ripicchia un po' più forte; nè un zitto. Allora egli va a chiamare un terzo malandrino, lo fa calare nel cortiletto al modo degli altri due, coll'ordine di sconficcar bel bello il chiavistello per di dentro, onde aver libero l'ingresso e la ritirata. Tutto si eseguisce con gran cautela e con prospero successo. Vassene a chiamar gli altri, li fa entrare con sè, li manda a rimpiattarsi a canto ai primi, rabbatte l'uscio dolce dolce, vi posa due sentinelle al di dentro, e va dritto alla porta del terreno. Bussa anche quivi; aspetta: e' poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quella porta: nessuno di dentro dice: chi va là; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque: «st,» chiama quei della ficaia, entra con loro nella stanza terrena dove il mattino aveva scelleratamente accattato quel tozzo di pane. Cava fuori esca, pietra focaia, acciarino e zolfanelli, accende un suo lanternine, mette piede nell'altra stanza più interna, per accertarsi che nessuno vi sia: non c'è nessuno. Ritorna, va all'uscio della scala, guarda, porge orecchi: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle al terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, un bravo del contado di Bergamo, che solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinchè la sua loquela potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni pedata di que' mascalzoni che facesse romore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre. Spinge mollemente la porta che mette alla prima stanza, l'imposta cede, si fa spiraglio: vi mette l'occhio; è scuro: vi mette l'orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica là entro; niente. Dunque avanti: ponsi la lanterna dinanzi al muso, per vedere senza esser veduto, spalanca la porta, scorge un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, colla rimboccatura distesa e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volge alla compagnia, accenna loro ch'egli va a vedere all'altra stanza, e che gli tengan dietro pian piano; vi va, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. «Che diavolo è questo?» dice egli allora spiegatamente: «che qualche cane traditore abbia fatto la spia?» Si danno tutti, con men cautela a guardare, a tastare per ogni cantone, metton sossopra la casa. Mentre costoro sono in tale faccenda, i due che vegliano alla porta della via, sentono venire per quella, dal di fuori del villaggio, avvicinarsi e spesseggiare una picciola pedata: s'immaginano che quel chiunque sia passerà dritto; stanno cheti, e a buon conto si tengono all'erta. Ed ecco che la pedata si ferma appunto alla porta. Era Menico che veniva in fretta, mandato dal padre Cristoforo ad avvisare le due donne che per amor del cielo scappassero tosto di casa e si rifuggissero al convento, perchè… il perchè lo sapete. Prende la maniglia del catenaccio, per bussare, e se lo sente traballar nella mano, schiodato e scassinato. Che è questo? pensa egli, e spinge l'imposta atterrito; quella s'apre, egli mette un piè dentro in gran sospetto, e si sente ad un punto brancare per le due braccia, e due voci sommesse a destra e a sinistra che dicono in tuono minaccioso: «zitto! taci, o sei morto.» Egli all'opposto alza uno strido: uno degli afferratori gli dà d'una gran zampa in sulla bocca, l'altro mette mano ad un coltellaccio per fargli paura. Il garzoncello trema come una foglia e non tenta pur di gridare; ma tutt'ad un tratto, in sua vece, e con ben altro tuono, scoppia quel primo tocco di squilla così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi alla fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all'uno e all'altro furfante parve di sentire in quei tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andare le braccia di Menico, ritirano il loro in furia, spalancano la mano e la bocca, si guardano in cera, e corrono alla casa, dov'era il grosso della compagnia. Menico fuora, e a gambe per la contrada alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno vi doveva essere. Agli altri furfanti che rovistavano la casa all'alto e al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si sconfondono, si scompigliano, si urtano a vicenda: ognuno cerca la via più breve per gittarsi alla porta. Eppure ell'era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono star saldi contra un pericolo indeterminato, e che non s'era fatto vedere un po' da lontano prima di venir loro addosso. Vi volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che la fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta un gregge di porci corre or qua or là a quei che si sbandano, ne addenta uno per un'orecchia e lo tira in ischiera, ne spinge un altro col muso, abbaia ad un altro che esce di fila in quel momento, così il pellegrino acciuffa uno di coloro che già toccava la soglia e lo strappa indietro, caccia indietro col bordone uno e un altro che v'eran già presso, grida agli altri che scorrazzano senza saper dove, tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto. «Alto! alto! pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme e poi andremo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiamo ben insieme, gaglioffoni? Ma se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno.Vergogna! Dietro a me, e uniti.» Dopo questa breve aringa, si pose alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiamo detto, era in capo del villaggio: il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli tennero dietro in buon ordine. Lasciamoli andare, e torniamo un passo addietro a pigliare Agnese e Perpetua, che abbiamo piantate al di là d'un certo canto. Agnese aveva procurato di slontanar l'altra dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e fino ad un certo punto la cosa era andata bene. Ma tutt'ad un tratto la serva s'era ricordata della porta rimasta aperta, e aveva voluto tornare indietro. Non c'era che dire: Agnese per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con lei e andarle dietro, cercando però di soprattenerla ogni volta che la vedesse infervorata ben bene nel racconto di quei tali matrimonii andati a monte. Mostrava di darle una grande udienza, e di tempo in tempo, per far vedere che stava attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva: «sicuro: adesso capisco: va benissimo: la è chiara: e poi? e egli? e voi?» Ma intanto faceva un altro discorso con sè stessa. – Saranno mo usciti a quest'ora? O saranno ancor dentro? Che allocchi siamo stati tutti e tre a non concertar qualche segnale per dare avviso a me quando la fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma la è fatta: ora il meglio è di tener costei a bada il più che si possa: alla peggio sarà un po' di tempo perduto. – Così, a pose e a scorserelle, s'erano ricondotte poco lontano dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano per ragione di quel tal canto: e Perpetua, trovandosi ad un punto importante della narrazione, s'era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene, quando repente s'udì venir rimbombando dall'alto nel vano immoto dell'aria, per l'ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: «aiuto! aiuto!» «Misericordia! che cosa è stato?» gridò Perpetua, e volle correre. «Che è? che è?» disse Agnese, ritenendola per la gonna. «Misericordia! non avete inteso?» replicò quella svincolandosi. «Che è? che è?» ripetè Agnese, afferrandola per un braccio. «Diavolo d'una donna!» sclamò Perpetua, ributtandola per mettersi in libertà; e a correre. In quella, più lontano, più sottile, più istantaneo, s'ode lo strillo di Menico. «Misericordia!» grida anche Agnese; e a galoppo dietro l'altra. Avevan quasi appena levate le calcagna, quando la squilla intonò: un tocco, e due, e tre, e una seguenza: sarebbero stati sproni se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua giunge di due passi la prima; mentre vuol lanciare la mano alle imposte e spalancarle, ecco le si spalancano per di dentro, e sulla soglia Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia, che, trovata la scala, n'erano venuti giù saltelloni, e sentendo poi quel terribile martellamento correvano in furia a mettersi in salvo. «Che c'è? che c'è?» domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un urtone e scantonarono. «E voi! come! che fate qui voi?» domandò poscia all'altra coppia, quando l'ebbe raffigurata. Ma quelli pure uscirono senza rispondere. Perpetua, per accorrere dov'era maggior bisogno, non chiese altro, si gettò a furia nell'andito, e galoppò a tentone verso la scala. I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava trambasciata e affannosa. «Ah siete qui!» diss'ella traendo la parola a stento. «Come è andata? che cos'è la campana? Mi par d'avere inteso…» «A casa, a casa,» diceva Renzo, «prima che venga la gente.» E s'avviavano; ma arriva Menico a tutta corsa, li riconosce, si pone dinanzi a loro, e ancor tutto tremante, colla voce mezzo spenta, dice: «dove andate? indietro, indietro! per di qua al convento.» «Sei tu che…?» cominciava Agnese. «Che è?» domandava Renzo. Lucia tutta smarrita taceva e tremava. «C'è il diavolo in casa,» riprese Menico anelante. «Gli ho veduti io: m'hanno voluto ammazzare: l'ha detto il padre Cristoforo: e anche voi Renzo; ha detto che veniate subito: e poi gli ho veduti io: provvidenza che vi trovo qui tutti: vi dirò poi quando saremo fuori.» Renzo che era il più in cervello di tutti, pensò che di qua o di là conveniva andar subito, prima che la gente accorresse, e che la più sicura era di fare ciò che Menico consigliava, anzi comandava colla forza d'uno spaventato. Per istrada poi, e fuori del garbuglio e del pericolo, si potrebbe chiedere al garzoncello una spiegazione più chiara. «Cammina innanzi,» gli disse. «Andiamo con lui,» disse alle donne. Si volsero, tirarono in fretta verso la chiesa, attraversarono il sagrato, dove per grazia del cielo, non v'era ancora anima viva, entrarono in una stradetta che passava tra la chiesa e la casa di don Abbondio: alla prima callaietta che trovarono, dentro; e via pei campi. Non erano forse ancora dilungati un cinquanta passi, quando la gente cominciò a trarre sul sagrato; e ad ogni momento ingrossava. Si guardavano in viso gli uni gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca ad un finestrucolo, a una specie di balestriera, cacciò dentro un: «che diavolo c'è?» Quando Ambrogio intese una voce conosciuta, lasciò andare la corda; e fatto certo dal ronzìo che era accorso molto popolo, rispose: «vengo ad aprire.» Si adattò in fretta l'arnese che aveva portato sotto il braccio, venne per di dentro alla porta della chiesa, l'aperse. «Che cosa è tutto questo fracasso? – Che cosa è? – Dov'è? – Chi è?» «Come, chi è?» disse Ambrogio tenendo con una mano un'imposta, e con l'altra quel tale abbigliamento che s'era messo così in fretta: «come! Non lo sapete? Gente in casa del signor curato. Alto, figliuoli: aiuto.» Si voltano tutti a quella casa, guardano, vi si appressano in frotta, guardano ancora in su, porgon le orecchie: tutto quieto. Altri corrono alla porta della via: è chiusa e sprangata; guardano in su: non v'è una finestra aperta: non si sente un zitto. «Chi è là dentro? – Ohe, ohe! – Signor curato! – Signor curato!» Don Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl'invasori, s'era ritirato dalla finestra, e l'aveva richiusa, e che in questo momento stava a battagliar sotto voce con Perpetua che l'aveva lasciato solo in quel viluppo, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d'averlo invocato. «Che cosa è stato? – Che le hanno fatto? – Chi sono costoro? – Dove sono?» gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto. «Non c'è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.» «Ma chi è stato? – Dove sono andati? – Che è accaduto?» «Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa: non c'è più niente: un'altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore.» E detto questo, si ritrasse, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a brontolare, altri a beffare, altri a bestemmiare; altri si stringevano nelle spalle e s'avviavano: quando arriva uno tutto trafelato che stentava a formar le parole. Stava costui di casa quasi rimpetto alle nostre donne, ed essendosi, al romore, fatto alla finestra, aveva veduto nel cortiletto quel rimescolamento dei bravi, quando il Griso si affannava a rannodarli. Quand'ebbe riavuto il fiato gridò: «che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù in fondo alla contrada, alla casa di Agnese Mondella: gente armata, son dentro, par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c'è!» «Che? – Che? – Che?» E comincia una consulta tumultuosa. «Bisogna andare. – Bisogna vedere. – Quanti sono? – Quanti siamo? – Chi sono? – Il console! il console!» «Son qui,» risponde il console di mezzo alla folla: «son qui; ma bisogna aiutarmi, bisogna obbedire. Presto: dov'è il sagrestano? Alla campana, alla campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti…» Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro che gli aveva veduti partire in fretta, e grida alla sua volta: «correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso!» A questo avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si muovono in massa, giù alla rinfusa per la contrada; a misura che l'esercito procede, molti della vanguardia allentano il passo, si lasciano sopravanzare, e si ficcano nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell'invasione erano recenti, e manifeste: la porta aperta, i chiavistelli sconficcati; ma gl'invasori erano spariti. Si entra nel cortile; si va alla porta del terreno: aperta, e sconficcata anch'essa: si domanda: «Agnese! Lucia! Il pellegrino! Dov'è il pellegrino? L'avrà sognato Stefano, il pellegrino. – No, no: l'ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! – Agnese! Lucia!» Nessuno risponde. «Le hanno portate via! Le hanno portate via!» V'ebbe allora di quelli che, levando la voce, proposero d'inseguire i rapitori: che l'era una nefandità; e la sarebbe una vergogna pel paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portarne via le donne come il nibbio i pulcini da un'aia disabitata. Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gittò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s'erano poste in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza, non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi, e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un bussare e un aprir di porte, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla via. Tornata questa deserta e tacita, i discorsi continuarono nelle case, e morirono negli sbadigli, per ricominciar poi il domani. Fatti però, non ve n'ebbe altri; se non che al mattino di quel domani, il console stando nel suo campo, col mento appoggiato sulle mani, e le mani sul manico della vanga mezzo confìtta nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sè e sè sui misteri della notte passata, e sulla ragione composta di ciò che a lui s'aspettasse, e di ciò che gli convenisse di fare, vide venire alla sua volta due uomini di assai gagliarda presenza, chiomati come due re dei Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que' due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non erano quei medesimi. Costoro con un tratto ancor meno cerimonioso, intimarono al console che si guardasse bene di far deposizione al podestà dell'avvenuto, di rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di ciarlare, di fomentar le ciarle dei villani, per quanto aveva cara la speranza di morire di malattia. I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, volgendosi or l'uno or l'altro a guardare se nessuno gl'inseguiva, tutti in affanno per la fatica della fuga, pel battimento e per la sospensione patita, pel cruccio della mala riuscita, per l'apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E vie più in affanno li teneva l'incalzare continuo di quei rintocchi i quali, quanto per l'allontanarsi venivano più fiochi e ottusi, tanto pareva che prendessero non so che di più lugubre e di malauroso. Il martellare cessò finalmente. Queglino allora trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un zitto all'intorno, allentarono il passo; e fu la prima Agnese che, raccolto il fiato, ruppe il silenzio chiedendo a Renzo com'era andata, chiedendo a Menico che fosse quel diavolo in casa. Renzo contò brevemente la sua trista storia; e tutti e tre si volsero al fanciullo, il quale riferì più espressamente l'avviso del padre, e narrò quello ch'egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l'avviso. Gli ascoltatori compresero più che Menico non avesse saputo dire: a quella rivelazione furon presi da un nuovo brivido, ristettero tutti e tre un momento nel mezzo del cammino, ricambiarono fra loro uno sguardo di spavento; e tosto con un movimento unanime, tutti e tre posero una mano quale sul capo, quale sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo tacitamente ch'egli fosse stato per loro un angelo tutelare, per significargli la compassione che sentivano, e quasi per chiedergli scusa dell'angoscia da lui sofferta e del pericolo corso per la loro salvezza. «Ora torna a casa, perchè i tuoi non abbiano a star più in angustia per te,» gli disse Agnese; e ricordandosi delle due parpagliole promesse, ne cavò quattro, e gliele diede, aggiungendo: «basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora…» Renzo gli diede una berlinga nuova, e lo pregò ben bene di non dir nulla della commissione avuta dal padre; Lucia lo accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata, e il ragazzo li salutò tutto intenerito, e tornò indietro. Quelli si ravviarono tutti pensosi, le donne innanzi e Renzo alle spalle, come per custodia. Lucia si teneva stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente e con destrezza l'aiuto che il giovane le offriva nei passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sè, anche in un tale turbamento, dell'essere già stata tanto sola con lui e tanto famigliarmente, quando s'aspettava d'essere fra pochi momenti sua moglie. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, ella si pentiva di essere trascorsa così oltre, e fra tante cagioni di trepidare, trepidava pur anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora sè stesso, somigliante alla paura del fanciullo che trema nelle tenebre senza saper di che. «E la casa?» disse un tratto Agnese. Ma per quanto la cura che le strappava quella esclamazione fosse importante, nessuno rispose, perchè nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio il lor cammino e poco dopo sbucarono finalmente ad una piazzetta dinanzi alla chiesa del convento. Renzo si fece alla porta della chiesa, e la sospinse bel bello. La porta di fatto si aperse, e la luna, entrando per lo spiraglio illuminò la faccia pallida, e la barba d'argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettazione. Visto che nessuno vi mancava, «Dio sia benedetto!» diss'egli, e fece lor cenno che entrassero. A canto a lui stava un altro cappuccino, ed era il laico sagrestano, ch'egli con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starvi in sentinella per accogliere quei poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell'autorità del padre e della sua fama di santo per condurre il laico ad una condiscendenza incomoda, pericolosa, e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo richiuse pian piano la porta. Allora il sagrestano non potè più reggere, e tratto il padre in disparte, gli andava susurrando all'orecchio: «ma padre, padre! di notte… in chiesa… con donne… chiudere… la regola… ma padre!» E crollava la testa. Mentre egli articolava stentatamente quelle parole, – vedete un po'!, pensava il padre Cristoforo, se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo, e una povera innocente che scappa dagli artigli del lupo… – «Omnia munda mundis,» disse poi, volgendosi repentinamente a fra Fazio, e dimenticando che questi non intendeva di latino. Ma una tale dimenticaggine fu appunto quella che fece l'effetto. Se il padre si fosse messo a quistionare con ragioni, a fra Fazio non sarebbero mancate altre ragioni da contrapporre, il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma all'udire quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbii. S'acquetò, e disse: «va bene; ella ne sa più di me». «Fidatevi pure,» rispose il padre Cristoforo; e al dubbio chiarore della lampada che ardeva dinanzi all'altare, si accostò ai ricoverati, i quali stavano sospesi attendendo, e disse loro: «figliuoli! ringraziate il Signore che vi ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento…!» E qui si fece a spiegare ciò che aveva mandato accennando pel picciol messo: giacchè non sospettava ch'eglino ne sapessero più di lui, e supponeva che gli avesse trovati tranquilli alle case loro, prima che vi arrivassero gli scherani. Nessuno lo disingannò, nemmeno Lucia, alla quale però rimordeva segretamente di una tale dissimulazione con un tal uomo: ma era la notte dei viluppi e delle infinte. «Dopo ciò,» continuò egli, «vedete bene, figliuoli, che questo paese non è ora sicuro per voi. È il vostro, ci siete nati, non avete fatto torto a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza rancore, e siate certi che verrà tempo in cui vi chiamerete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete, ritornar sicuri a casa vostra; ad ogni modo Dio provvederà a voi pel vostro meglio; ed io certo mi studierò di non mancare alla grazia ch'Egli mi fa, scegliendomi a suo ministro nel servigio di voi suoi poveri cari tribolati. Voi,» continuò volgendosi alle due donne, «potrete fermarvi a ***. Quivi sarete abbastanza fuori d'ogni pericolo, e nello stesso tempo non troppo lontane dalla vostra casa. Cercate colà del nostro convento, fate domandare il padre guardiano, dategli questa lettera: egli sarà per voi un altro fra Cristoforo. E tu, mio Renzo, tu pure devi metterti per ora in salvo dalla rabbia altrui, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi nel nostro convento di porta orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti darà indirizzo, ti troverà lavoro, fin tanto che tu possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, presso allo sbocco del Bione,» un torrente a poca distanza del convento. «Ivi vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi? rispondete: san Francesco. La barca vi accoglierà, vi trasporterà all'altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà a dirittura fino a ***.» Chi domandasse come fra Cristoforoo avesse così tosto a sua disposizione quei mezzi di trasporto per acqua e per terra, mostrerebbe di non conoscere qual fosse il potere di un cappuccino tenuto in concetto di santo. Restava di pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a coloro, che Renzo ed Agnese gl'indicarono. Quest'ultima, consegnando la sua, mise un gran sospiro, pensando che in quel momento la casa era aperta, che il diavolo vi era stato, e chi sa che cosa vi rimaneva da custodire! «Prima che partiate,» disse il padre: «preghiamo tutti insieme il Signore perchè sia con voi in codesto cammino e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch'Egli ha voluto.» Così dicendo s'inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Poi ch'ebbero orato pochi momenti in silenzio, egli con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: «noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la domandassimo di cuore per lui: ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove voi ci avete posti: possiamo offrirvi i nostri guai, e diventano un guadagno. Ma egli! Egli è vostro nimico. Oh sventurato! egli compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi.» Levatosi poi come in fretta, disse «via, figliuoli, non c'è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo Angelo vi accompagni:andate » E mentre eglino si avviavano con quella commozione che non trova parole e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse con voce commossa: «il cuore mi dice che ci rivedremo presto.» Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa egli il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, si ritirò a gran passo; i viaggiatori uscirono; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, colla voce anch'egli alterata. Queglino s'avviarono pian piano alla riva ch'era stata loro indicata; videro quivi il battello, e data e ricambiata la parola, v'entrarono. Il barcaiuolo, pontando un remo alla proda, se ne staccò; raccolto poi l'altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo verso la piaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe paruto immobile, se non fosse stato il tremolare, e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S'udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglio più lontano dell'acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di quei due remi che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano ad un colpo grondanti, e si rituffavano. L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata che si andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, colla faccia rivolta indietro, guardavano le montagne e il paese rischiarato dalla luna e svariato qua e là di grandi ombre. Si discernevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, colla sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che ritto nelle tenebre sopra una compagnia di giacenti addormentati, vegliasse meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio a traverso la china, fino al suo paesello, guardò fiso alla estremità, scerse la sua casetta, scerse la chioma folta del fico che sopravanzava sulla cinta del cortile, scerse la finestra della sua stanza; e seduta com'era sul fondo della barca, appoggiò il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, montagne sorgenti dalle acque, ed erette al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente non meno che lo sia l'aspetto dei suoi più famigliari; torrenti dei quali egli distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono in quel momento i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che un giorno tornerà dovizioso. Quanto più s'avanza nel piano, il suo occhio si ritrae fastidito e stanco da quella ampiezza uniforme; l'aere gli simiglia' gravoso e senza vita; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose, le case aggiunte a case, le vie che sboccano nelle vie pare che gli tolgano il respiro; e dinanzi agli edifizii ammirati dallo straniero, egli pensa con desiderio inquieto al camperello del suo paese, alla casuccia a cui egli ha già posti gli occhi addosso da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli nè pure un desiderio sfuggevole, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire; e ne è sbalzato lontano da una forza perversa! Chi strappato ad un tempo alle più care abitudini, e sturbato nelle più care speranze, lascia quei monti per avviarsi in traccia di stranieri che non ha mai desiderato di conoscere, e non può colla immaginazione trascorrere ad un momento stabilito pel ritorno! Addio, casa natale, dove sedendo con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore di un'orma aspettata con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si compiaceva di figurarsi un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dove era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Quegli che dava a voi tanta giocondità è da per tutto; ed Egli non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e maggiore. Di tal genere, se non tali appunto erano i pensieri di Lucia, e poco dissimili i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla destra riva dell'Adda. L'urtare che fece la barca contro alla proda scosse Lucia, la quale dopo aver rasciutte in segreto le lagrime, si alzò come da dormire. Renzo uscì il primo, porse la mano ad Agnese, la quale uscita pure, la porse alla figlia; e tutti e tre rendettero tristamente grazie al barcaiuolo. «Niente, niente; siamo quaggiù per aiutarci l'un l'altro,» rispose egli; e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, quando Renzo cercò di tramettervi una parte dei quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva portati con sè quella sera, ad intenzione di riconoscere generosamente don Abbondio, quando questi lo avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era quivi preparato; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una sferzata, e via. Il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno si trovano avviluppate con un intrigo tenebroso di persona attenente a famiglia, come pare, assai potente, al tempo che l'autore scriveva. Per render ragione della strana condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto raccontare in succinto la sua vita antecedente; e la famiglia vi fa quella figura che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover'uomo ci ha voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l'hanno fatto trovare in altra parte. Uno storico milanese che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non la nomina, è vero, nè il paese; ma di questo dice ch'era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove che vi scorre il Lambro; altrove, che v'è un arciprete. Dal riscontro dei quali estremi noi deduciamo che fosse Monza senz'altro. Nel vasto tesoro delle induzioni erudite ve ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche proporre congetture molto fondate sul nome della famiglia; ma, quantunque la congetturata da noi sia estinta da gran tempo, stimiamo meglio sopprimerle, per non metterci a rischio di far torto nè anche ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca. I nostri viaggiatori giunsero dunque a Monza poco dopo il levar del sole: il conduttore voltò in un'osteria, e quivi, come sperto del luogo e conoscente dell'ostiere, fe' loro assegnare una stanza, e ve gli accompagnò. Fra i ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche mercede; ma quegli, al pari del barcaiuolo, ne aveva in mira un'altra più lontana e più abbondante: tirò anch'egli indietro le mani, e, come fuggendo, corse a governare la sua bestia. Dopo una sera quale l'abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di quei pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al frizzo d'un'aria più che autunnale, e fra gli spessi trabalzi della disagiata vettura, che riscotevano sgarbatamente il poveretto che pur pure cominciasse a velar l'occhio, parve loro assai buono il sedersi sur una panchetta che stava ferma, in una stanza riparata, come che fosse. Fecero quivi un po' di carità insieme, come comportavano la penuria dei tempi, i mezzi scarsi in proporzione dei contingenti bisogni d'un avvenire incerto, e lo scarso appetito. L'uno dopo l'altro si ricordarono tutti e tre del banchetto che due giorni prima s'aspettavano di fare; e ciascuno alla sua volta mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi quivi almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servigi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo tosto per la sua strada. Allegarono quindi esse e quegli ordini e cento altre ragioni: che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch'egli potrebbe venir presto a dare e ad intender novelle; tanto che il giovine si risolvè di partire. Furono presi più partitamente i concerti; Lucia non nascose le lagrime; Renzo rattenne a stento le sue, e stringendo fortissimamente la mano ad Agnese, disse con voce soffocata: «a rivederci», e partì. Le donne si sarebbero trovate ben impacciate, se non fosse stato quel buon conduttore, il quale aveva ordine di guidarle al convento, e di dar loro quell'indirizzo e quell'aiuto che potesse abbisognare. Colla sua scorta s'avviarono dunque al convento il quale, come ognun sa, era al di fuori di Monza un breve passeggio. Giunti alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questi comparve, e ricevette la lettera. «Oh! fra Cristoforo!» diss'egli, riconoscendo il carattere. Il tuono della voce e i movimenti del volto indicavano manifestamente ch'egli proferiva il nome d'un grande amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse in quella lettera raccomandate le donne con molto calore e riferito il lor caso con molto sentimento, perchè il guardiano di tratto in tratto faceva atti di sorpresa e d'indegnazione, e levando gli occhi dal foglio li fissava sopra le donne con una certa significazione di pietà e d'interessamento. Finito ch'ebbe di leggere, stette alquanto pensoso, e poi disse tra sè: – non c'è che la signora: se la signora vuol pigliarsi questo impegno… – Trasse quindi Agnese qualche passo lontano sulla piazzetta dinanzi al convento; le fece alcune interrogazioni, alle quali ella soddisfece; e tornato verso Lucia, disse ad entrambe: «donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più che sicuro, più che onorato, per fin che Dio abbia provveduto a voi in miglior modo. Volete venir con me?» Le donne accennarono riverentemente che sì; e il frate continuò: «venite meco al monastero della signora. State però discoste da me alcuni passi, perchè la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle storie si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per via con una bella gióvane… con femine voglio dire.» Così dicendo, andò innanzi. Lucia arrossò; il conduttore sorrise guardando Agnese, la quale pure lasciò scappare un sogghigno momentaneo; e tutti e tre si mossero quando il frate ebbe preso alquanto della via, e gli tennero dietro dieci passi discosto. Le donne allora chiesero al conduttore, ciò che non avevano osato al padre guardiano, chi fosse la signora. «La signora,» rispose quegli, «è una monaca: ma non è una monaca come le altre. Non mica che ella sia la badessa nè la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d'Adamo, e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e perciò la chiamano la signora per dire che ella è una gran signora; e tutto il paese la chiama per quel nome, perchè dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d'adesso, laggiù a Milano>contano assai, e son di quelli che hanno sempre ragione; e in Monza ancor più, perchè suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese, onde anch'essa può fare alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le portano un gran rispetto; e s'ella piglia un impegno, riesce poi anche a spuntarlo; però se quel buon religioso ch'è lì ottiene di mettervi nelle sue mani, e ch'ella vi accetti, vi so dire che sarete sicure come sull'altare.» Giunto alla porta del borgo, fiancheggiata in allora da un antico torracchione e da un pezzo di castellaccio diroccato, che forse dieci dei miei lettori possono ancor ricordarsi d'aver veduto in piedi, il guardiano si fermò, e si volse a guardare se era seguitato; entrò quindi e s'avviò al monastero; dove arrivato si fermò di nuovo sulla soglia aspettando la picciola brigata. Pregò il conduttore che volesse venire al convento a prendere la risposta: questi lo promise, e si accomiatò dalle donne, che lo caricarono di ringraziamenti e di commissioni pel padre Cristoforo. Il guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le introdusse nelle camere della fattora, alla quale le accomandò; e andò solo a fare la richiesta. Dopo pochi momenti, ricomparve giulivo a dir loro che venissero innanzi con lui; e giunse a tempo, perchè la figlia e la madre non sapevano più come strigarsi dalle interrogazioni pressanti della fattora. Attraversando un secondo cortile, diede un po' di lezione alle donne sul modo di portarsi colla signora. «Ella è ben disposta per voi,» diss'egli, «e può farvi del bene assai. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me.» Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima di porvi il piede, il guardiano, accennando la porta, disse sotto voce alle donne: «ella è qui,» come per far loro risovvenire di tutti gli avvertimenti che aveva lor dati. Luciache non aveva mai veduto un monastero, entrata nel parlatorio, guardò intorno dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava come smemorata; quando, veduto il padre andar verso un angolo, e Agnese tenergli dietro, guardò colà e avvisò un pertugio quasi quadrato, somigliante a una mezza finestra, sbarrato da due grosse e fìtte grate di ferro, distanti l'una dall'altra un palmo; e dietro quelle una monaca in piedi. Il suo aspetto, che mostrava un'età di venticinque anni, dava a prima giunta una impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, sconcertata. Un velo nero sospeso e stirato orizzontalmente sopra la testa cascava, a dritta e a manca, discosto alquanto dal volto; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva fino al mezzo una fronte di diversa, ma non d'inferiore bianchezza; un'altra benda a pieghe circondava la faccia, e terminava sotto al mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire l'imboccatura di un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava tratto tratto, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli nerissimi si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi pur nerissimi s'affisavano talora in volto altrui con una investigazione superba, talora si chinavano in fretta come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che domandassero affezione, corrispondenza, pietà; altra volta avrebbe creduto cogliervi la rivelazione istantanea d'un odio invecchiato e compresso, d'un non so quale talento feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, altri vi avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, altri avrebbe potuto sospettarvi il travaglio d'un pensiero nascosto, la sopraffazione d'una cura famigliare all'animo e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le guance pallidissime scendevano con un contorno delicato, ma soverchiamente scemo e alterato da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena suffuse d'un roseo dilavato, spiccavano pure in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni di espressione e di mistero. L'altezza ben formata della persona scompariva nella cascaggine abituale del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute a donna non che a monaca. Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa di studiato o di negletto che annunziava una monaca singolare: la vita era succinta con una certa industria secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia l'estremità d'una ciocchetta di neri capegli, il che mostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tener sempre mozze le chiome recise nella cerimonia solenne della professione. Queste cose non facevano caso nella mente delle due donne non esercitate a discernere monaca da monaca: e il padre guardiano che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tanti altri, a quel non so che strano che appariva nei modi, e nell'abito di lei. Ella stava in quel momento, come abbiam detto, in piedi presso la grata, appoggiata languidamente a quella con una mano, intrecciando le bianchissime dita nei fori, e con la faccia alquanto curvata, osservando quelli che si avanzavano. «Reverenda madre, e signora illustrissima,» disse il guardiano con la fronte china, e con la destra stesa sul petto: «questa è la povera giovane, per la quale ella mi ha fatto sperare la sua valida protezione; e questa è la madre.» Le due presentate facevano grandi inchini: la signora fece lor cenno della mano che bastava, e disse rivolta al padre: «è una buona ventura per me il poter far cosa di aggradimento ai nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma,» continuò, «mi dica un po' più particolarmente il caso di questa giovane, ond'io vegga meglio che si possa fare per essa.» Lucia arrossò, e chinò la faccia sul seno. «Deve sapere, reverenda madre…» incominciava Agnese; ma il guardiano le ruppe con una occhiata la parola in bocca, e rispose: «questa giovane, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partirsi nascostamente dal suo paese, per sottrarsi a gravi pericoli; e ha bisogno per qualche tempo d'un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand'anche…» «Quali pericoli?» interruppe la signora. «Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enigma. Ella sa che noi altre monache siamo vaghe d'intendere le storie per minuto.» «Sono pericoli,» rispose il guardiano, «che alle orecchie purissime della reverenda madre vogliono essere appena leggermente accennati…» «Oh certamente,» disse in fretta la signora, arrossando alquanto. Era verecondia? Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se lo avesse paragonato con quello che tratto tratto si diffondeva sulle guance di Lucia. «Basti dire,» riprese il guardiano, «che un cavaliere prepotente… non tutti i grandi del mondo, si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e a vantaggio del prossimo, come fa la signora illustrissima: un cavaliere prepotente, dopo d'aver perseguitata lungamente questa creatura con indegne lusinghe, veggendo ch'elle erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.» «Accostatevi, quella giovane,» disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito. «So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi su questa faccenda. A voi tocca di dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso.» Quanto all'accostarsi, Lucia obbedì tosto; ma il rispondere era un'altra faccenda. Una inchiesta su quella materia, quand'anche le fosse venuta da una persona sua pari l'avrebbe messa in confusione; proferita da quella signora, e con un certo vezzo di dubbio maligno le tolse ogni baldanza a rispondere. «Signora… madre… reverenda…» balbettò ella, e non accennava di aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che dopo lei era certamente la meglio informata, si credè autorizzata a venirle in soccorso. «Illustrissima signora,» diss'ella, «io posso far buon testimonio che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l'acqua santa: voglio dire, il diavolo era egli; ma ella mi perdonerà se parlo male, perchè noi siamo gente come Dio vuole. Fatto sta che questa povera ragazza era promessa ad un giovine nostro pari, timorato di Dio, e bene avviato; e se il signor curato fosse stato un po' più un uomo come voglio dir io… so che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso al pari di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e se fosse qui, potrebbe attestare…» «Siete ben pronta a parlare senza essere interrogata,» interruppe la signora, con un atto altero ed iracondo del volto, che lo fece parer quasi deforme. «Tacete: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta preparata in nome dei loro figliuoli!» Agnese mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca pel tuo non saper parlare. Il guardiano accennava pure con l'occhio e col muover del capo alla giovane, che quello era il momento di snighittirsi e di non lasciare in secco la povera donna. «Reverenda signora,» disse Lucia, «quanto le ha detto mia madre è la pura verità. Il giovane che mi parlava,» e qui si fece di porpora, «lo toglieva io di mia volontà. Mi perdoni se parlo da sfacciata; ma gli è per non lasciar pensar male di mia madre. E quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire che cadere nelle sue mani. E se ella fa questa carità di metterci al sicuro, giacchè siamo ridotte a far questa faccia di dimandare ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio; sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi povere donne.» «A voi credo,» disse la signora con voce raddolcita. «Ma avrò piacere di sentirvi da sola a sola. Non che m'abbisognino altri schiarimenti, nè altri motivi per servire alle premure del padre guardiano,» aggiunse ella tosto rivolgendosi a lui con una compitezza studiata. «Anzi,» continuò, «ci ho già pensato; ed ecco il meglio che per ora mi sovviene di poter fare. La fattora del monastero ha collocata, pochi giorni sono, l'ultima sua figliuola. Queste donne potranno occupare la stanza lasciata libera da quella, e supplirla nei pochi servigi ch'ella faceva pel monastero. Veramente…» e qui accennò al guardiano che si avvicinasse alla grata, e continuò sotto voce: «veramente, attesa la scarsezza dei tempi, non si pensava di sostituire nessuno a quella giovane; ma parlerò io alla madre badessa, e ad una mia parola… per una premura del padre guardiano… In somma do la cosa per fatta.» Il guardiano cominciava a render grazie, ma la signora l'interruppe: «non occorrono cerimonie: anch'io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell'assistenza dei padri cappuccini. Alla fine,» continuò ella con un sorriso, nel quale traspariva un non so che di beffardo e d'amaro, «alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?» Così detto, chiamò una suora conversa, (due di queste erano per una distinzione singolare assegnate al suo servigio privato) e le impose che avvertisse di ciò la badessa, e fatta poi venir la fattora alla porta del chiostro, prendesse con lei e con Agnese i concerti opportuni. Congedò questa, accommiatò il guardiano e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni per via, e se ne andò a preparare la lettera di relazione all'amico Cristoforo. – Gran cervellina che è questa signora! pensava tra sè in cammino: curiosa davvero! Ma chi la sa pigliare pel suo verso, le fa fare ciò che vuole. Il mio Cristoforo non si aspetterà certamente ch'io l'abbia servito così presto e bene. Quel brav'uomo! non c'è rimedio: bisogna ch'egli si pigli sempre qualche impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta che ha trovato un amico, il quale senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende ha condotto l'affare a buon porto in un batter d'occhio. Vorrà esser contento quel buon Cristoforo, e s'accorgerà che anche noi qui siamo buoni da qualche cosa. – La signora che alla presenza d'un provetto cappuccino aveva studiati gli atti e le parole, rimasa poi testa testa con una giovane forese inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così stranii, che invece di riferirli noi crediamo più opportuno di narrare brevemente la storia antecedente di questa infelice quel tanto cioè che basti a render ragione dell'insolito e del misterioso che abbiamo veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta nei fatti che dovremo raccontare. Era essa l'ultima figliuola del principe ***, un gran gentiluomo milanese, il quale poteva contarsi fra i più doviziosi della città. Ma il concetto indefinito ch'egli aveva del suo titolo gli faceva parere le sue sostanze appena sufficienti, scarse anzi a sostenerne il decoro; e tutte le sue cure erano rivolte a conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli egli s'avesse non appare chiaramente dalla storia; si rileva soltanto ch'egli aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell'uno e dell'altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a perpetuare la famiglia, a procreare cioè dei figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nello stesso modo. La nostra infelice stava ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi s'ella sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva mestieri, non il suo assenso, ma la sua presenza. Quando ella comparve, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l'idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa di alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si posero fra le mani; poi immagini vestite da monaca, accompagnando il dono col'ammonizione di tenerne ben conto, come di cosa preziosa, e con quell'interrogare affermativo: «bello eh?» Quando il principe o la principessa o il principino, che solo dei maschi veniva allevato in casa, volevano lodare l'aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovassero modo d'esprimer bene la loro idea, se non colle parole: «che madre badessa!» Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Ella era una idea sottintesa e toccata incidentemente in ogni discorso, che risguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina si lasciava andare a qualche atto un po' tracotante e imperioso, al che la sua indole la portava assai facilmente, «tu sei una ragazzina,» le si diceva: «questi modi non ti si confanno: quando sarai la madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso.» Qualche altra volta il principe, riprendendola di certe maniere troppo libere e famigliari alle quali pure ella trascorreva assai volentieri, «ehi! ehi!» le diceva: «non son vezzi da una tua pari: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti si conviene, impara fin d'ora a star più in contegno: ricordati che tu devi essere in ogni cosa la prima del monastero; perchè il sangue si porta per tutto dove si va». Tutte le parole di questo genere inducevano nel cervello della fanciullina l'idea implicita ch'ella aveva ad esser monaca; ma quelle che venivano dalla bocca del padre, facevano più effetto di tutte le altre insieme. Le maniere del principe erano abitualmente quelle d'un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspirava una immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d'una necessità fatale. A sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l'abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l'anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo di leggieri asserire che egli fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, egli vi godeva d'una grandissima autorità; e pensò che ivi meglio che altrove la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Nè s'ingannava: la badessa d'allora, e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come suol dirsi, la mestola in mano, trovandosi avvolte in certe gare con un altro monastero, e con qualche famiglia del paese, furono molto liete d'acquistare un tanto appoggio, ricevettero con grande riconoscenza l'onore che veniva loro compartito, e corrisposero pienamente alle intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni del resto assai consonanti al loro interesse. Gertrude appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto alla mensa, nel dormitorio; la sua condotta proposta alle altre per esemplare; dolci e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po' riverente, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che veggiono trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a trarre la poverina nel laccio: molte ve ne aveva di semplici ed aliene da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sagrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non si accorgevano bene di tutti quei maneggi, parte non discernevano quanto vi fosse di reo, parte si astenevano dal farvi sopra esame, parte tacevano per non fare scandali inutili. Qualcuna anche, ricordandosi d'essere stata con simili arti condotta a quello di cui s'era pentita poi, sentiva compatimento della povera innocentina, e lo sfogava col farle carezze tenere e malinconiche, sotto le quali ella era ben lunge dal sospettare che ci fosse mistero: e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma tra le sue compagne di educazione ve n'era alcune che sapevano d'essere destinate al matrimonio. Gertrudina, nodrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva ad ogni conto esser per le altre un soggetto d'invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. Alle immagini maestose, ma circoscritte e fredde che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevano elle le immagini varie e luccicanti di sposo, di conviti, di veglie, di ville, di tornei, di corteggi, di abiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, collocato davanti ad un'arnia. I parenti e le educatrici avevano coltivata e cresciuta in lei la vanità naturale, per farle parer buono il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più affini ad essa, si gettò ben tosto in quelle con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva ella che, al far dei conti, nessuno le poteva porre il velo in capo senza il suo assenso, che anche ella poteva torre uno sposo, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che lo avesse voluto; che lo vorrebbe, che lo voleva: e lo voleva in fatti. L'idea della necessità del suo consenso, idea che fino allora era stata come inavvertita e rannicchiata in un angolo della sua mente, vi si svolse allora, e si manifestò con tutta la sua importanza. Ella la chiamava ad ogni tratto in soccorso, per godersi più tranquillamente le immagini d'un avvenire gradito. Dietro questa idea però ne compariva sempre infallibilmente un'altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e a questa idea l'animo della figliuola era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, che erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l'invidia che da principio aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l'odio si esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta la conformità delle inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere una apparente e transitoria intrinsichezza. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale, e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire alle altre quella sua superiorità; talvolta non potendo più tollerare la solitudine dei suoi timori e dei suoi desiderii, andava raumiliata in cerca di quelle, quasi ad implorare benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciuole con sè e con altrui, aveva ella varcata la puerizia, e s'inoltrava in quella età così critica, nella quale par che entri nell'animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte le inclinazioni, tutte le idee, e qualche volta le trasforma o le rivolge ad un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in quei sogni dell'avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e di affettuoso che da prima v'era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a svolgersi e a primeggiare nelle sue fantasie. Si era ella fatto nella parte più riposta della mente come uno splendido ritiro: quivi rifuggiva dagli oggetti presenti, quivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco ch'ella poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva appreso nei colloquii colle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; quivi dava comandi, e riceveva omaggi d'ogni genere. Di tempo in tempo i pensieri della religione venivano a turbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, quale era stata insegnata alla nostra poveretta, e quale ella l'aveva ricevuta, non proscriveva l'orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Spogliata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre. Negli intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l'infelice sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s'immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la renitenza alle insinuazioni dei suoi maggiori nella scelta dello stato fossero una colpa, e prometteva in cuor suo di espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro. Era legge che una giovane non potesse venire accettata monaca se prima non era stata esaminata da un ecclesiastico chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro a ciò deputato, affinchè constasse ch'ella vi si conduceva di sua libera elezione: e questo esame non poteva aver luogo se non un anno dopo che ella avesse con una supplica in iscritto esposto a quel vicario il suo desiderio. Quelle monache che avevano pigliato il tristo incarico di far che Gertrude si obbligasse per sempre colla minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero uno dei momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e soscrivere una tale supplica. E a fine di indurla più facilmente a ciò, non mancarono di dirle e di ripeterle, ciò che era vero, che quella finalmente era una mera formalità la quale non poteva avere efficacia se non da altri atti posteriori che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s'era già pentita d'averla scritta. Si pentiva poi di quei pentimenti, passando così i giorni e i mesi in una incessante vicenda di voleri e di disvoleri. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel suo fatto, ora per timore di esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di manifestare un marrone. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l'animo e di accattar consiglio e coraggio. V'era un'altra legge, che a quell'esame della vocazione una giovane non fosse ricevuta se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. L'anno dall'invio della supplica era già quasi trascorso, e Gertrude era stata avvertita che fra poco ella verrebbe tolta dal monastero e condotta nella casa paterna per istarvi quel mese, e fare tutti i passi necessarii al compimento dell'opera ch'ella aveva di fatto incominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma tali non erano più i conti della giovane: invece di fare gli altri passi, ella pensava al modo di tirare indietro il primo. In tali strette si risolvè d'aprirsi con una delle sue compagne, la più franca e pronta sempre a dar consigli vigorosi. Questa suggerì a Gertrude d'informare per lettera il padre, come ella aveva mutato pensiero; giacchè non le bastava l'animo di cantargli a suo tempo sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo son rari assai, la consigliera fece pagar questo a Gertrude con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata fra tre o quattro confidenti, scritta di soppiatto, e fatta ricapitare per via di artifizii molto studiati. Gertrude stava con grande ansietà aspettando una risposta che non venne mai. Se non che alcuni giorni dopo, la badessa, tiratala in disparte, con un contegno di reticenza, di disgusto e di compassione, le toccò un motto oscuro d'una gran collera del principe, e d'una scappata ch'ella doveva aver fatta, lasciandole però intendere che portandosi bene ella poteva sperare che tutto si dimenticherebbe. La giovinetta intese e non osò chiedere più in là. Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse ch'ella andava ad un combattimento, pure l'uscire del monastero, l'oltrepassar quelle mura nelle quali era stata otto anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l'aperta campagna, il rivedere la città, la casa, furono per lei sensazioni piene d'una gioia tumultuosa. Quanto al combattimento, ella, colla direzione di quelle confidenti, aveva già pigliate le sue misure, e fatto, come ora si direbbe, il suo piano. – O mi vorranno far violenza, pensava ella; e io terrò duro, sarò umile, rispettosa, ma negherò: non si tratta che di non proferire un altro sì; e non lo proferirò. Ovvero mi prenderanno colle buone; ed io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro che di non essere sagrificata. – Ma, come accade sovente di simili previdenze, non si avverò nè l'uno nè l'altro supposto. I giorni scorrevano senza che il padre nè altri le parlasse della supplica, nè della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, nè con vezzi nè con minacce. I parenti erano serii, tristi, burberi con lei, senza mai articolarne il perchè. Si capiva solamente che la risguardavano come una rea, come una indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto era duopo per farle sentire la sua soggezione. Di rado e solo a certe ore stabilite era ella ammessa alla compagnia dei parenti e del primogenito. Nei colloquii di questi tre sembrava regnare una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più dolorosa la proscrizione di Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; le parole che ella metteva timidamente innanzi, quando non avessero un oggetto di evidente necessità, o cadevano inavvertite, o venivano corrisposte con uno sguardo distratto, o con uno sprezzante, o con uno severo. Che se ella, non potendo più sofferire una così amara ed umiliante distinzione, insisteva, e tentava di addomesticarsi, se implorava un po' di amore, si udiva tosto gittar qualche motto indiretto ma chiaro sulla elezione dello stato; le si faceva copertamente intendere che v'era un mezzo di riconquistare l'affetto della famiglia. Allora, ella che non lo avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da per sè al suo posto di scomunicata; e vi rimaneva per soprappiù con una certa apparenza del torto. Tali sensazioni di oggetti presenti urtavano dolorosamente con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s'era già tanto occupata e s'occupava tuttavia nel segreto della sua mente. Aveva ella sperato che nella splendida e frequentata casa paterna avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò al tutto ingannata. La clausura era stretta e intera in casa come nel monastero; di uscire a diporto non si parlava nè pure; e una tribuna che dalla casa guardava in una chiesa contigua toglieva anche l'unica necessità che vi sarebbe stata di metter piede nella via. La compagnia era più trista, più scarsa, meno svariata che nel monastero. Ad ogni annunzio di una visita, Gertrude doveva salire a chiudersi con alcune vecchie donne di servigio: quivi anche pranzava ogni volta che vi fosse convito. La famiglia dei serventi si conformava nelle maniere e nei discorsi all'esempio e alle intenzioni della famiglia padrona: e Gertrude, che, per sua inclinazione avrebbe voluto trattarli con una dimestichezza signorile e incomposta, e che nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione di benevolenza alla pari, e scendeva a mendicarne, era poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benchè accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d'un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva ancora veduto di più simigliante o di più prossimo a quell'ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, e al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoperse non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e una inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ad ogni momento, e non lasciar vedere altrui. Le furono tenuti gli occhi addosso più che mai: che è e che non è, un bel mattino fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta venne nelle mani della cameriera, e da queste nelle mani del principe. Il terrore di Gertrude al calpestìo dei passi di lui non si può descrivere, nè immaginare: era quel padre, era irritato, ed ella si sentiva colpevole. Ma quando lo vide apparire, con quel sopracciglio, con quella carta in mano, ella avrebbe voluto essere cento braccia sotterra, non che in un chiostro. Le parole non furono molte, ma terribili: il castigo intimato al momento non fu che un rinchiudimento in quella stanza sotto la guardia della cameriera che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un saggio, che un provvedimento istantaneo; si prometteva, si lasciava vedere nell'aria un altro castigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso. Il paggio fu tosto sfrattato, come era dovere; e gli fu minacciato qualche cosa pur di terribile se in nessun tempo avesse osato fiatar nulla dell'avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quella avventura un ricordo che togliesse al ragazzaccio ogni tentazione di vantarsene. Un pretesto qualunque per onestare l'espulsione d'un paggio non era difficile da trovarsi: quanto alla figlia, si disse ch'ella era incomodata. Si rimase ella dunque col battimento, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell'avvenire, e con la sola compagnia di quella donna ch'ella odiava come il testimonio della sua colpa e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza sapere per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d'un segreto pericoloso. Il primo confuso tumulto di quei sentimenti si acquetò a poco a poco; ma ognun d'essi, tornando alla sua volta nell'animo, vi s'ingrandiva, e si fermava a tormentarlo più distintamente e a bell'agio. Che poteva mai essere quella punizione minacciata in nube? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente ed inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fin quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale contingenza, tutta piena di dolori, aveva per lei di più doloroso era forse l'apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciaurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui erano destinate in risposta; fantasticava che avessero potuto cader sotto gli occhi pur della madre o del fratello, o di chi sa altri: e al paragone, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L'immagine di colui che era stato la prima origine di tutto lo scandalo non lasciava di venire anch'essa sovente ad infestare la povera rinchiusa: e non è da dire che strana comparsa facesse quel fantasma tra quegli altri così dissimili da lui, serii, freddi, minacciosi. Ma perciò appunto che non poteva separarlo da essi, nè tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che tosto non le si affacciassero i dolori presenti che ne erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarvi più di rado, a respingerne la rimembranza, a divezzarsene. Nè più a lungo o più volentieri si fermava in quelle liete e splendide fantasie d'una volta: erano troppo opposte alle circostanze reali, ad ogni probabilità dell'avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando ella si risolvesse di entrarvi per sempre. Una tale risoluzione (ella non poteva dubitarne) avrebbe racconciato ogni cosa, saldato ogni debito, e cangiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano è vero i pensieri di tutta una età: ma i tempi erano mutati; e nel fondo in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, obbedita, le pareva un zucchero. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivano pure per intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, ed una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l'orgoglio amareggiato ed irritato dai modi della carceriera, la quale (spesso, a dir vero, provocata da lei) si vendicava ora col farle paura di quel minacciato castigo, ora col farle vergogna del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tuono di protezione più odioso ancora dell'insulto. In tali diverse occasioni, la voglia che Gertrude provava di uscire dalle unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questa voglia abituale diveniva tanto viva e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarla. In capo di quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina Gertrude stomacata e invelenita oltre modo per uno di quei tratti della sua guardiana, si andò a cacciare in un angolo della stanza, e quivi col volto nascosto nelle palme, si stette qualche tempo a divorare la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altre facce, di udire altre parole, di esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le sovvenne che da lei dipendeva di trovare in loro degli amici, e provò una subita gioia. Dietro questa una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un eguale desiderio di espiarlo. Non già che la sua volontà fosse fermata a quel tale proponimento, ma giammai non vi s'era piegata così vicino. Si levò di quivi, andò ad un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, implorando il perdono e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo. V'ha dei momenti in cui l'animo, particolarmente dei giovani, è disposto di maniera che ogni poco d'istanza basta ad ottenerne tutto che abbia un'apparenza di bene, e di sagrificio come un fiore appena sbucciato si abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prima aria che gli aliti punto d'attorno. Questi momenti che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l'astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda. Al leggere di quella lettera il principe ***, vide tosto lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò dicendo a Gertrude ch'ella venisse da lui; e aspettandola, si dispose a battere il ferro mentre era caldo. Gertrude comparve, e senza levar gli occhi in volto al padre, gli si gettò a' piedi, ed ebbe appena fiato da dire: «perdono.» Quegli le fece cenno che si alzasse; ma con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo nè chiederlo, ch'ella era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. A questo il principe (non ci soffre il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull'animo della poveretta, come lo scorrere d'una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand'anche… caso che mai… egli avesse avuto da prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, ella stessa aveva ora posto a ciò un ostacolo insuperabile; giacchè ad un cavalier d'onore quale egli era non sarebbe mai bastato il cuore di regalare ad un galantuomo una signorina che aveva dato tal saggio di sè. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe raddolcendo a grado a grado la voce ed il discorso, proseguì a dire che però ad ogni fallo v'era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli pei quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch'ella doveva vedere in questo tristo accidente come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei… «Ah sì!» sclamò Gertrude scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea. «Ah! lo capite anche voi,» ripigliò incontanente il principe. «Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente che vi rimanesse; ma perchè l'avete preso di buona voglia, e di buon garbo, tocca a me di farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: a me tocca di farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo la cura io.» Così dicendo scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servo che entrò, disse: «la principessa e il principino subito.» E proseguì poi con Gertrude: «voglio metterli tosto a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincino tosto a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato un po' del padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.» A queste parole Gertrude rimaneva come smemorata. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato avesse potuto significar tanto, ora cercava se vi fosse un modo di ripigliarlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente. Sopravvennero in breve i due chiamati, e veggendo ivi Gertrude, l'affisarono con un volto incerto e maravigliato. Ma il principe con un contegno lieto e amorevole che ne prescriveva loro un simigliante «ecco,» disse, «la pecora smarrita: e intendo che questa sia l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; quello che noi desideravamo per suo bene, l'ha voluto ella spontaneamente. È risoluta, mi ha fatto intendere che è risoluta… ». A questo passo alzò ella al padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedere ch'egli sospendesse, ma egli proseguì francamente: «che è risoluta di prendere il velo.» «Brava! bene!» sclamarono ad una voce la madre e il figlio, e l'uno dopo l'altra abbracciarono Gertrude, la quale ricevette queste accoglienze con lagrime che furono interpretate per lagrime di consolazione. Allora il principe si allargò a spiegare ciò ch'egli farebbe per rendere lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni ch'ella avrebbe nel monastero e nel paese; ch'ella vi sarebbe come una principessa, la rappresentante della famiglia; che appena l'età lo avrebbe concesso, ella sarebbe assunta alla prima dignità; e intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano ad ogni tratto le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come posseduta da un sogno. «Converrà poi fissare il giorno per andare a Monza a fare la domanda alla badessa,» disse il principe. «Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutare l'onore che Gertrude gli fa. Anzi… perchè non vi andiamo oggi medesimo? Gertrude piglierà volentieri un po' d'aria.» «Andiamo pure,» disse la principessa. «Vado a dare gli ordini,» disse il principino. «Ma…» proferì sommessamente Gertrude. «Piano, piano,» ripigliò il principe: «lasciamo decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e amerebbe meglio aspettar fino a domani. Dite, volete voi che andiamo oggi o domani?» «Domani,» rispose con debole voce Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, pigliando un po' di tempo. «Domani,» disse solennemente il principe: «ella ha stabilito che si vada domani. Intanto io vado a chiedere al vicario delle monache che mi dia un giorno per l'esame.» Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu picciola degnazione) dal detto vicario, e ne ebbe promessa pel posdomani. In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe due minuti di quiete. Avrebbe ella desiderato riposar l'animo da tante commozioni, lasciare, per dir così, chiarificare i suoi pensieri, render conto a sè stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che era da farsi, sapere ciò che ella si volesse, rallentare un momento quella macchina che appena avviata, camminava così precipitosamente; ma non ci fu verso. Le occupazioni si succedevano senza interruzione, s'incastravano l'una nell'altra. Dopo quel solenne colloquio ella fu condotta nel gabinetto della principessa per essere quivi, sotto la sua direzione rivestita, assettata, per mano della sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l'ultima mano, che venne l'avviso esser servita la tavola. Gertrude passò fra gl'inchini dei servi che accennavano di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi che erano stati in fretta convitati per farle onore, e per rallegrarsi con lei delle due buone notizie, la ricuperata salute e la spiegata vocazione. La sposina (così si chiamavano le giovani monacande, e Gertrude al suo apparire fu da tutti salutata con quel nome) la sposina ebbe che fare assai di rispondere ai complimenti che le erano indirizzati. Sentiva ben ella che ognuna di quelle risposte era come una accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Levate le mense, poco si stette che venne l'ora del passeggio. Gertrude entrò in una carrozza colla madre, e con due zii che erano stati del convito. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dai giardini publici, ed era il raddotto dove i signori venivano in cocchio a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono molto a Gertrude, come era convenevole in quel giorno: e uno di essi che più dell'altro pareva conoscere ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ad ogni momento qualche cosa da dire del signor tale e della signora tale, s'interruppe tutt'ad un tratto e volto alla nipote: «ah furbetta!» le disse: «voi date un calcio a tutte queste minchionerie; siete una dritta voi; piantate negli impicci noi poveri mondani, andate a far vita beata, e vi portate in paradiso in carrozza.» Sull'imbrunire si tornò a casa; e i servi, scendendo in fretta coi doppieri, annunziarono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. Si entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l'idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sè: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva con gran sapore del primato che ivi ella avrebbe goduto. Altri che non avevano potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano agguatando l'occasione di farsi innanzi, e provavano un certo rimorso fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco la brigata si andò dileguando; tutti partirono senza rimorso, e Gertrude rimase sola con la famiglia. «Finalmente,» disse il principe, «ho avuta la consolazione di vedere la mia figlia trattata da sua pari. Bisogna però confessare, che anch'ella s'è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impacciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia.» Si cenò in fretta per ritirarsi presto ond'essere in pronto di buon'ora il domani. A Gertrude contristata, indispettita, e un po' gonfiata nello stesso tempo da quei tanti corteggiamenti della giornata sovvenne in quel momento di ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e veggendo il padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, volle approfittare dell'auge in cui si trovava, per soddisfare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente de' suoi modi. «Come!» disse il principe: «vi ha mancato di rispetto colei! Domani, domani le laverò io il capo in maniera che le starà bene. Lasciate fare a me, che ne avrete soddisfazione intera. Frattanto una figlia della quale io sono contento non debbe vedersi attorno una persona che le dispiaccia.» Così detto fece chiamare un'altra donna alla quale ordinò di servire Gertrude, la quale intanto masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarvi così poco gusto in paragone del desiderio che ne aveva avuto. Ciò che, anche a suo malgrado, s'impadroniva di tutta la sua riflessione, era il sentimento dei gran progressi che ella aveva fatti in quel giorno sulla via del chiostro, il pensiero che a ritrarsene ora ci vorrebbe di gran lunga più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure ella non si era sentita d'avere. La donna che venne ad accompagnarla nella sua stanza era una vecchia di casa, stata già governante del principino, cui ella aveva ricevuto dalle braccia della nutrice, e tirato su fino all'adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa lieta della decisione fatta in quel giorno come d'una sua propria fortuna; e Gertrude a compimento della giornata dovette sentire le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia. Le parlò essa di certe sue zie e prozie, le quali s'erano trovate ben contente d'esser monache, perchè essendo di quella casa avevano sempre goduto de' primi onori, avevano sempre saputo tenere una mano al di fuori, e dal loro parlatorio erano uscite vittoriose da impegni nei quali le più gran dame erano rimaste al di sotto. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: verrebbe poi un giorno il signor principino con la sua sposa, la quale aveva certamente a essere una gran dama; e allora non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in movimento. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era coricata, parlava ancora che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti delle cure. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce stridula della vecchia, che venne di buon mattino a riscuoterla, perchè si apparecchiasse alla gita di Monza. «Alto, alto, signora sposina: è giorno fatto; e perch'ella sia vestita e assettata, ci vorrà anche un'ora almeno. La signora principessa si sta alzando; e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all'ordine di partire quando che sia. Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era tale fin da bambino; e posso ben dirlo io, che l'ho tenuto nelle mie braccia. Ma quando è alla via, non si vuol farlo aspettare, perchè, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s'impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo, è effetto di temperamento; e poi questa volta avrebbe anche un po' di ragione, perchè s'incomoda per lei. Guarda, in quei momenti, chi lo toccasse! non ha rispetto a nessuno, fuorchè al signor principe. Ma un giorno il signor principe sarà egli; il più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta signorina! perchè mi guarda così incantata? A quest'ora ella dovrebbe esser fuori del nido.» All'immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s'erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levarono tosto, come uno stormo di passere, all'apparire di uno spauracchio. Obbedì, si vestì in fretta, si lasciò acconciare, e comparve nella sala, dove i parenti e il fratello erano radunati. Fu fatta adagiare sur una sedia a bracciuoli e le fu portata una tazza di cioccolatte: il che a quei tempi era, quel che già presso ai romani il dare la veste virile. Quando si annunziò che la carrozza era pronta, il principe trasse la figlia in disparte, e le disse: «orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di far comparsa nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. Vi aspettano.» (È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa il giorno antecedente.) «Vi aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà che cosa volete: è affare di formalità. Potete rispondere che domandate d'essere ammessa a vestir l'abito in quel monastero dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Porgete quelle poche parole con un fare disimpacciato: che non s'avesse a dire che v'hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell'occorso: è un segreto che debbe restar sepolto nella famiglia. Però non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Mostrate di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che in quel luogo, fuori della famiglia, non v'è nessuno sopra di voi.» Senza aspettar risposta, il principe si mosse, Gertrude, la principessa e il principino gli tennero dietro, scesero le scale; e in carrozza. Gl'impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della via, il principe rinnovò le istruzioni alla figliuola, e le ripetè più volte la formola della risposta. All'entrare in quel paese, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata istantaneamente da non so quali signori, che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so che complimento. Ripreso il cammino, si andò più lentamente al monastero, tra gli sguardi dei curiosi che accorrevano da tutte le parti sulla via. Al fermarsi della carrozza, dinanzi a quelle mura, dinanzi a quella porta, il cuore si strinse ben più a Gertrude. Si smontò fra due ale di popolo che i servi facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta le imponevano di studiare ad ogni momento il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in soggezione i due del padre, ai quali ella, quantunque ne sentisse così gran paura, non poteva lasciare di rivolgere i suoi ad ogni momento. E quegli occhi governavano le mosse e i sembianti di lei come per mezzo di redine invisibili. Attraversato il primo cortile, si entrò nel secondo, e quivi apparì la porta del chiostro interiore, spalancata e tutta occupata da monache. In prima fila la badessa circondata da anziane; dietro altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse sollevate sopra sgabelli. Si vedevano pure qua e là luccicare a mezz'aria qualche occhietti, spuntar qualche faccette fra le cocolle; erano le più destre, e le più animose delle educande, che ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, erano riuscite a farsi un po' di pertugio, per vedere anch'esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevano molte braccia dimenarsi in segno di accoglienza e di esultazione. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a faccia a faccia colla madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa con un modo tra giulivo e solenne, la interrogò: che cosa ella desiderasse in quel luogo, dove non v'era chi le potesse negar nulla. «Son qui…» cominciò Gertrude; ma al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente il suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi su la folla che le stava dinanzi. Vide in quel momento una di quelle sue note compagne che la guardava con una cera mista di compassione e di malizia, e pareva che dicesse: ah! c'è incappata la brava. Quella vista svegliando più vivi nell'animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po' di quel poco antico coraggio: e già ella stava cercando una risposta qualunque diversa da quella che le era stata dettata. Quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentare le sue forze, scorse su quella una inquietudine così cupa, una impazienza così minaccevole, che risoluta per tema, con la stessa prontezza con che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: «son qui a domandare d'essere ammessa a vestir l'abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente.» La badessa rispose subito, dolerle assai in quel caso che i regolamenti le vietassero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai suffragii comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza dei superiori. Che però Gertrude conosceva abbastanza i sentimenti che si avevano per lei in quel luogo per prevedere quale questa risposta sarebbe; e che intanto nessun regolamento impediva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella domanda. Levossi allora un frastuono confuso di congratulazioni e di acclamazioni. Vennero tosto grandi bacili colmi di dolci, che furono presentati prima alla sposina, e poscia ai parenti. Mentre alcune delle monache se la rapivano, altre facevano complimenti alla madre, altre al principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove ella lo attendeva. Era accompagnata da due anziane, e quando lo vide comparire, «signor principe,» diss'ella: «per obbedire alle regole… per adempiere una formalità indispensabile, sebbene in questo caso… pure debbo dirle… che ogni volta che una figlia domandi d'essere ammessa alla vestizione… la superiora, quale io sono indegnamente… tiene obbligo di avvertire i parenti… che se per caso… essi forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà… » «Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza; è troppo giusto… Ma ella non può dubitare… » «Oh! pensi, signor principe… ho parlato per obbligo preciso…del resto… ». «Certo, certo, madre badessa.» Scambiate queste poche parole, i due interlocutori s'inchinarono vicendevolmente e si separarono, come se ad entrambi pesasse di prolungare quel discorso, e andarono a riunirsi ciascuno alla sua brigata, l'uno al di fuori, l'altra al di dentro della soglia claustrale. «Oh via,» disse il principe: «Gertrude avrà presto ogni comodità di godersi a sua voglia la compagnia di queste madri. Per ora le abbiam tenute abbastanza a disagio.» E fatto un inchino diè segno di voler partire; la famiglia si mosse, si rinnovarono i complimenti e si partì. Gertrude nel ritorno non aveva troppa volontà di parlare. Spaventata dal passo che aveva fatto, vergognata della sua dappocaggine, indispettita contra gli altri, e contra sè stessa, faceva tristamente il conto delle occasioni che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sè stessa che in questa, o in quella, o in quell'altra ella sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri non le era però cessato del tutto lo spavento di quel cipiglio del padre; talchè, quando per un'occhiata gittata alla sfuggiasca sul volto di lui, potè chiarirsi che non v'era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide ch'egli si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve un bel che, e fu per un istante tutta contenta. Appena giunti, una lunga assettatura, poi il pranzo, poi alcune visite, poi il passeggio, poi la conversazione, poi la cena. Sul finire di questa, il principe mise sul tappeto un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama la quale, pregata a ciò dai parenti, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la domanda e la vestizione; tempo che veniva speso in visitare le chiese, i palazzi publici, le conversazioni, le ville, i santuarii: tutte le cose in somma più notabili della città e dei contorni; affinchè le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a che cosa davano un calcio. «Bisognerà pensare a una madrina,» disse il principe: «perchè domani verrà il vicario delle monache per la formalità dell'esame, e subito dopo Gertrude verrà proposta in capitolo per essere accettata dalle madri.» Proferendo queste parole egli s'era voltato verso la principessa; e questa credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: «vi sarebbe…» Ma il principe interruppe: «no, no, signora principessa: la madrina dee prima di tutto gradire alla sposina; e benchè l'uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta aggiustatezza, che merita bene d'esser cavata dell'ordinario.» E qui rivolto a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: «ognuna delle dame che si sono trovate questa sera alla conversazione, possede le condizioni necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa; ognuna, mi do a credere, sarà per tenere ad onore di essere la preferita: scegliete voi.» Gertrude sentiva bene che lo scegliere era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto avrebbe avuto sembiante di disprezzo, e lo scusarsi di sconoscenza o di fastidiosaggine. Fece ella dunque anche quel passo; e nominò la dama che in quella sera le era andata più a genio, quella cioè che le aveva fatte più carezze, che l'aveva più lodata, che l'aveva trattata con quei modi famigliari, affettuosi, e premurosi che nei primi momenti d'una conoscenza contraffanno una antica amicizia. «Ottima scelta,» sclamò il principe, che desiderava ed aspettava quella appunto. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giuocator di mano facendovi scorrere dinanzi agli occhi le carte d'un mazzo, vi dice che ne pensiate una, ed egli poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in modo che voi ne veggiate una sola. Quella dama era stata tanto attorno a Gertrude tutta la sera, l'aveva tanto occupata di sè, che a questa sarebbe abbisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un'altra. Tante premure poi non erano senza motivo: la dama aveva da molto tempo posto gli occhi addosso al principino per farlo suo genero: quindi ella risguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s'interessasse per quella cara Gertrude, niente meno dei suoi parenti più prossimi. Al domani Gertrude si svegliò colla immaginazione dell'esaminatore che doveva venire; e mentre stava pensando se e come ella potesse cogliere quella occasione così decisiva per dare addietro, il principe la fece chiamare. «Orsù, figliuola,» le diss'egli: «finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l'opera. Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto di vostro consenso. Se in questo mezzo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo da far ragazzate. Quell'uomo dabbene che ha da venire questa mattina, vi farà cento interrogazioni sulla vostra vocazione: e se vi andate di buona voglia, e perchè e per come, e che so io? Se voi tentennate nel rispondere, egli vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un fastidio e uno sfinimento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni publiche che si son fatte, ogni più picciola esitazione che si vedesse in voi, porrebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere che io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, ch'io fossi corso a furia, che avessi… che so io? In questo caso mi troverei nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o lasciare che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò ch'io debbo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e… ». Ma qui veggendo che Gertrude s'era fatta tutta di fiamma, che i suoi occhi si gonfiavano, e il volto si contraeva come le foglie d'un fiore nell'afa che precede la burrasca, ruppe quel discorso, e con volto sereno, ripigliò: «via, via, tutto dipende da voi, dal vostro giudizio. So che ne avete molto, e non siete ragazza da guastare il ben fatto in sulla fine; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d'accordo in questo che voi risponderete con franchezza in modo di non far nascer dubbii nella testa di quell'uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto.» E qui dopo d'aver suggerita qualche risposta alle contingenti interrogazioni, entrò nel solito discorso delle dolcezze, e dei godimenti che erano preparati a Gertrude nel monastero, e in ciò la trattenne, tanto che un servo venne ad annunziare l'esaminatore. Il principe dopo un breve rinnovare dei ricordi più importanti, lasciò la figlia sola con lui, come era prescritto. L'uomo dabbene veniva con un po' di opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro; perchè così gli aveva detto il principe, quando era stato ad invitarlo. Ben è vero che il buon prete, il quale sapeva esser la diffidenza una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima di andare adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contra le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure di una persona autorevole in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta. Dopo i convenevoli: «signorina,» diss'egli: «io vengo a far la parte del diavolo, vengo a porre in dubbio ciò che nella sua supplica ella ha dato per certo, vengo a metterle innanzi agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se ella le ha ben considerate. Si contenti ch'io le faccia qualche interrogazione.» «Dica pure,» rispose Gertrude. Il buon prete cominciò allora ad interrogarla nella forma prescritta dai regolamenti. «Sente ella in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s'è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi e con sincerità ad un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che le venga fatta violenza in nessun modo.» La vera risposta ad una tale domanda si affacciò tosto alla mente di Gertrude con una evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire ad una spiegazione, dire di che ella era stata minacciata, raccontare una storia… La infelice rifuggì spaventata da questa idea, e corse tosto a cercare una qualunque altra risposta, quella che meglio e più presto la togliesse da quello stento. «Vado a monaca,» diss'ella, nascondendo il suo turbamento, «vado a monaca di mio genio, liberamente.» «Da quanto tempo le è venuto questo pensiero?» domandò ancora il buon prete. «L'ho sempre avuto,» rispose Gertrude, divenuta dopo quel primo passo più franca a mentire contra sè stessa. «Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?» Il buon prete non sapeva che terribile corda toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire nel volto l'effetto che quelle parole le producevano nell'animo. «Il motivo,» diss'ella, «è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.» «Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche… mi scusi… capriccio? Alle volte una cagione momentanea può fare una impressione che sembra dovere essere perpetua; e quando poi la cagione cessa, e l'animo si muta, allora…» No, no,» rispose precipitosamente Gertrude Gertrude: «la cagione è quella che le ho detto.» Il vicario, più per adempiere interamente al suo debito, che perchè egli stimasse esservene bisogno, insistette nelle inchieste; ma Gertrude era deliberata d'ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei, la poveretta pensava poi anche ch'egli poteva bene impedire che ella fosse monaca; ma questo era il termine della sua autorità sopra di lei, e della sua protezione. Partito ch'è fosse, ella si rimarrebbe sola col principe. E che che ella avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non ne avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far più che compiangerla. L'esaminatore fu prima stanco d'interrogare che la sventurata di mentire: ed egli sentendo quelle risposte sempre conformi e non avendo alcun motivo per dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio, e disse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e rallegratosi con lei, prese commiato. Attraversando le sale per uscire si abbattè nel principe il quale pareva passare di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in che aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto noiosa: a quella notizia respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi a corsa da Gertrude, la colmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano. Noi non terremo dietro a Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. Nè descriveremo tampoco in particolare e per ordine i sentimenti dell'animo suo in quel tratto di tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni troppo monotona e troppo simile alle cose già dette. L'amenità dei siti, il mutare degli oggetti, quel rallegramento dello scorrazzare all'aria aperta, le rendevano più odiosa l'idea del luogo dove al fine si smonterebbe per l'ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora erano le impressioni ch'ella riceveva nelle adunanze e nelle feste cittadine. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le cagionava un'invidia, un rodimento intollerabile; e tal volta l'aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che nel sentirsi dare quel titolo dovesse trovarsi il colmo d'ogni felicità. Talvolta la pompa dei palagi, lo splendore degli addobbi, il brulichìo e il clamore festevole delle conversazioni, le comunicavano una ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, ch'ella prometteva a sè stessa di ridirsi, di tutto soffrire più tosto che tornare all'ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi sul volto del principe. Talvolta anche il pensiero ch'ella doveva abbandonar per sempre quei godimenti, le ne rendeva amaro e penoso quel picciol saggio; come l'infermo assetato guarda con rancore, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d'acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l'attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l'accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne, concorsero, come era da aspettarsi, i due terzi dei voti segreti che erano richiesti dai regolamenti, e Gertrude fu accettata. Ella medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora di entrare al più presto nel monastero. Non v'era certo chi volesse opporsi ad una tale premura. Fu dunque fatta la sua volontà, ed ella, condotta pomposamente al monastero, vi prese l'abito. Dopo dodici mesi di noviziato pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripetè, e fu monaca per sempre. È una delle facoltà singolari ed incomunicabili della religione cristiana, questa: di poter dare indirizzo e quiete a chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato v'è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, presta lume e vigore per metterlo in opera a qualunque costo; se non v'è, essa dà il modo di fare realmente e in effetto, ciò che l'uom dice in proverbio, della necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò che è stato intrapreso per leggerezza, piega l'animo ad abbracciare con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà ad una elezione che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutto il consiglio, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una via così fatta, che da qualunque labirinto, da qualunque precipizio l'uomo capiti ad essa e vi si metta, può d'allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e giunger lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l'infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e lo schiacciamento. Un repetìo incessante della libertà perduta, l'abborrimento dello stato presente, un vagamento faticoso dietro a desiderii che non sarebbero soddisfatti mai, tali erano le principali occupazioni dell'animo suo. Rimasticava quell'amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali era giunta là dov'era, e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l'opera; accusava sè di dappocaggine, altrui di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava in certi momenti qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo quei doni. La vista di quelle monache che avevano cooperato a condurla quivi entro, le era odiosa. Si ricordava le arti e gl'ingegni che avevano messi in opera e ne le pagava con tante sgarbatezze, con tante fantasticaggini, ed anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva il più sovente mandar giù e tacere: perchè il principe aveva ben voluto tiranneggiare la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l'intento, non avrebbe così facilmente patito che altri pretendesse d'aver ragione contra il suo sangue: e ogni po' di romore ch'elle avessero fatto poteva esser loro cagione di perdere quella gran protezione, o cangiare per avventura il protettore in nimico. Pare ch'ella avrebbe dovuto sentire una certa propensione per le altre suore che non avevano messo mano in quella sporca pasta d'intrighi, e che senza averla desiderata per compagna, l'amavano come tale, e pie, occupate e ilari le mostravano col loro esempio come anche quivi si potesse non solo vivere, ma godere. Ma queste pure le erano odiose per un altro verso. I loro sembianti di pietà e di contentezza le riuscivano come un rimprovero della sua inquietudine e dei suoi portamenti bisbetici; ed ella non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle come pinzochere, o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che quelle poche palle nere che s'eran trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, v'erano appunto state poste da quelle. Qualche consolazione le pareva talvolta di trovare nel comando, nell'essere corteggiata al di dentro, visitata adulatoriamente da alcuno di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora: ma quali consolazioni! L'animo che sentiva la loro insufficienza, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi e godere con esse le consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura quelle altre: come il naufrago, a volere afferrare la tavola che può condurlo in salvo su la riva, dee pure sciogliere il pugno, e abbandonare le alghe, e gli sterpi, che aveva abbrancati per una rabbia d'istinto. Poco dopo la professione, Gertrude era stata destinata a maestra delle educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovanette sotto una tale disciplina. Le antiche sue compagne erano tutte uscite: ma ella riteneva tutte le passioni di quel tempo; e in un modo, o nell'altro le allieve dovevano sentirne il peso. Quando le veniva in mente che molte di esse erano destinate a quel genere di vita di cui ella aveva perduta ogni speranza, sentiva contra quelle poverette un rancore, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le aspreggiava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebbero goduti un giorno. Chi avesse udito in quei momenti con che iracondia magistrale le sgridava per ogni picciola scappatella, l'avrebbe creduta donna d'una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti lo stesso orrore pel chiostro, per la regola, per l'obbedienza, scoppiava in accessi d'umore tutto opposto. Allora, non solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la eccitava; si mesceva ai loro giuochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte dei loro discorsi e li portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se alcuna toccava un motto del cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia, contraffaceva il volto di una monaca, il portamento d'un'altra: rideva allora sgangheratamente; ma erano risa che andavano poco in giù. Così era ella vissuta alcuni anni, non avendo agio nè occasione di far di più; quando la sua sventura volle che una occasione si presentasse. Fra le altre franchigie e distinzioni che le erano state accordate per compensarla di non poter essere badessa, v'era anche quella di alloggiare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo ad una casa abitata da un giovane, scellerato di professione, uno dei tanti che in quell'epoca, e coi loro scherani, e con le alleanze di altri scellerati, potevano fino ad un certo segno ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza più. Costui, da una sua finestretta che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrudealcuna volta passare o ronzare quivi per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dalla empietà dell'intraprendimento, un giorno osò rivolgerle la parola. La sventurata rispose. In quei primi momenti provò ella un contento non ischietto al certo, ma vivo. Nel vôto accidioso dell'animo suo s'era venuta ad infondere una occupazione forte, continua, come una vita potente; ma quel contento era simile alla bevanda ristorante che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato per invigorirlo a sostenere il martorio. Comparve allo stesso tempo una gran novità in tutti i suoi portamenti: divenne ella ad un tratto più regolare, più tranquilla, cessò dagli scherni, e dal rammarichìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, di modo che le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com'erano dall'immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù altro non era che ipocrisia aggiunta alle antiche magagne. Quella mostra però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore non durò gran tempo, almeno con quella continuità ed eguaglianza: ben tosto tornarono a dare in fuori i soliti dispetti e le solite fantasticaggini, tornarono a farsi intendere le imprecazioni e i dileggiamenti contra la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo e in quella bocca. Però ad ogni scappuccio teneva dietro un pentimento, una gran cura di farlo dimenticare a forza di piacevolezze. Le suore comportavano alla meglio tutte queste vicissitudini, e le attribuivano all'indole bisbetica e leggiera della signora. Per qualche tempo non parve che alcuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una suora conversa per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a svillaneggiarla fuor di modo e senza posa, la conversa dopo aver sofferto un poco e roso il freno, rinnegata finalmente la pazienza, gittò un motto, ch'ella sapeva qualche cosa, e che a suo tempo avrebbe parlato. Da quel punto in poi la signora non ebbe più pace. Non andò però molto che la conversa un mattino fu aspettata invano ai suoi ufici consueti: si andò a cercarla nella sua cella, e non vi si rinvenne; è chiamata ad alte voci, non risponde: fruga, rifruga, rimugina, di qua, di là, di su, di giù, dalla cantina al solaio, non v'è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebbero fatte, se appunto nel cercare, non si fosse scoperto un gran foro nella muraglia dell'orto; il che fece argomentare ad ognuna che ella fosse sfrattata per di là. Si spedirono tosto corrieri su diverse vie per darle dietro e raggiungerla, si fecero grandi ricerche al di fuori: non se ne ebbe mai la più picciola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se invece di cercar lontano, si fosse scavato da presso. Dopo molte maraviglie, perchè nessuno avrebbe stimata colei donna da ciò, e dopo molti argomenti, si conchiuse ch'ella doveva essere andata ben lontano, ben lontano. E perchè una suora aveva detto un tratto: «ella s'è rifuggita in Olanda di sicuro», si disse e si tenne poi sempre nel monastero che ella si fosse rifuggita in Olanda. Non pare però che la signora fosse in quella credenza. Non già ch'ella mostrasse di discredere, o combattesse l'opinione comune con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; nè v'era cosa da cui ella si astenesse più volentieri che da rimestare quella storia, cosa di cui si curasse meno che di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto manco ne parlava, tanto vi pensava più. Quante volte il giorno l'immagine di quella donna veniva a gittarsi d'improvviso nella sua mente, e vi si piantava, e non voleva muoversi! Quante volte ella avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, più tosto che averla sempre ficcata nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi giorno e notte in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto udire espressamente la vera voce di colei, quel suo garrito, che che avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell'intimo dell'orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e udirne parole alle quali non valeva rispondere, ripetute con una pertinacia, con una insistenza infaticabile che nessuna persona vivente non ebbe giammai! Era circa un anno da quell'avvenimento, quando Lucia fu presentata alla signora ed ebbe con lei quel colloquio al quale siamo rimasti col racconto. La signora moltiplicava le inchieste intorno alla persecuzione di don Rodrigo, ed entrava in certi particolari con una intrepidezza che riuscì e doveva riuscire peggio che nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizii poi ch'ella frammischiava alle interrogazioni, o che lasciava trasparire non erano meno strani. Pareva quasi che ridesse del gran terrore che Lucia aveva sempre provato di quel signore, e domandava s'egli era deforme, da far tanto paura: pareva quasi che avrebbe trovata irragionevole e sciocca la colei ritrosia, se non avesse avuta per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure si allargava a domande le quali facevano stupire ed arrossare l'interrogata. Avvedendosi poi di essersi troppo lasciata andare con la lingua agli svagamenti del cervello, cercò di correggere e d'interpretare in meglio quelle sue ciarle; ma non potè fare che a Lucia non ne rimanesse una maraviglia disaggradevole e un confuso spavento. E appena potè trovarsi sola con la madre, se ne aperse con lei; ma Agnese, come più sperimentata, sciolse con poche parole tutti quei dubbii, e chiarì tutto il mistero. «Non te ne far maraviglia,» diss'ella: «quando avrai conosciuto il mondo quanto io, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I signori, chi più chi meno, chi per un verso chi per un altro, hanno tutti un po' del matto. Conviene lasciarli dire, principalmente quando s'ha bisogno di loro; far mostra di ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste. Hai inteso come ella mi ha dato sulla voce, quasi che io avessi detto qualche grosso sproposito? Io non me ne sono stupita niente. Son tutti così. E con tutto ciò, sia ringraziato il cielo che pare che ella ti abbia preso amore, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e se t'incontrerà ancora di aver che fare con signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai.» Il desiderio di obbligarsi il padre guardiano, la compiacenza del proteggere, il pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione spesa così piamente, una certa inclinazione per Lucia, ed anche un certo sollievo nel far del bene ad una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevano realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere fuggiasche. Per rispetto degli ordini ch'ella diede, e della premura ch'ella mostrò, furono esse alloggiate nel quartiere della fattora attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette ai servigi del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d'aver trovato così tosto un asilo sicuro ed onorato. Avrebbero anche avuto caro assai di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un monastero: tanto più che v'era un uomo troppo deliberato di aver notizie d'una di loro, e nell'animo del quale, alla passione e alla picca di prima s'era aggiunta anche la stizza d'essere stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell'ora in cui egli stava attendendo l'esito della sua scellerata spedizione. Come un branco di segugi, dopo d'aver tracciata indarno una lepre, tornano sbaldanziti verso il padrone, coi musi bassi e colle code spenzolate, così in quella scompigliata notte tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli passeggiava innanzi e indietro al buio per una stanzaccia disabitata del piano superiore, che guardava sulla spianata. Tratto tratto si fermava a tender l'orecchio, a traguardare per le fessure delle imposte sdruscite, pieno d'impazienza e non scevro d'inquietudine, non solo per l'incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perchè ell'era la più grossa e la più arrischiata a cui il valentuomo avesse ancor messo mano. Si andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese perchè non rimanesse alcun indizio del fatto suo.– Quanto ai sospetti, me ne rido. Vorrei un po' sapere chi sarà quell'appetitoso che voglia venir qua su a chiarirsi se c'è o non c'è una giovane. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? vada a Bergamola vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è mica un ragazzo nè un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi darebbe lor retta? Chi sa che ci sieno? Sono come gente perduta sulla terra, non hanno nè anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà vedrà s'io son uomo da ciarle e da vanti. E poi… se mai nascesse qualche imbroglio… che so io? qualche nimico che volesse cogliere questa occasione… anche Attilio saprà consigliarmi: c'è impegnato l'onore di tutto il parentado. – Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perchè in esso trovava insieme un acquietamento dei dubbii e un pascolo alla passione principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse ch'egli adopererebbe ad imbonire Lucia. – Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che… il viso più umano qui son io, per bacco… che dovrà ricorrere a me, piegarsi ella a pregare; e se prega… – Mentre fa questi bei conti, ode un calpestìo, va alla finestra, apre un pochetto, fa capolino; son dessi. – E la lettiga? Diavolo! dove è la lettiga? Tre, cinque, otto; ci son tutti; c'è anche il Griso; la lettiga non c'è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto. – Entrati che furono, il Griso depose in un angolo d'una stanza terrena il suo bordone, depose il cappellaccio e il sanrocchino, e come portava la sua carica, che in quel momento nessuno gl'invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questi l'aspettava in capo della scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, «ebbene,» gli disse, o gli gridò: «signor spaccone, signor capitano, signor lasci-fare-a-me?» «L'è dura,» rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, «l'è dura di riscuoter dei rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.» «Com'è andata? Sentiremo, sentiremo,» disse don Rodrigo, e s'avviò verso la sua stanza, dove il Griso lo seguì, e tosto fece la sua relazione di ciò ch'egli aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, inteso, temuto, riparato; e la fece con quell'ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello stordimento che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee. «Tu non hai torto, e ti sei portato bene,» disse don Rodrigo: «hai fatto quello che si poteva; ma… ma, che sotto queste tegole ci fosse una spia! Se c'è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c'è, te lo aggiusto io; ti so dir io, Griso, che lo concio pel dì delle feste.» «Anche a me, signore,» disse questi, «è corso per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone l'ha da mettere nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me di pagarlo. Però, dal tutto insieme m'è paruto di poter rilevare che ci debb'essere qualche altro garbuglio, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne vedrà l'acqua chiara.» «Non siete stati riconosciuti almeno?» Il Griso rispose che egli sperava di no, e la conchiusione del colloquio fu che don Rodrigo gli ordinò pel domani tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sè. Spedire al mattino per tempissimo due uomini a fare al console quella tale intimazione, che fu fatta come abbiamo veduto; due altri al casolare per ronzarvi d'attorno, onde tenerne lontano ogni ozioso che quivi capitasse, e sottrarre ad ogni sguardo la lettiga fino alla notte prossima, in cui si sarebbe mandata a prendere, giacchè per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi egli alla scoperta, e mandare anche altri dei più disinvolti e di buona testa, per saper qualche cosa delle cagioni e della riuscita del guazzabuglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se ne andò a dormire, e vi lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi dalle quali traspariva evidentemente l'intenzione di ristorarlo, e in certo modo di fargli scusa degl'improperii precipitati coi quali lo aveva accolto. Va dormi, povero Griso, che tu dei averne bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader nell'unghie dei villani, o di acquistarti una taglia per rapto di donna honesta, in aggiunta di quelle che già hai addosso; e poi esser ricevuto acquei modo! Ma! così pagano gli uomini sovente. Tu hai però potuto vedere in questa occasione che qualche volta si fa ragione secondo il merito e i conti si aggiustano, anche in questo mondo. Va dormi per ora: che un giorno tu avrai forse a somministrarcene un'altra prova, e più notabile di questa. Al mattino vegnente, il Griso era attorno di nuovo in faccende, quando don Rodrigo si alzò. Cercò tosto del conte Attilio il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto da beffa, e gli gridò incontro: «san Martino!» «Non so che dire,» rispose don Rodrigo, giugnendogli a canto: «pagherò la scommessa; ma non è questo che più mi scotta. Non vi aveva detto nulla, perchè, lo confesso, io mi pensava di farvi stordire stamattina. Ma… basta, ora vi dirò tutto.» «C'è una mano di quel frate in questo negozio,» disse il cugino, dopo aver tutto ascoltato con sospensione, con maraviglia, e con più di serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. «Quel frate,» continuò egli, «con quel suo fare di gatta morta, con quel suo parlare a sproposito, io l'ho per un brigante e per un dritto. E voi non vi siete fidato di me, non mi avete mai detto bene schiettamente che cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l'altro giorno.» Don Rodrigo riferì il colloquio. «E voi avete sofferto tanto?» sclamò il conte Attilio: «E lo avete lasciato partire come era venuto?» «Che volevate, ch'io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d'Italia?» «Non so,» disse il conte Attilio, «se in quel momento mi sarei ricordato che vi fosse al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, pure nelle regole della prudenza, manca il modo, di prendersi soddisfazione anche d'un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare una mano di bastonate ad un membro. Basta; ha scansata la punizione che gli stava più bene; ma lo piglio io sotto la mia protezione, e voglio aver io la consolazione d'insegnargli come si parla ai pari nostri.» «Non mi fate peggio.» «Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.» «Che cosa pensate di fare?» «Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e… il signor conte zio del consiglio segreto è quegli che m'ha da fare il servigio. Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Posdomani sarò a Milano, e in un modo o in un altro, il frate sarà servito.» Venne intanto la colezione, la quale non interruppe il discorso d'un affare di quella importanza. Il conte Attilio ne parlava a cuor libero, e sebbene vi prendesse quella parte che richiedevano la sua amicizia pel cugino e l'onore del nome comune, secondo le idee ch'egli aveva di amicizia e di onore, pure tratto tratto non poteva tenersi di trovare un po' da ridere nella mala ventura dell'amico parente. Ma don Rodrigo che era in causa propria e che, pensandosi di far chetamente un gran colpo l'aveva fallito con istrepito, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più noiosi. «Di bei chiacchieramenti,» diceva egli, «faranno questi mascalzoni in tutto il contorno. Ma che m'importa? Quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n'è; quando ce ne fosse, me ne riderei egualmente: a buon conto ho fatto stamattina avvertire il console che si guardi bene di far deposizione dell'avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le chiacchiere quando vanno in lungo, mi seccano. Basta bene ch'io sia stato burlato così barbaramente.» «Avete fatto benissimo,» rispondeva il conte Attilio. «Codesto vostro podestà… gran caparbio, gran testa busa, gran seccatore d'un podestà… è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s'ha che fare con persone tali, bisogna aver più cura di non le mettere in impicci. Se un paltoniere di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che…» «Ma voi,» interruppe con un po' di stizza don Rodrigo, «voi guastate le mie faccende con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche all'occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!» «Sapete, cugino,» disse guardandolo con un occhio di maraviglia beffarda il conte Attilio, «sapete voi, che io comincio a credere che abbiate un po' di paura? Mi pigliate sul serio anche il podestà…» «Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tener conto…?» «L'ho detto: e quando si tratta d'un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete che cosa mi basta l'animo di fare per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah, sarà egli contento dell'onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz'ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnuolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così sterminate. Getterò poi io qualche parolina sul conte zio del consiglio segreto: e voi sapete che effetto fanno quelle paroline nell'orecchio del signor podestà. Alla fine delle fini, ha più bisogno egli della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e vi andrò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai.» Dopo queste e qualche altre simili parole, il conte Attilio uscì a cacciare, e don Rodrigo stette con ansietà aspettando il ritorno del Griso. Venne costui finalmente sull'ora del pranzo, a fare la sua relazione. Il garbuglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un così gran fatto, che le ricerche, e per interessamento e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall'altra parte gl'informati di qualche cosa erano troppi per andar tutti d'accordo a tutto tacere. Perpetua non poteva mettere il capo all'uscio che non fosse tempestata da colui e da colei, perchè dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, riandando e raccozzando tutte le circostanze del fatto, e comprendendo come era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta stizza di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d'un po' di sfogo. Non già ch'ella si andasse lamentando col terzo e col quarto del modo tenuto per infinocchiar lei: su di ciò ella non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare onninamente sotto silenzio; e sopra tutto che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quella quietina, da quel giovane dabbene, da quella buona vedova. Don Abbondio poteva bene comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che tacesse; ella poteva bene ripetergli che non faceva mestieri d'inculcarle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un tanto segreto stava nel cuore della povera donna, come in una botte vecchia e mal cerchiata un vino cavato molto giovane, che grilla e gorgoglia e ribolle, e se non manda il cocchiume per aria, vi si travaglia tanto all'intorno, che ne esce in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può berne, e dire a un di presso che vino è. Gervaso a cui non pareva vero d'essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva picciola gloria l'avere avuta una grossa paura, a cui, per aver tenuto mano ad una cosa che sapeva di criminale, pareva d'esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente alle inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli facesse, colle pugna sul muso, di gran precetti, pure non ci fu verso di soffocargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio anch'egli, dopo essere stato quella notte assente di casa in ora insolita, tornando a casa con un passo e con un sembiante insolito, e con una agitazione d'animo che lo disponeva alla sincerità, non potè dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; perchè appena ebbe egli raccontato ai parenti la storia e l'oggetto della sua spedizione, parve a questi così terribil cosa che un loro figliuolo fosse stato dentro a guastare una faccenda di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciarono finire al ragazzo la sua narrazione. Gli fecero poi tosto i più forti e minacciosi comandamenti che si guardasse bene di dar pure un cenno di nulla: e al mattino vegnente, non parendo loro di essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? eglino stessi poi, novellando con la gente del paese, e senza voler mostrare di saperne più che altri, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga dei nostri tre poveretti, e del come, e del perchè, e del dove, aggiungevano, quasi una cosa nota, che a Pescarenico s'erano rifuggiti. Così anche questa circostanza entrò nel discorso comune. Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e uniti come si suole, e con la frangia che vi s'appicca naturalmente nel cucire, v'era da fare una storia d'una certezza e di una chiarezza più che comunale, e da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasione dei bravi, accidente troppo grave e troppo romoroso per esserne lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po' positiva, quell'accidente era ciò che più rendeva la storia scura e ingarbugliata. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo tutti andavan d'accordo; nel resto tutto era oscurità e dissenso. Si parlava molto dei due bravacci ch'erano stati veduti nella via sul far della sera, e dell'altro che stava sulla porta dell'osteria; ma che lume si poteva egli ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all'oste chi era stato da lui la sera antecedente; ma l'oste non si ricordava pure se avesse veduto gente quella sera; e conchiudeva sempre che l'osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che era partito con loro, o che eglino avevan portato via. Che era egli venuto a fare? Era un'anima buona comparsa per aiutare le donne; era un'anima cattiva d'un pellegrino birbante e impostore che veniva sempre di notte ad unirsi con chi facesse di quelle che egli aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero che coloro avevano voluto ammazzare perchè si disponeva a svegliare il paese; era (vedete un po' che si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l'esperienza del non sarebbe bastata a scoprire chi egli fosse, se il Griso avesse dovuto rilevare questa parte della storia dai discorsi altrui. Ma, come il lettor sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente e col mezzo degli esploratori subordinati, potè di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse tosto con lui e gli disse del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vôta e il sonare a martello, senza che facesse mestieri di supporre traditori (come dicevano quei due galantuomini) in casa. Disse della fuga; e anche di questa era facile trovare più d'una cagione: il timore degli sposi sorpresi in colpa, o qualche avviso della invasione, dato loro quando ella era scoperta, e il paese tutto levato. Disse finalmente che s'erano riparati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l'esser certo che nessuno l'aveva tradito e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. «Fuggiti insieme!» gridò egli: «insieme! E quel frate birbante! Quel frate!» la parola usciva arrantolata dalla strozza e smozzicata fra i denti che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. «Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono… voglio sapere, voglio trovare… questa sera, voglio sapere dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare… Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone… ! E quel frate… !» Il Griso di nuovo in campo; e la sera di quel giorno medesimo, egli potè riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco per qual modo. Una delle più grandi consolazioni di questa vita è l'amicizia, e una delle consolazioni dell'amicizia è quell'avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non son divisi per coppie come i coniugi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d'uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovare il capo. Quando adunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d'un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione alla sua volta. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto ch'ella obblighi soltanto a non confidare il segreto che ad un amico egualmente fidato, e imponendogli la condizione medesima. Così d'amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quella immensa catena, tanto che giunge all'orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo giunger mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in via, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma v'ha degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto ad uno di questi uomini, i giri divengono sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di tener loro dietro. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse corso il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando col suo baroccio a Pescarenico sull'ora del vespero, s'abbattè, prima di toccar la soglia di casa, in un amico fidato, al quale raccontò in gran credenza la buona opera che aveva compiuta, e il seguito; e fatto sta che il Griso potè due ore dopo correre al palazzotto a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s'erano ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano. Don Rodrigo provò una scelerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po' di quella scelerata speranza di giungere ai suoi fini. Pensò al modo gran parte della notte, e si alzò di buon mattino con due disegni l'uno fermato, l'altro abbozzato. Il primo era di spedir tosto il Griso a Monza, per aver più chiara contezza di Lucia, e sapere se e qual cosa si potesse tentare. Fece dunque chiamar tosto quel suo fedele, gli pose in mano i quattro scudi, lo rilodò della abilità con che gli aveva guadagnati, e gli diede l'ordine che aveva premeditato. «Signore…» disse tentennando il Griso. «Che? non ho io parlato chiaro?» «S'ella potesse mandare qualche altro…» «Come?» «Signore illustrissimo, io son pronto a dar la pelle pel mio padrone: e gli è il mio dovere; ma so anche ch'ella non vuole arrischiar troppo la vita dei suoi sudditi.» «Ebbene?» «Vossignoria illustrissima sa bene di quelle poche taglie ch'io ho addosso: e… Qui son sotto la protezione di vossignoria; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portano rispetto; e anch'io… è cosa che fa poco onore, ma pel quieto vivere… li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza … vi sono conosciuto io invece. E sa vossignoria che, non dico per vantarmi, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l'uno sull'altro, e la facoltà di liberar due banditi.» «Che diavolo?» disse don Rodrigo: «tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d'avventarsi alle gambe di chi passa su la porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non s'assicura di allontanarsi quattro passi!» «Credo, signor padrone, di aver dato prove…» «Dunque!» «Dunque,» ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, «dunque vossignoria faccia conto ch'io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.» «E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio dei migliori… lo Sfregiato, e il Tira-dritto, e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre facce come le vostre, e che passano tranquillamente, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che ai birri di Monza la vita fosse ben venuta a noia, per metterla su contra cento scudi a un giucco così rischioso. E poi e poi, non credo di essere così sconosciuto colà, che la qualità di mio servitore non vi si conti per nulla». Fatto al Griso questo po' di vergogna, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il Griso tolse i due compagni e partì con una cera allegra e baldanzosa, ma bestemmiando nel segreto del cuoreMonza e le taglie e le donne e le fantasie dei padroni; e camminava come il lupo, che spinto dal digiuno, colla ventraia raggrinzata, e i solchi del costolame impressi nel bigio vello, cala dai suoi monti dove tutto è neve, procede sospettosamente nel piano, s'arresta tratto tratto con una zampa sospesa, dimenando la coda spelazzata, Leva il muso, odorando il vento infido, se mai gli porti sentore d'uomo o di ferro, drizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni da cui traluce insieme l'ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel romore; e io l'ho pigliato perchè mi veniva a taglio, e donde l'ho tolto, lo dico per non farmi bello dell'altrui: che non pensasse taluno ch'ella sia una mia arte per far sapere che l'autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch'io frugo a mia voglia ne' suoi manoscritti. L'altro macchinamento di don Rodrigo era sul modo di far che Renzo, staccato che s'era da Lucia, non le tornasse più vicino, nè mettesse più piede in paese. Divisava di fare spargere voci di minacce e d'insidie, che giungendo a colui per mezzo di qualche amico, gli togliessero la volontà di tornare da quelle bande. Pensava però che la più sicura sarebbe se si trovasse modo di farlo sfrattare dallo stato: e per riuscire in questo sentiva che più assai che la forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po' di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come una aggressione, un atto sedizioso, e per mezzo del dottore fare intendere al podestà ch'egli era il caso di spiccare contra Renzo una buona cattura. Ma il deliberante sentì tosto che non conveniva a lui di rimescolare quello sporco negozio; e senza stare altro a beccarsi il cervello, deliberò di aprirsi col dottore Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. – Le gride son tante! pensava don Rodrigo: e il dottore non è un'oca: qualche cosa che faccia al mio caso saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel galuppo birbone: altrimenti gli muto il nome. – Ma, (come vanno alle volte le faccende di questo mondo ! ) intanto che colui pensava al dottore come all'uomo più abile a servirlo in questo, un altr'uomo, l'uomo che nessuno s'immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo in un modo ben più certo e più speditivo di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi divisare. Ho veduto più volte un caro fanciullo, vispo a dir vero più del bisogno, ma che a tutti i segnali mostra di voler riuscire un galantuomo, l'ho, dico, veduto più volte affaccendato sulla sera a cacciare al coperto un suo gregge di porcellini d'India che aveva lasciati spaziare il giorno in un giardinetto. Avrebb'egli voluto fargli andar tutti di brigata al covile; ma l'era fatica indarno: uno si sbandava a destra, e mentre il picciolo pastore correva per cacciarlo in ischiera, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Di modo che, dopo essersi un po' impazientito, s'adattava al modo loro, spingeva prima dentro quei che eran più presso all'uscio, poi andava a pigliar gli altri a uno, a due, a tre, come gli veniva fatto. Un giuoco simile ci è forza di fare coi nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; ed ora lo dobbiamo abbandonare, per dar ricapito a Renzo che ci si para dinanzi. Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, egli camminava da Monza verso Milano, con quell'animo che ognuno può figurarsi di leggieri. Allontanarsi dalla casa, e quel che è più dal paese, e quel che è più ancora da Lucia, trovarsi sur una strada senza saper dove si andrebbe a posare il capo, e tutto per causa di quel birbone! Quando quella immagine si presentava alla fantasia di Renzo, egli s'ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi alla mente quella preghiera che egli pure aveva proferita col suo buon frate nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: tornava a venir su la stizza; ma veggendo una immagine sul muro, egli si traeva il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che in quel viaggio egli ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo e risuscitatolo, almeno venti volte. La via era tutta sepolta allora tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde che dopo una pioggia divenivano rigagnoli, e dove quelle non erano letto bastante alle acque, inondata tutta e ridotta a pozzanghera, e presso che impraticabile. A quei passi, un sentieruolo erto a guisa di scaglione su la riva indicava che altri passeggieri s'eran fatta una via nei campi. Renzo salito per uno di quei valichi sul terreno più elevato, guardò dinanzi a sè, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se non di mezzo ad una città, ma sorgesse in un deserto, e ristette dimentico di tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell'ottava maraviglia, di cui aveva tanto inteso parlare fino dall'infanzia. Ma dopo qualche momento volgendosi indietro, vide all'orizzonte quella giogaia frastagliata di montagne, vide distinto ed alto fra quelli il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si rivolse, e seguitò il suo cammino. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella via, camminò ancora qualche tempo, e quando si accorse d'esser ben presso alla città, s'accostò ad un viandante, e inchinatolo con tutto quel garbo che seppe, gli disse: «in cortesia, quel signore.» «Che volete, bravo giovane?» «Saprebbe ella insegnarmi la strada più corta per andare al convento dei cappuccini dove sta il padre Bonaventura?» L'uomo a cui Renzo si addirizzava, era un agiato abitante del contorno, che andato quella mattina a Milano per sue faccende, se ne tornava senza aver fatto nulla, in gran fretta, che non vedeva l'ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d'impazienza, rispose molto piacevolmente: «figliuol caro, de' conventi ce n'è più d'uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate.» Renzo allora si trasse di seno la lettera del padre Cristoforo, e la mostrò a quel signore, il quale lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: «siete fortunato, bravo giovane; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete questo viottolo a mancina: è una scorciatoia; dopo non molto vi troverete ad un canto d'una fabbrica lunga e bassa: è il Lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete alla porta orientale. Entrate, e dopo tre o quattrocento passi, vedrete aprirsi una piazzetta con de' begli olmi; ivi è il convento, che uno non lo può fallare. Dio vi assista, bravo giovane.» E accompagnando le ultime parole con un gesto grazioso della mano, se ne andò. Renzo rimase stupefatto ed edificato della buona maniera dei cittadini verso i foresi; e non sapeva ch'egli era un giorno fuori dell'ordinario, un giorno in cui le cappe s'umiliavano dinanzi ai farsetti. Fece la via che gli era stata segnata, e si trovò alla porta orientale. Non bisogna però che a questo nome il lettore si lasci correre alla fantasia le immagini che ora vi sono associate: quell'ampia e dritta strada fiancheggiata di pioppi, al di fuori; quel varco spazioso tra due fabbriche cominciate, se non altro, con pretensione; nel primo ingresso quelle due salite laterali allo spalto dei bastioni, inclinate regolarmente, spianate, orlate d'alberi; quel giardino da una parte, più in là quei palazzi a destra e a sinistra della gran via del borgo. Quando Renzo entrò per quella porta, la via al di fuori andava diritta per tutta la lunghezza del Lazzeretto, che per quel tratto non poteva far di meno; poi scorreva sghemba e stretta fra due siepi. La porta consisteva in due pilastri con sopra una tettoia per riparare le imposte, e dall'un lato una casipola pei gabellieri. Le imboccature dei bastioni scendevano in pendìo irregolare, e lo spazzo era una superficie aspra e ineguale di rottami e di cocci gittati a caso. La via del borgo che si apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si assomiglierebbe male a quella che ora s'affaccia a chi entri per la porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo fino a pochi passi dalla porta, e la partiva così in due stradette tortuose, coperte di polvere o di fanghiglia, secondo la stagione. Al punto dov'era e dov'è tuttora quella contraduzza chiamata di Borghetto, il fossatello si gittava in una chiavicaccia, e per di là nell'altro fossato che lambe le mura. Quivi era una colonna con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra erano orti cinti di siepe, e ad intervalli casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de' gabellieri gli fa motto: il che gli parve un gran fatto, giacchè da quei pochi del suo paese che potevano vantarsi d'essere stati a Milano aveva inteso raccontar mirabilia dei frugamenti e delle interrogazioni a cui veniva quivi sottoposto chi giugnesse da fuori. La via era deserta, tal che s'egli non avesse inteso un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe paruto d'entrare in una città abbandonata. Andando innanzi, senza saper quello che si dovesse pensare, vide sullo spazzo certe strisce bianche, come di neve; ma neve non poteva essere, ch'ella non viene a strisce, nè per l'ordinario in quella stagione. Si fece sopra una di quelle, guardò, toccò, e fu chiarito ch'ella era farina. – Grande abbondanza, diss'egli tra sè, debb'essere in Milano, se ci si strazia a questo modo la grazia di Dio. Ci davano poi ad intendere che la carestia è da per tutto. Ecco come fanno per tener quieta la povera gente di fuori. – Ma dopo pochi altri passi, giunto in pari alla colonna, vide appiedi di quella qualche cosa di più strano; vide sugli scaglioni del piedestallo certe cose sparse, che certamente non erano ciottoli, e se fossero state sul banco d'un fornaio, non si sarebbe dubitato un momento di chiamarle pani. Ma Renzo non ardiva creder così tosto ai suoi occhi; perchè diamine! non era luogo da pani quello. – Vediamo un po' che negozio è questo, – diss'egli ancora tra sè, andò in verso la colonna, si chinò, ne ricolse uno: era veramente un pane tondo, bianchissimo, e quale Renzo non era solito mangiarne che nei giorni solenni. – È pane da vero! diss'egli ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: – così lo seminano in questo paese? in quest'anno? e non si scomodano per ricorlo quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? – Dopo dieci miglia di viaggio all'aria fresca del mattino, quel pane, subito dopo la maraviglia, gli risvegliò l'appetito. – Lo piglio? deliberava tra sè: poh! l'hanno lasciato qui alla discrezione dei cani, tanto fa che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se vien oltre il padrone, glielo pagherò. – Così pensando, si pose in una tasca quello che già teneva, ne prese un secondo e lo pose nell'altra, un terzo e cominciò a mangiare, e si rimise in via più incerto che mai e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall'interno della città, e adocchiò attentamente quei che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna, e qualche passo indietro un ragazzotto, tutti e tre con un carico addosso che pareva superiore alle forze loro, e tutti e tre in una figura strana. L'abito o la cenceria infarinata; infarinate le facce, e per sopra più stravolte e accese; l'andare non solo faticoso per lo peso, ma doglioso, come di membra peste e ammaccate. L'uomo reggeva a stento in collo un gran sacco di farina il quale, bucato qua e là, ne lasciava sfuggire qualche sprazzo ad ogni intoppo, ad ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un corpaccio smisurato, e due braccia allargate che parevano sostenerlo a fatica, e avevano figura di due manichi curvati dal collo alla pancia d'un'anforaccia; e di sotto a quel corpaccio uscivano due gambe nude fin sopra il ginocchio, che procedevano barcollando. Renzo guardò fiso e vide quel gran corpo essere la gonnella che la donna teneva rivolta in su, con entro farina quanta ve ne poteva capire, e un po' davantaggio; tanto che tratto tratto ne svolava pur via un qualche spolvero. Il ragazzotto teneva con ambe le mani sul capo una corba colma di pani; ma, per aver le gambe più corte dei suoi parenti, rimaneva a poco a poco indietro, e uscendo poi di passo a ogni tanto per raggiungerli, la corba andava fuor di sesto, e qualche pane cadeva. «Se ne getti ancor uno, brutto dappoco…» disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo. «Io non li getto io; cadono essi. Come ho da fare?» rispose quegli. «Ih! buon per te, che ho le mani impedite,» ripigliò la donna, dimenando i pugni, come se desse una spellicciatura al poveretto; e con quel movimento mandò via una nuvola di farina, da farne più che i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. «Via, via,» disse l'uomo: «torneremo addietro a ricorli, o qualcheduno li ricorrà. Da tanto tempo stentiamo: ora che viene un po' d'abbondanza, godiamola in santa pace.» In tanto sopraggiungeva gente da fuori; e uno di questi accostatosi alla donna, «dove si va a pigliare il pane?» le domandò. «Innanzi, innanzi,» rispose ella; e quando furono dieci passi lontano, soggiunse borbottando: «questi foresi birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.» «Un po' per uno, taccola,» disse il marito. «Abbondanza, abbondanza.» Da questo e dal consimile che vedeva e udiva, Renzo cominciò a raccogliere che egli era giunto in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di compiacenza. Egli aveva così poco di che lodarsi dell'andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse comunque. E del rimanente egli, che non era un uomo superiore al suo secolo, viveva pure in quella opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagli ammassatori e dai fornai, e volentieri credeva giusto ogni modo di tor loro dalle mani l'alimento che essi, secondo quell'opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, fece proponimento di star fuori del garbuglio, e si rallegrò di essere avviato ad un cappuccino, che gli darebbe ricovero e buon indirizzo. Così pensando, e guardando intanto ai nuovi conquistatori che apparivano carichi di spoglie, fece la breve strada che gli rimaneva per giungere al convento. Dove ora sorge quel bel palazzo con quell'alta loggia, v'era allora, e v'era ancora non sono molti anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento dei cappuccini con quattro grandi olmi dinanzi. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con quei nostri lettori che non hanno veduto le cose in quello stato: ciò vuol dire che sono molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte minchionerie. Renzo andò dritto alla porta, ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, cavò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S'aperse uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandare chi era. «Uno di fuori, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo.» «Date qui,» disse il portinaio, mettendo la mano alla grata. «No, no,» disse Renzo: «gliel'ho da consegnare in proprie mani.» «Non è in convento.» «Mi lasci entrare, che lo starò aspettando,» replicò Renzo. «Fate a mio modo,» riprese il frate: «andate ad aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po' di bene. In convento non s'entra, per al presente.» E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase goffo colla sua lettera in mano. Fe' dieci passi verso la porta della chiesa per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un'altra occhiata al garbuglio. Attraversò la piazzetta, si portò sull'orlo della via, e colle braccia incrocicchiate sul petto, si fermò a guardare a sinistra verso l'interno della città, dove il rimescolamento era più folto e più clamoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. – Andiamo a vedere –, pensò egli, trasse di nuovo il pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto ch'e' s'incammina, noi racconteremo brevemente al possibile le cagioni e i principii di quello sconvolgimento. Era quello il secondo anno di scarso ricolto. Nell'antecedente, le scorte rimaste degli anni addietro avevano supplito tanto o quanto al difetto; e la popolazione era giunta non satolla nè affamata, ma, certo, affatto sproveduta, alla messe del 1628, nel quale ci troviamo colla nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più povera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per fatto degli uomini. Il guasto e lo sperpero della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto motto di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molte possessioni più dell'ordinario rimanevano incolte e deserte di contadini, i quali, invece di procacciare col lavoro pane a sè e agli altri, erano costretti d'andarne accattando per Dio. Ho detto: più dell'ordinario; perchè le incomportabili gravezze, imposte con una cupidità e con una insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe stanziali, condotta che i dolorosi documenti di quella età agguagliano a quella d'un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di annoverare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari, di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d'un male cronico. Nè appena quel qualunque ricolto fu finito di governare, che le provigioni per l'esercito, e lo sprecamento che sempre le accompagna vi fecero dentro un tale squarcio, che la penuria si fe' tosto sentire, e colla penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il caro. Ma quando il caro arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!) nasce una opinione nei molti che non sia cagionato da scarsità. Si dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutto a un tratto che ci sia grano a sufficienza, e che il male venga dal non vendersene a sufficienza pel consumo: supposti troppo fuori d'ogni proposito; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gli ammassatori di grano, reali o immaginarii, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne comperavano, tutti coloro in somma che ne avessero poco o assai, o fossero riputati d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del caro, questi erano gli oggetti delle querele universali, l'abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i granai, colmi, rigurgitanti di grano, appuntellati; s'indicava il numero delle sacca, spropositato; si parlava con certezza della immensa quantità di biade che veniva spedita segretamente in altri paesi; nei quali probabilmente si gridava, con eguale sicurezza e con fremito eguale, che le biade di là venivano a Milano. S'imploravano dai magistrati quei provedimenti, che alla moltitudine paiono sempre, o almeno sono sempre paruti finora, così equi, così semplici, così idonei a far venir fuori il grano, come dicevano, rimbucato, murato, sepolto, e a ricondurre l'abbondanza. I magistrati ne andavano pur facendo: come di stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri di quel genere. Siccome però tutti i provedimenti umani, per quanto sieno gagliardi, non hanno la virtù di scemare il bisogno del cibo, nè di far venire derrate fuori di stagione; e siccome questi in ispecie non avevano certamente quella di attirarne da dove ve ne potesse essere di sovrabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsità e alla debolezza dei rimedii, e ne sollecitava ad alte grida di più generosi e decisivi. Per sua sventura, trovò essa l'uomo secondo il suo cuore. Nell'assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che stava a campo sopra Casale del Monferrato, teneva il suo luogo in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnuolo. Costui vide (chi non lo avrebbe veduto?) che il prezzo modico del pane è per sè un effetto molto desiderabile; e pensò (qui fu lo scappuccio) che un suo ordine potesse bastare a produrlo. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili) fissò la meta del pane al prezzo che il pane avrebbe avuto se il frumento si fosse comunemente venduto a lire trentatrè il moggio: e si vendeva fino ad ottanta. Fece come una donna stata giovane, che si pensasse di ringiovanire, alterando la sua fede di battesimo. Ordini meno insani e meno ingiusti erano, più d'una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma alla esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per baia. Accorse tosto ai forni, a richieder pane al prezzo tassato; e lo richiese con quel piglio di risolutezza e di minaccia, che danno la passione, la forza e la legge insieme riunite. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Sbracciarsi, rimenare, infornare e sfornare senza posa; perchè il popolo, sentendo pure in confuso che la era cosa violenta, assediava i forni continuo, per godere di quella ventura temporaria; affacchinare, dico, e scalmanarsi più del solito, per discapitare, ognun vede che piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavano pene, dall'altra il popolo che pressava e mormoreggiava ad ogni ritardo che alcun di quelli frapponesse in servirlo, e minacciava sordamente una di quelle sue giustizie, che sono delle peggiori che si facciano a questo mondo; non c'era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però a farli continuare in quella impresa, non bastava che tenessero ordini severi, che avessero molta paura; era mestieri che potessero: e un po' più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Rimostravano essi incessantemente l'iniquità e l'insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano innanzi come potevano, sperando, sperando, che una volta o l'altra, il gran cancelliere sarebbe restato capace. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai avevano avvantaggiato molto, e poi molto in passato, che avvantaggerebbero molto, e poi molto nei tempi migliori avvenire; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro del pubblico qualche risarcimento: e che intrattanto tirassero innanzi. O fosse veramente persuaso egli il primo di queste ragioni che allegava agli altri, o che, pur conoscendo dagli effetti la impossibilità di mantenere quel provedimento, volesse lasciar ad altri l'odiosità di rivocarlo; giacchè, chi può ora entrare nel cervello di Antonio Ferrer? fatto sta che egli non si rimosse un pelo da ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) ragguagliarono per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse egli qualche temperamento, che le facesse andare. Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s'immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l'autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; così una cosa giusta per ambedue le parti. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d'allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, reticenze, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, certi che tiravano un gran dado, ma convinti che altro non v'era da fare, si accordarono ad aumentare il prezzo del pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì. La sera che precesse a questo giorno in cui Renzo capitò in Milano, le vie e le piazze brulicavano d'uomini, che trasportati da una indegnazione, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in cerchii, in brigate, senza accordo antecedente, quasi senza avvedersene, come gocciole pendenti sullo stesso declive. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che lo aveva proferito. Fra tanti appassionati, v'eran pure alcuni di sangue più freddo, i quali stavano osservando con molto diletto, come l'acqua s'andasse intorbidando; s'ingegnavano d'intorbidarla più e più, con quei ragionamenti e con quelle novelle, che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare quell'acqua, senza farvi un po' di pesca. Migliaia d'uomini si coricarono col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Le ragunate precedettero l'aurora: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, mendichi s'aggruppavano alla ventura: qui era un bisbiglio rimescolato di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questi faceva al più vicino la stessa inchiesta ch'era allora stata fatta a lui; quest'altro ripeteva l'esclamazione, che s'era intesa risonare agli orecchi; da per tutto querele, minacce, maraviglie: un picciol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi. Non mancava più che un appiglio, un avviamento, una spinta qualunque, per ridurre a fatti le parole; e non tardò molto. Uscivano sul far del giorno dalle botteghe de' fornai i garzonetti, che con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle case dei soliti compratori. Il primo mostrarsi d'uno di que' malarrivati ragazzi ad un crocchio di gente, fu come il cadere d'un salterello acceso in una polveriera. «Ecco se c'è il pane!» gridarono ad una cento voci. «Sì, pei tiranni che nuotano nell'abbondanza, e vogliono far morir noi di fame,» dice uno; s'appressa al garzoncello, avventa in alto la mano al labbro della gerla, dà una strappata, e dice: «lascia vedere.» Il garzoncello arrossa, impallidisce, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca, allenta le braccia, e cerca di svilupparle in fretta dalle cigne. «Giù quella gerla,» si grida intanto. La pigliano a molte mani; è in terra; si getta in aria lo sciugatoio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all'intorno. «Siamo cristiani anche noi: abbiamo da mangiar pane,» dice il primo; ne toglie uno, lo solleva mostrandolo alla brigata, lo addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell'impresa, si mossero a torme, alla busca di altre gerle vaganti: quante incontrate, tante svaligiate. Nè occorreva pure di dar l'assalto ai portatori: que' che si trovavano sgraziatamente per via, veduto che vento tirava, deponevano volontariamente il carico, e a gambe. Con tutto ciò, coloro che si rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; nè pure i conquistatori erano soddisfatti di così picciole prede; e mescolati poi cogli uni e cogli altri, v'eran coloro che avevano fatto disegno sopra un disordine assai meglio condizionato. «Al forno! al forno!» si grida. Nella via che si chiama la Corsìa de' Servi, c'era un forno, e c'è tuttavia, con lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l'alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono.A quella parte s'avventò la turba. Quei della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto allibito e rabbaruffato, riferiva barbugliando la sua trista avventura; quando s'ode un romore di gente in moto; cresce e s'avvicina; compaiono i forieri della turba. Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, stangano e appuntellano le imposte per di dentro. La moltitudine comincia a spessarsi dinanzi, e a gridare: «pane! pane! aprite! aprite!» Ed ecco arrivare il capitano di giustizia, in mezzo ad un drappello di alabardieri. «Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; date il passo al capitano,» grida egli e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po' di luogo; tanto che quelli poterono arrivare, e addossarsi, stretti se non ordinati, alla porta chiusa della bottega. «Ma figliuoli,» perorava di quivi il capitano: «che fate qui? A casa, a casa. Dov'è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliamo farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui così insaccati? Niente di bene nè per l'anima, nè pel corpo. A casa, a casa.» Ma quei che vedevano la faccia del dicitore, e udivano le sue parole, quand'anche avessero voluto obbedire, dite un po' in che modo avrebber potuto, spinti com'erano, e inzeppati da quei di dietro, calcati anche essi da altri, come flutti da flutti, di grado in grado, fino alla estremità della calca, che andava sempre crescendo. Il capitano cominciava a patire un po' d'affanno. «Fateli dare addietro ch'io riabbia il fiato,» diceva agli alabardieri: «ma non fate male a nessuno. Vediamo d'entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro.» «Indietro! indietro!» gridano gli alabardieri, serrandosi addosso tutti insieme a quei primi, e rispingendoli coll'aste dell'arme. Quelli urlano, rinculano come possono, danno delle schiene nei petti, dei gomiti nelle pance, delle calcagna sulle punte dei piedi a quei che stanno lor dietro: si fa una serra, una stretta, una pesta, che quei che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualche cosa ad essere altrove. Intanto un po' di vôto s'è fatto presso alla porta: il capitano bussa, tambussa, grida che gli venga aperto; quei di dentro veggono dalle finestre; si scende in fretta, si apre; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si caccian pur dentro l'uno dopo l'altro, gli ultimi contenendola folla coll'arme. Quando tutti vi sono, si tira tanto di catenaccio: il capitano sale in fretta, e si fa ad una finestra. Uh, che brulicame! «Figliuoli!» grida egli: molti guardano in su. «Figliuoli! andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa. » «Pane! pane! aprite! aprite!» erano le parole più distinte nella vociferazione immane che la folla mandava in risposta. «Giudizio, figliuoli: badate bene: siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Avrete pane; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! che fate laggiù? Eh! a quella porta! Oibò! Oibò! Veggo, veggo; giudizio! badate bene! è un criminale grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! via quei ferri; giù quelle mani. Oibò! Voi altri milanesi, che siete nominati in tutto il mondo per la bontà! Ascoltate! ascoltate! siete sempre stati buoni fi… Ah canaglia !» Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra, che uscita dalle mani di uno di quei buoni figliuoli, venne a dar nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica «Canaglia! canaglia!» continuava egli a gridare, chiudendo in furia la finestra, e ritraendosi. Ma quantunque avesse gridato quanto mai ne aveva nella gola, le sue parole, buone e cattive, s'eran tutte dileguate e disfatte a mezz'aria, rispinte da quel borboglìo di grida che venivano dal basso. Quello poi ch'egli diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per via), che si faceva alla porta e alle finestre, per ispezzare le imposte e strappare le ferrate: e già l'opera era molto innanzi. Frattanto, padroni e garzoni della bottega, che erano alle finestre dei piani di sopra, con una munizione di pietre, (avranno probabilmente disselciato un cortile) facevano strida, visi, gesti, a quei di giù, perchè lasciassero stare; mostravano le pietre, accennavano di volerle lanciare. Visto che nulla valeva, cominciarono a lanciarle da vero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacchè lo stivamento era tale, che un grano di miglio, come suol dirsi, non sarebbe andato in terra. «Ah birbononi! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Adesso, adesso. A noi!» si urlava da giù. Più d'uno fu malconcio; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore crebbe le forze della moltitudine; le imposte, le ferrate furono strappate; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quei di dentro, vedendo la mala parata, si rifuggirono in fretta sul solaio: il capitario, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero quivi rincantucciati sotto le tegole; altri, uscendo per gli abbaini, erravano su pei tetti, a guisa di gatti. La vista della preda fe' dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si lanciano ai cassoni; il pane ne va a ruba. Altri invece s'affretta a diverre la serratura del banco, adunghia le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si diffonde nei magazzini interni. S'aggrappano, si trassinano sacca; altri ne riversa uno, ne scioglie la bocca, e per ridurlo ad un carico da potersi portare, getta via una parte della farina; altri, gridando «aspetta, aspetta,» si fa sotto a raccoglier con drappi, cogli abiti, di quello sciupìo; altri si getta sur una madia, e fa un bottino di pasta, che s'allunga e gli scappa da ogni parte; altri che ha conquistato un burattello, ne lo porta sollevato in aria: chi va, chi viene, chi maneggia: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, grida, e un bianco polverìo che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto involve e annebbia. Al di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si spezzano e s'intralciano a vicenda, di chi esce colla preda, e di chi vuol entrare a farne. Mentre quel forno veniva così disertato, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente si addensò in numero tale da poter tutto osare; in alcuni, i padroni avevan fatto un po' di massa d'ausiliarii, e stavano sulla difesa; altrove, men forti di numero, o più impauriti, venivano in certo modo a patti: distribuivano pane a quei che si erano cominciati ad affollare dinanzi alle botteghe, con questo che se ne andassero. E quelli se ne andavano, non tanto perchè fossero contenti dell'acquistato, quanto perchè gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, comparivano però altrove, in forza bastante a tenere in rispetto quelle picciole truppe di ammutinatelli. Così il trambusto e il concorso andavan sempre crescendo a quel primo malavventurato forno; perchè tutti quelli a cui pizzicavano le mani, e dava il cuore di fare qualche bel fatto, si portavano quivi, dove gli amici erano in forza maggiore, e l'impunità sicura. A questi termini eran le cose, quando, Renzo terminando, come abbiam detto, di rodere quel suo pane, veniva su pel borgo di porta orientale, e si avviava, senza saperlo, proprio al sito centrale del tumulto. Andava egli, ora spedito, or ritardato dalla folla; e andando, guatava e origliava, per ricavare da quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positi va dello stato delle cose. Ed ecco a un dipresso le parole che gli venne fatto di rilevare in tutto il viaggio. «Ora è scoperta,» gridava uno, «l'impostura infame di quei birboni, che dicevano che non c'era nè pane, nè farina, nè frumento. Ora si vede la cosa chiara e sincera; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l'abbondanza!» «Vi dico io che tutto questo non serve a nulla,» diceva un altro: «è un buco nell'acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato; ma vi metteranno il tossico, per far morire la povera gente come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l'hanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo inteso io con questi orecchi da una mia comare, che è amica d'un parente d'un guattero d'uno di quei signori.» Cose da non ridirsi diceva colla bocca schiumante un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto sui capelli scompigliati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco. «Largo, largo, signori, in cortesia: diano il passo ad un povero padre di famiglia che porta da mangiare a cinque figliuoli.» Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s'ingegnava di ritirarsi per fargli luogo. «Io?» diceva un altro quasi sotto voce ad un suo compagno: «io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Codesti gabbiani che fanno ora tanto fracasso, domani o dopo, se ne staranno in casa tutti pieni di paura. Ho già scorti certi visi, certi galantuomini che girano facendo l'indiano, e notano chi c'è e chi non c'è; quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, suo danno.» «Quegli che protegge i fornai,» gridava una voce sonora che attrasse l'attenzione di Renzo, «è il vicario di provisione.» «Son tutti birbi,» diceva un vicino. «Sì; ma egli è il capo,» replicava il primo. Il vicario di provisione, eletto ogn'anno dal governatore in una lista di sei nobili formata dal Consiglio dei decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provisione; il quale, composto di dodici pur nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell'annona. Chi era in un tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d'ignoranza, esser detto l'autore dei mali: a meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee. «Baroni!» sclamava un altro: «si può far di peggio? sono arrivati fino a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per torgli il credito, e comandare essi soli. Bisognerebbe fare una gran capponaia, e cacciarveli dentro, a vivere di veccia e di loglio, come volevano trattar noi.» «Pane eh?» diceva uno che cercava di andare in fretta: «pane? Sassate di libbra: pietre di questa posta, che venivano giù come gragnuola. E che schiacciamento di coste! Non vedo l'ora d'essere a casa mia.» Fra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e fra gli urtoni, giunse Renzo finalmente dinanzi a quel forno. La gente era ivi già molto diradata, di modo che egli potè contemplare il lurido e recente soqquadro. Le mura scalcinate e intaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta. – Questo poi non è un bel fatto, pensò Renzo tra sè: se acconcian tutti i forni a questo modo, dove voglion fare il pane? Nei pozzi? – Di tempo in tempo usciva dalla casa qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d'una gramola, una panca, una corba, un giornale, uno zibaldone, qualche cosa di quel povero forno; e gridando «largo, largo,» passava tra la gente. Tutti questi s'incamminavano dalla stessa parte, e ad un luogo convenuto, si capiva. Renzo volle vedere che storia fosse anche questa; e tenne dietro a uno che, fatto un fascio di asse spezzate e di schegge, se lo recò in ispalla, e andò come gli altri, per la via che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha nome dagli scalini che c'erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia di osservare gli avvenimenti non potè fare che il montanaro, giunto al cospetto della gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo per raggiugner colui che aveva preso a guida; voltò il canto, diede pure una occhiata alla fronte del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che tirava verso il mezzo della piazza. La gente era più spessa quanto più si andava innanzi; ma al portatore si faceva largo: egli fendeva l'onda del popolo, e Renzo, sottentrando nel varco fatto da lui, pervenne con lui al centro della folla. Quivi era uno spazio, e in mezzo una baldoria, un mucchio di brage, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All'intorno era un batter di mani e di piedi, un frastuono di mille grida di trionfo e d'imprecazione. L'uomo del fascio lo rovesciò sulle brage; altri con un troncone di pala mezzo abbrustolato, le rimescola e le stuzzica di sotto e dai lati: il fumo cresce e s'addensa, la fiamma si ridesta, con essa le grida sorgon più forti. «Viva l'abbondanza! Muoiano gli affamatori! Muoia la carestia! Crepi la Provisione! Crepi la giunta! Viva il pane!» A dir vero, la distruzione dei frulloni e delle madie, il disertamento dei forni, e lo scompiglio de' fornai, non sono i mezzi più spediti per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che non vengono nelle menti d'una moltitudine. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo vi arriva talvolta alla prima, finchè è nuovo nella quistione; e non è che a forza di parlarne e di sentirne parlare che diventerà inabile anche ad intenderle. A Renzo infatti quel pensiero era venuto a principio, e gli tornava a ogni tratto. Lo tenne per altro in sè; perchè, di tante facce, non ve n'era una che paresse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l'avrò caro. Già era di nuovo caduta la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la brigata cominciava ad annoiarsi; quando vi corse dentro una voce, che al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di quivi) s'era posto l'assedio ad un forno. Sovente, in simili circostanze, l'annunzio d'una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di trarre colà: «io vado; vai tu? vengo; andiamo,» vi s'udiva per ogni parte: la calca si dirompe, brulica, s'incammina. Renzo rimaneva addietro, non si movendo quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse tirarsi fuora del baccano e tornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest'altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però egli risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar le ossa, o a risicar qualche cosa di peggio; ma di tenersi così dalla lunga ad osservare. E trovandosi già un po' al largo, cavò il secondo pane e, datovi di morso, s'avviò in coda dell'esercito tumultuoso. Questo, per lo sbocco in angolo della piazza, era già entrato nella via corta ed angusta di Pescheria vecchia, e di là, per quell'arco a sbieco, nella piazza de' mercanti. Quivi erano ben pochi che, nel passar dinanzi alla nicchia che taglia verso il mezzo la loggia dell'edifìcio chiamato allora il collegio de' dottori, non dessero su un'occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quella cera seria, burbera, aggrondata, e dico poco, di don Filippo II, che anche dal marmo imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse in procinto di dire: son qua io, marmaglia. Quella nicchia è ora vôta, per un caso singolare. Circa cento settant'anni dopo quello che noi stiamo raccontando, un giorno fu cambiata la testa alla statua che v'era, le fu tolto di mano lo scettro e postovi invece un pugnale, e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così conciata ella stette forse un paio di anni; ma una mattina, certuni che non avevano simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune attorno alla statua, la strapparono giù, le fecero cento angherie; e smozzicata e ridotta ad un torso informe, la strascinarono non senza un gran cacciar di lingue, per le vie, e quando furono stracchi ben bene, la gittarono non so dove. Chi lo avesse detto ad Andrea Biffi, quando la scolpiva! Dalla piazza de' mercanti, la torma clamorosa insaccò nella viuzza de' fustagnai, per donde si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, si volgeva tosto a guardar verso il forno ch'era stato indicato. Ma invece della folla d'amici che si aspettavano di trovarvi già al lavoro, videro soltanto pochi starsene badaloccando e tentennando a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata che faceva dimostrazione di volersi difendere al bisogno. Si voltavano allora e ristavano, per informare i sopravvegnenti, per vedere che partito gli altri volessero prendere; alcuni tornavano o rimanevano indietro. V'era un incalzare e un soprattenere, un chiedere e un dare schiarimenti, come un ristagno, una titubazione, un diffuso ronzìo di consulte. In questa, suonò di mezzo alla folla una maladetta voce: «qui presso è la casa del vicario di provisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco.» Parve il rammentarsi comune d'un accordo già conchiuso, piuttosto che l'accettazione d'una proposta. «Dal vicario ! dal vicario !» è il solo grido che si possa intendere. La turba si muove con un furore unanime verso la via dov'era la casa nominata in così mal punto. Lo sventurato vicario stava in quel momento facendo un chilo agro e stentato d'un pranzo mangiato di mala voglia, con un po' di pane raffermo; e attendeva con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospetto ch'ella dovesse venir così spaventosamente in capo a lui. Qualche benevolo precorse lo stormo a gran galoppo, ed entrò nella casa ad avvertire dell'urgente pericolo. I servi, attirati già dal romore in su la porta, guatavano sgomentati giù pel lungo della via, dalla parte donde il romore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l'avviso, veggiono comparire la vanguardia: in fretta e in furia si porta l'avviso al padrone: mentre questi delibera di fuggire, come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. Appena i servi ne han tanto da chiudere la porta. La sbarrano, l'appuntellano, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede sopravvenire un tempo nero, e s'aspetta la gragnuola da un momento all'altro. L'ululato crescente, scendendo dall'alto come un tuono, rimbomba nel vôto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e rimescolato strepito s'odono scoppiare più forti e spessi i colpi di pietre alla porta. «Il vicario! Il tiranno! L'affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!» Il poveretto errava di stanza in stanza, smorto, trambasciato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a' suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero modo di farlo scappare. Ma come, e per dove? Ascese al solaio; da un pertugio tra la soffitta e il tetto, guardò ansiosamente nella via, e la vide zeppa di furibondi; udì le voci che lo chiedevano a morte; e più smarrito che mai si ritrasse a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Quivi rannicchiato ascoltava, ascoltava, se mai l'infesto bollore s'affievolisse, se il tumulto desse un po' luogo; ma sentendo invece il mugghio levarsi più feroce e più strepitoso, e spesseggiare i picchii, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava l'orecchie in fretta. Poi come fuori di sè, strignendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e pontava le pugna, come se volesse tener ferma la porta… Del resto, quel che facesse così appuntino non si può sapere, giacchè egli era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che la c'è avvezza. Renzo questa volta si trovava nel forte del subuglio, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo tutto rimescolarsi: quanto al saccheggio egli non era ben risoluto se fosse bene o male in quel caso; ma l'idea del macello gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati, all'affermare appassionato di molti, egli fosse persuasissimo che il vicario era la cagion primaria della fame, il gran colpevole, pure, avendo, al primo muoversi della turba, udito a caso qualche motto che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s'era subito proposto di aiutare anch'egli una tal opera; e con quest'animo, s'era spinto fin presso quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Altri con ciottoli pestava i chiodi della serratura per iscassinarla; altri, accorsi con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorare più in regola: altri poi con pietre aguzze, con coltelli spuntati, con isferre, con chiodi, coll'ugne, se altro non v'era, scalcinavano e sgretolavano la muraglia, e s'ingegnavano di smattonare a poco a poco, per fare una breccia. Quelli che non potevano dar mano, facevano animo colle grida; ma nello stesso tempo, colla pressa delle persone impacciavano vie più il lavoro già impacciato dalla gara disordinata dei lavoranti: giacchè, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento. I magistrati che ebbero i primi l'avviso del romore, spedirono tosto a chiedere soccorso di truppa al comandante del castello che allora si diceva di porta Giovia; ed egli spiccò un drappello. Ma, tra l'avviso, e l'ordine, e il ragunarsi, e il mettersi in via, e la via, il drappello arrivò che la casa era già cinta di vasto assedio; e fece alto assai lontano da quella, alla estremità della calca. L'ufiziale che lo comandava, non sapeva a che partito appigliarsi. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d'età e di sesso, senz'armi e oziosa. Alle intimazioni che venivano lor fatte di sbandarsi e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all'ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo, cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritati i molti violenti: e del resto egli non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folta, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare innanzi a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stato il meglio; ma riuscirvi era il punto. Chi sapeva se i soldati avrebbero potuto procedere uniti ed ordinati? Che se, invece di romper la folla, vi si fossero essi sparpagliati per entro, si sarebber trovati a discrezione di quella, dopo averla aizzata. L'irresolutezza del comandante e l'immobilità de' soldati parve, a dritto o a torto, paura. I popolani che si trovavano presso a loro, si contentavano di guardar loro in viso, con un'aria, come dicono i milanesi, di me-ne-rido; quei ch'erano un po' più lontano, non si contenevano di provocarli con visacci e con grida beffarde; più in là pochi sapevano o si curavano che vi fossero; i guastatori proseguivano a smurare, senz'altro pensiero che di riuscir presto nell'impresa; gli spettatori non restavano di animarla colle grida. Spiccava fra questi, ed era egli stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze ad un sogghigno di compiacenza diabolica, colle mani levate al disopra d'una canizie vituperosa, agitava nell'aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di voler egli confliggere il vicario alle imposte della sua porta, spirato che fosse. «Oibò! vergogna!» scappò su Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tanti altri volti che davan segno di gustarle assai, e incoraggiato dal vederne pur altri, sui quali, benchè muti, traspariva lo stesso orrore di che egli era compreso. «Vergogna! Vogliam noi tor l'arte al boia? assassinare un cristiano ! Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste iniquità? Ci manderà dei fulmini, e non del pane!» «Ah cane! ah traditor della patria!» gridò, voltandosi a Renzo con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto udire fra il trambusto quelle sante parole. «Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da forese: è una spia: dalli dalli!» Cento voci si spargono all'intorno. «Che è? dov'è? chi è? – Un servitore del vicario. – Una spia. – Il vicario travestito da forese, che scappa. – Dov'è? dov'è? dalli, dalli!» Renzo ammutolisce, diventa piccin piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo aiutano a rimpiattarsi; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un «largo, largo», che si udì gridar lì vicino: «largo! è qui l'aiuto: largo, ohe!» Che era egli? Era una lunga scala a piuoli, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, ed entrarvi per una finestra. Ma per buona ventura, quel mezzo, che avrebbe renduta la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all'uno e all'altro capo, qua e là pel lungo della macchina, urtati, scompaginati dalla calca, andavano a onde: quale, colla testa fra due scalini e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo squassato, mugghiava; quale veniva staccato dal carico con uno spintone; la scala abbandonata picchiava teste, spalle, braccia: pensate che cosa dovevano dire coloro di cui erano. Altri sollevano colle mani il peso morto, vi si fanno sotto, lo si recano addosso, gridando: «a noi, andiamo!» La macchina fatale procede a balzi, a rivolte, per dritto e per isbieco. Ella venne a tempo a distrarre e a sgominare i nemici di Renzo, il quale approfittò della confusione nata nella confusione; e quatto quatto sul principio, poi giucando di gomita a più non posso, si allontanò da quel posto dove non era buon'aria per lui, coll'intenzione anche di uscire il più presto che potesse dal tumulto, e di andar davvero a trovare o ad aspettare il padre Bonaventura. Tutto a un tratto, un commovimento cominciato ad una estremità si propaga per la folla, una voce si diffonde, viene avanti di bocca, in bocca, di coro in coro «Ferrer! Ferrer!» Una sorpresa, un favore, un dispetto, una gioia, una collera scoppiano per tutto dove giunge quel nome: chi lo grida, chi vuol soffocarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia. «È qui Ferrer! – Non è vero, non è vero! – Sì, sì; viva Ferrer; quegli che dà il pane a buon mercato. – No, no! – È qui, è qui in carrozza. – Che fa questo? che c'entra egli? non vogliamo nessuno! – Ferrer! viva Ferrer! l'amico della povera gente! viene a prender prigione il vicario. – No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! – Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario!» E tutti, alzandosi in punta di piedi, si volgono a guardare da quella parte donde si annunziava l'inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano nè più nè meno che se fossero stati tutti colle piante in terra; ma tanto fa, tutti si alzavano. Infatti, all'estremità della folla, dal lato opposto a quello dove stavano i soldati, era giunto in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, facendosi probabilmente coscienza di avere, co' suoi spropositi e colla sua caparbietà, dato cagione o almeno occasione a quella sommossa, veniva ora a cercar di ammansarla, e di stornare almeno il più terribile ed irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità male acquistata. Nei tumulti popolari v'ha sempre un certo numero d'uomini, che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maladetto gusto del soqquadro, fanno il potere per ispinger le cose al peggio; propongono o promuovono i più dispietati consigli, soffiano nel fuoco ogni volta ch'ei sembra dare un po' giù: nulla è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse nè modo nè fine. Ma per contrappeso, v'ha pur sempre un certo numero d'altri uomini che, forse con pari ardore e con insistenza pari, s'adoperano all'effetto contrario: taluni portati da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senza altro impulso che d'un pio e spontaneo orrore del sangue e dei fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascheduna di queste due parti opposte, anche quando non v'abbia concerti antecedenti, la conformità dei voleri crea un concerto istantaneo nelle operazioni. Chi fa poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è una mista congerie d'uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell'uno e dell'altro estremo: un po' riscaldati, un po' furbi, un po' inclinati ad una certa giustizia, come la intendono, un po' appetitosi di vedere qualche buona scelleratezza, pronti alla ferocia e alla misericordia, all'adorazione e all'esecrazione, secondo che si presenti l'occasione di provare con pienezza l'uno o l'altro sentimento; avidi ad ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, di applaudire o di urlar dietro a qualcheduno. Viva e muoia, son le parole che caccian fuora più volentieri; e chi è riuscito a persuader loro che un tale non meriti d'essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d'esser portato in trionfo: attori, spettatori, stromenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a tacere, quando nessuno dia più loro la parola, a desistere, quando manchino gl'istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l'uno all'altro: che è stato? Siccome però questa massa ha quivi la maggior forza, anzi è la forza stessa, così ognuna delle due parti attive usa ogni ingegno per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime avverse che battagliano per entrare in quel corpaccio, e farlo muovere. Fanno a chi saprà spargere le voci più atte ad eccitare le passioni, a dirigere le mosse a favore dell'uno o dell'altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le novelle che muovano l'indegnazione o l'affievoliscano, eccitino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più alto, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l'una o per l'altra parte. Tutte queste chiacchiere si son fatte per venire a dire che, nella lotta fra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l'apparizione di Antonio Ferrer diede quasi in un istante un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po' più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più nè forza, nè scopo di combattere. L'uomo era accetto alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole ai compratori, e per quel suo eroico tener duro contra ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora vie più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparecchio, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine corrucciata e procellosa. Faceva poi un effetto mirabile quell'annunzio del venir egli a prender prigione il vicario: così il furore contra costui, che si sarebbe sollevato più forte, chi fosse venuto a bravarlo e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, e per dirla alla milanese, con quell'osso in bocca, si acquetava un po', e lasciava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi. I partigiani della pace, ripreso fiato, assecondavano Ferrer in cento maniere: quei che gli si trovavano presso, eccitando e rieccitando col loro il publico applauso, e cercando insieme di far ritrarre un po' la gente, per aprire un passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo scorrere le sue parole, o quelle che a lor parevano le migliori ch'egli potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. «Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birbi che non vogliono una giustizia da cristiani: e c'è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Passo a Ferrer!» E crescendo sempre più quelli che parlavano a questo modo, di tanto si andava scemando la baldanza della parte contraria; di sorta che i primi dall'ammonire vennero anche a dar sulle mani a quei che diroccavano tuttavia, a ributtarli, a tor loro dall'unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavano di riaversi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po' di dibattimento, coloro furono rispinti: gli altri s'impadronirono della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l'adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quei di casa, (fessure non ne mancava) gli avvisò esser venuto soccorso, e che facessero star pronto il vicario, «per andar subito… in prigione: ehm, avete inteso!» «È quel Ferrer che aiuta a far le gride?» domandò ad un nuovo vicino il nostro Renzo, a cui sovvenne del vidit Ferrer che il dottore gli aveva mostrato in fondo di quella tale, e fattogli sonare all'orecchio. «Già: il gran cancelliere,» gli fu risposto. «È un galantuomo, n'è vero?». «Altro che galantuomo! è quegli che aveva messo il pane a buon mercato; e non hanno voluto; e ora viene a prender prigione il vicario, che non ha fatte le cose giuste.» Non occorre dire che Renzo fu tosto per Ferrer. Volle andargli incontro subito la cosa non era facile; ma con certe sue pettate e gomitate da alpigiano egli riuscì a farsi luogo, e a portarsi in prima fila, proprio di fianco alla carrozza. Era questa già un po' inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegli incagli inevitabili e frequenti in un'andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all'una, ora all'altra finestrina degli sportelli, una faccia tutta umile, tutta piacevole, tutta amorosa, una faccia che aveva tenuta sempre in serbo per quando mai si trovasse al cospetto di don Filippo IV; ma fu costretto di spenderla anche in questa occasione. Parlava pure; ma il clamore e il ronzio di tante voci, i viva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi intendere le sue parole. Si aiutava egli adunque col gesto, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi tosto, distribuivano a dritta e a sinistra in rendimento di grazie alla pubblica benevolenza; ora splanandole e movendole lentamente fuori delle finestrine, per chiedere un po' di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po' di silenzio. Quando un po' ne aveva ottenuto, i più vicini udivano e ripetevano le sue parole: «pane, abbondanza: vengo a far giustizia; un po' di passo di grazia.» Sopraffatto poi e come affogato dal rombo di tante voci, dalla vista di tante facce stivate, di tanti occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sè e sè: – por mi vida, que de gente! – «Viva Ferrer! Non abbia paura. Ella è un galantuomo. Pane, pane!» «Sì; pane, pane,» rispondeva Ferrer: «abbondanza; lo prometto io,» e poneva la destra sul cuore. «Un po' di passo,» aggiungeva poi con tutta la sua voce: «vengo a prenderlo prigione, per dargli il giusto castigo:» e soggiungeva sommessamente: «si està culpable.» Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: «adelante,Pedro, si puedes.» Il cocchiere sorrideva anch'egli alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per domandare agl'incomodi vicini che si ristringessero e si ritraessero un po' sui lati. «Di grazia,» diceva egli pure, «i miei signori; un po' di luogo, un tantinetto; appena appena da poter passare.» Intanto i benevoli più attivi si adoperavano per fare lo sgombro domandato così gentilmente: alcuni dinanzi ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere di palme sui petti, con certe spinte soavi: «là, là, un po' di luogo, signori.» Altri facevano lo stesso maneggio ai lati della carrozza, perch'ella potesse scorrere senza arrotar piedi, nè infranger mostacci; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l'auge di Antonio Ferrer. Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po' dall'angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per così dire, dalla speranza di torre un uomo alle angosce mortali, Renzo, dico, pose da canto ogni pensiero di andarsene; e risolvette di dar mano a Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non si fosse ottenuto l'intento. Detto fatto, diè dentro con gli altri a far far largo; e non era certo dei meno operanti. Il largo si fece; «venite pure avanti,» diceva più d'uno al cocchiere, ritirandosi o precorrendo, a far luogo più innanzi. «Adelante, presto, con juicio,» gli disse pure il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava alla ventura al publico, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d'intelligenza, a quei che vedeva adoperarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d'uno a Renzo, il quale in verità li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de' suoi segretarii. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi di aver fatto amicizia con Antonio Ferrer. La carrozza, avviata una volta, seguitò poi, più o meno lentamente, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un trar di mano; ma in riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto anche a chi non avesse avuta la sacrosanta pressa di Ferrer. La gente si moveva, dinanzi di dietro, a dritta a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno ad una nave che procede nel forte della tempesta. Più acuto, più discordato, più storditivo di quello della tempesta era il frastuono. Ferrer, guardando or da un lato, or dall'altro, atteggiandosi e gestendo tuttavia, cercava d'intendere qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva fare alla meglio un po' di dialogo con quella brigata d'amici; ma la cosa era difficile, la più diffìcile forse che gli fosse ancora incontrata in tanti anni di gran-cancellierato. Di tempo in tempo però, qualche parola, qualche frase anche, ripetuta da un crocchio sul suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d'un razzo più forte si fa sentire nell'immenso scoppiettìo d'un fuoco artifiziato. Egli, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora gridando a buon conto le parole che sapeva dover essere più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anch'egli tutta la strada. «Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà castigato… si està culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Assì es… così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscano la fame. Ox! ox! guardaos: non si facciano male, signori. Pedro, adelante, con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po' di passo per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione. Che?» domandava poi ad uno che si era gettato mezza la persona dentro lo sportello, ad urlargli qualche suo consiglio o petizione o applauso che fosse. Ma costui, senza poter pure ricevere il «che?», era stato strappato indietro da uno che lo vedeva al punto di rimanere arrotato. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d'opposizione, che si lasciava intendere qua e là, ma era tosto compresso, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di quei buoni ausiliarii. Gli altri che, come abbiam detto, stavano quivi colle medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po' di sgombro. Prega, esorta, minaccia; pigia, incalca, rimpinza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder prossimo il fine desiderato; erano essi riusciti a divider quivi la calca in due, e poi a rinzeppare addietro le due calche; tanto che tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v'era uno spazierello vôto. Renzo, che, facendo un po' da battistrada, un po' da scorta, era arrivato colla carrozza, potè collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano ad un tempo ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a soprattenerne una colle sue poderose spalle, si trovò anche in buon luogo per vedere. Ferrer mise un gran respiro, allo scorgere quella piazzetta libera e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri erano presso che sconficcati fuor de' pilastri: le imposte scheggiate, ammaccate, forzate e scombaciate nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio scontorto, piegato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, le teneva insieme. Un benevolo s'era posto a quel pertugio, a gridare che si aprisse; un altro accorse a spalancare lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s'alzò, e afferrando colla destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e pose piede sul predellino. La folla, dall'una parte e dall'altra, stava tutta sollevata per vedere: mille facce, mille barbe in aria: la curiosità e l'attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, girò uno sguardo all'intorno, salutò con un inchino la moltitudine, come da una bigoncia; e posta la manca mano al petto, gridò: «pane e giustizia;» e franco, ritto, togato, discese, fra le acclamazioni che ne andavano alle stelle. Quei di dentro intanto avevano aperta la porta, o per meglio dire, avevano finito di strappare il catenaccio insieme cogli anelli già traballanti. Fecero spiraglio, per dare l'entrata al desideratissimo ospite, ponendo però una gran cura a ragguagliar l'apertura allo spazio che poteva occupare la sua persona. «Presto, presto,» diceva egli: «aprite bene, ch'io entri: e voi, da bravi, ritenete la gente; non mi lasciate venire addosso… per amor del cielo! Preparate un po' di passaggio per adesso adesso… Ehi! ehi! signori, un momento,» diceva poi ancora a quei di dentro: «adagio con quell'imposta, lasciatemi passare: eh! le mie coste; raccomando le coste. Chiudete ora: no, eh! eh! la toga, la toga!» Ella sarebbe rimasta acchiappata fra le imposte, se Ferrer non ne avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che sparve come la coda d'una biscia, che si rimbuca inseguita. Le imposte risospinte e rabbattute alla meglio, venivano intanto appuntellate per di dentro con istanghe. Al di fuori, quei che si erano costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia, e di grida, a mantener la piazza vôta, pregando in cuor loro Domeneddio che lo facesse far presto. «Presto, presto,» diceva anch'egli di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran posti attorno, ansanti, gridanti: «sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!» «Presto, presto,» ripeteva Ferrer: «dov'è quest'uomo benedetto?» Il vicario scendeva le scale, mezzo tirato e mezzo portato da altri suoi, bianco come un panno curato. Quando vide il suo aiuto, trasse un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po' di vita nelle gambe, un po' di colore sulle guance; e si affrettò alla volta di Ferrer, dicendo: «sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscire di qui? Da per tutto è gente che mi vuol morto.» «Venga con migo, usted, e stia di buon animo: qui fuori è la mia carrozza; presto, presto.» Lo prese per mano e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto in cuor suo: – aqui està el busillis! Dios nos valga! – La porta s'apre; Ferrer si mette fuori il primo; l'altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un fanciullino alla gonna della mamma. Quei che avevano mantenuta la piazza vôta, fanno ora, con un sollevar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si accoscia in un angolo. Ferrer sale di poi; lo sportello si chiude. La moltitudine intravvide, seppe, indovinò quel che era accaduto; e mandò un fragore confuso d'applausi e d'imprecazioni. La parte del viaggio che rimaneva da farsi poteva parere la più difficile e la più rischiosa. Ma il voto publico era abbastanza spiegato per lasciare andar prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quei che avevano agevolato l'arrivo di Ferrer, s'erano tanto ingegnati a preparare e a mantenere una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza potè, questa seconda volta, scorrere un po' più spedita, e con un andamento continuo. A proporzione ch'ella andava innanzi, le due turbe contenute sui lati, si ricadevano addosso e si rimischiavano dietro a quella. Ferrer, appena seduto, s'era chinato per ammonire il vicario, che si tenesse ben rincantucciato nel fondo, e non si lasciasse vedere, per amore del cielo; ma non fu mestieri dell'avvertimento. Egli all'opposto, doveva mostrarsi, per occupare e attirare a sè tutta l'attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un'aringa, la più continua nel tempo, e la più sconnessa nel senso che fosse mai; interrompendola però a ogni tanto con qualche parolina spagnuola, che in fretta in fretta si volgeva a susurrar nell'orecchio del suo acquattato compagno. «Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, mille grazie. No, no; non iscapperà! Por ablandarlos. È troppo giusto; si esaminerà, si vedrà. Anch'io voglio bene a loro signori. Un castigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta onesta, e castigo agli affamatori. Si tirino da canto, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà castigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la passerà male… si està culpable. Sì, sì, li faremo arar dritto i fornai. Viva il rè e i buoni milanesi, i suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estàmos ya quasi afuera.» Avevano in fatti attraversata la maggiore spessezza, e già erano presso ad uscire del tutto nel largo. Quivi Ferrer, mentre cominciava a dare un po' di riposo a' suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, quei soldati spagnuoli, che però in sull'ultimo non erano stati affatto inutili, giacchè sostenuti e diretti da qualche borghese, avevano cooperato a mandare in pace un po' di gente, e a tenere il varco libero all'ultima uscita. All'arrivare della carozza, fecero essi ala, e presentaron l'arme al gran cancelliere, il quale rendette anche qui un inchino a destra, un inchino a sinistra; e all'ufiziale, che venne più presso a presentargli il saluto, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: «beso a usted las manos:» parole che l'ufiziale pigliò per quel che volevano dir realmente, cioè: m'avete dato un bell'aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si strinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la fantasia rivolta a citazioni: e del resto sarebbero state parole al vento; perchè l'ufìziale non sapeva di latino. A Pedro, nel passare tra quelle due file di micheletti, tra quei moschetti così rispettosamente elevati, tornò in petto il cuore antico. Rinvenne affatto dallo sbalordimento, si ricordò chi egli era, e chi conduceva; e gridando «ohe! ohe!» senz'aggiunta di altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per potere essere trattata a quel modo, e sferzando i cavalli, fe' loro prender la corsa verso il castello. «Levantese, levantese; estàmos afuera,» disse Ferrer al vicario; il quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto del cocchio, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, si alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi condoluto con lui del pericolo, e rallegrato della salvezza: «ah!» sclamò, facendo scorrere la palma sul suo cocuzzolo calvo, «que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto le lune a rovescio per quel maladetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque, che s'adombra se una foglia fa più strepito del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d'un così gran fracasso? E sarà poi finito? Dios lo sabe.» «Ah! per me, non voglio più impacciarmene,» diceva il vicario: «me ne lavo le mani; rassegno il mio posto nelle mani di vostra eccellenza, e vado a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l'eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale.» «Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad,» rispose gravemente il gran cancelliere. «Sua maestà non vorrà la mia morte,» replicava il vicario: «in una grotta, in una grotta; lontano da costoro.» Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo d'avere accompagnato il pover uomo in castello, non fa più menzione dei fatti suoi. La folla rimasta indietro cominciò a disperdersi, a diramarsi a dritta ed a sinistra per questa e per quella via. Chi andava a casa a provedere anche le sue faccende, chi si allontanava per voglia di asolare un po' al largo, dopo tante ore di pressa; chi, in traccia di conoscenti, per ciarlare un po' dei gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero si andava facendo all'altro capo della via, nella quale la gente restò abbastanza rada perchè quel drappello di spagnuoli potesse, senza avere a combattere, avanzarsi, e giunger presso alla casa del vicario. Addosso a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, della sommossa; una mano di briganti, che scontenti d'una fine così fredda e così imperfetta di un tanto apparato, brontolavano, bestemmiavano, facevano consulta, per incoraggiarsi l'un l'altro a cercare se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e come per prova, andavano urtacchiando e punzecchiando quella povera porta, ch'era stata di nuovo sbarrata e appuntellata alla meglio. All'arrivar del drappello, tutti coloro, con una risoluzione unanime, e senza consulta, si mossero, si avviarono dalla parte opposta, lasciando il posto libero ai soldati, che lo presero e vi si accamparono a guardia della casa e della via. Ma le vie e le piazzette del contorno erano sparse di crocchi: dove erano due o tre fermati, tre, quattro, venti altri si fermavano; altri se ne staccava, altri vi sopraggiungeva: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane disseminata e si muove per l'azzurro del cielo, dopo un temporale; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è ben racconciato. Quivi era un vario, confuso e mutabile parlamento: altri raccontava con enfasi i casi particolari veduti da lui; altri narrava ciò ch'egli stesso aveva operato; altri si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai serii pel vicario; altri, sghignando, assicurava che non gli sarebbe fatto male, e che il lupo non mangia della carne di lupo; altri più stizzosamente mormorava che non s'erano fatte le cose a dovere, ch'egli era un inganno, e che era stata pazzia far tanto chiasso, per lasciarsi poi minchionare a quel modo. Intanto il sole era caduto, le cose andavan facendosi tutte d'un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiandosi di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovane, dopo avere aiutata l'andata della carrozza finchè v'era stato mestieri d'aiuto, ed essere passato anche egli dietro ad essa, tra le file dei soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide scorrere liberamente, fuori del pericolo; fe' un po' di strada con la folla, e ne uscì al primo sbocco, per respirare anch'egli un po' liberamente. Fatto ch'ebbe pochi passi al largo, in mezzo all'agitazione di tante immagini, di tante passioni, di tante memorie recenti e confuse, sentì un gran bisogno di cibo e di riposo; e cominciò a guardare in su, da una banda e dall'altra, se vedesse un'insegna di osteria; giacchè per andare al convento dei cappuccini era troppo tardi. Così, camminando colla testa all'aria, andò ad intoppare in un crocchio; e fermatosi, intese che vi si parlava di congetture, di disegni, e di proposte pel domani. Stato un momento ad udire, non potè tenersi di non dire anch'egli la sua; parendogli che potesse senza presunzione metter qualche partito chi aveva tanto operato. E impressionato, per tutto ciò che aveva veduto in quel giorno, che ormai, per mandare ad effetto una cosa, bastasse farla gustare a quei che giravano per le strade, «i miei signori!» gridò in tuono d'esordio: «ho da dire anch'io il mio debole parere? Il mio debole parere è questo: che non è solamente nell'affare del pane che si fanno delle iniquità: e giacchè oggi si è veduto chiaramente che, a farsi sentire, si ottiene quel che è giusto; bisogna toccare innanzi a questo modo, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre bricconerie: tanto che il mondo vada un po' più da cristiani. Non è egli vero, i miei signori, che c'è una mano di tiranni, che fanno proprio il rovescio de' dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando ne hanno fatta una più scelerata del solito, camminano colla testa più alta, che par che abbiano a avere? Già anche in Milano ce ne ha a essere la sua parte». «Anche troppo,» disse una voce. «Lo dico io,» ripigliò Renzo: «già le storie si contano anche da noi. E poi la cosa parla da sè. Mettiamo, per un supposto, che un qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po' fuori, un po' in Milano: se è un diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un po', i miei signori, se hanno mai veduto uno di questi col muso alla ferrata. E quel che è peggio (e questo lo posso dire io di sicuro) è che le gride ci sono, stampate, per castigarli: e non mica gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio: vi son nominate le birberie chiare, proprio come succedono; e ad ognuna, il suo buon castigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate mo a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi danno retta come il papa ai furfanti: cosa da far buttarsi via qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re e quei che comandano vorrebbero che i birbi fossero castigati; ma non se ne fa niente, perchè c'è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quegli è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s'è potuto vedere come era contento di trovarsi colla povera gente, e come cercava di sentire le ragioni che gli venivano dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andare da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la mia parte, gliene posso contar di belle; chè ho veduto io co' miei occhi una grida con tanto d'arma in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che maneggiano, che d'ognuno v'era sotto il suo nome bell'e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, veduto da me coi miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io dissi che dunque mi facesse render giustizia, come era la mente di quei tre signori, fra i quali v'era anche Ferrer, questo signor dottore, che mi aveva mostrata la grida egli stesso, che è il più bello, ah, ah, pareva ch'io parlassi da matto. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cosette, chè egli non le può saper tutte, massime quelle di fuori, non vorrà più che il mondo vada così; e ci troverà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, hanno ad aver gusto che si obedisca: chè è anche uno sprezzo, un pitaffio col loro nome contarlo per niente. E se i prepotenti non vogliono bassare il capo, e fanno il pazzo, siamo qui noi per aiutarlo, come s'è fatto oggi. Non dico mica che debba andare attorno egli in carrozza, a menar su tutti i birboni, prepotenti e tiranni: eh eh! ci vorrebbe l'arca di Noè. Bisogna ch'egli comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma da per tutto, che facciano le cose conforme dicono le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesse di quelle iniquità; e dove dice: prigione, prigione; dove dice: galera, galera; e dire ai podestà che faccian di buono; se no, mandarli a spasso, e metterne dei migliori: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare ai dottori che abbiano ad ascoltare i poveri e a parlare per la ragione. Dico bene, i miei signori?» Renzo aveva parlato tanto con cuore, che, fin dall'esordio, una gran parte dei radunati, sospeso ogni altro discorso, s'eran rivolti ad udirlo; e ad un certo punto, tutti erano divenuti suoi ascoltatori. Un clamore confuso di applausi, di «bravo, sicuro, ha ragione, è vero pur troppo,» tenne dietro alla sua aringa. Non mancarono però i critici. «Eh sì,» diceva uno: «dar retta ai montanari: son tutti avvocati;» e se ne andava. «Adesso,» mormorava un altro, «ogni scalzagatto vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non si avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi.» Renzo però non intese che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l'altra. «A rivederci domani. – Dove? – Sulla piazza del duomo. – Sì bene. – Sì bene. – E qualche cosa si farà. – E qualche cosa si farà.» «Chi è di questi bravi signori, che voglia insegnarmi un'osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo?» disse Renzo. «Son qui io a servirvi, quel bravo giovane,» disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor motto. «Conosco appunto un'osteria che è il vostro caso; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo.» «Qui presso?» chiese Renzo. «Poco discosto,» rispose colui. La ragunata si sciolse; e Renzo dopo molte strette di mani sconosciute, s'avviò collo sconosciuto, rendendogli grazie della sua cortesia. «Niente, niente,» diceva costui: «una mano lava l'altra, e le due il viso. Non s'ha egli a far servizio al prossimo?» E camminando, faceva a Renzo, in via di discorso, ora una, ora un'altra inchiesta. «Non per curiosità dei fatti vostri; ma voi mi parete stanco: da che paese venite?» «Vengo,» rispose Renzo, «fino, fino da Lecco.» «Fin da Lecco? Di Lecco siete?» «Di Lecco… cioè del territorio.» «Povero giovane! per quel che ho potuto capire dai vostri discorsi, ve ne hanno fatte delle grosse?» «Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po' di politica, per non dire in publico i fatti miei; ma… basta, qualche giorno si saprà; e allora… Ma qui veggio un'insegna d'osteria; e in fede mia ch'io non ho voglia di andar più lontano.» «No, no; venite dove ho detto io, che poco rimane di strada,» disse la guida: «qui non istareste bene.» «Eh, sì;» rispose il giovane: «non son mica un signorino avvezzo nella bambagia, io: qualche cosa alla buona da mettere in castello, e un pagliericcio, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l'uno e l'altro. Alla providenza.» Ed entrò in una portaccia, sopra la quale pendeva l'insegna della luna piena. «Bene; vi condurrò qui, giacchè volete,» disse lo sconosciuto; e lo seguì. «Non occorre che v'incomodiate di più,» rispose Renzo «Però,» soggiunse, «mi fate favore di venire a berne un bicchiere con me.» «Accetterò le vostre grazie,» rispose colui; e andò, come più sperto del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s'accostò ad una porta invetriata, alzò il saliscendo, aperse, ed entrò col suo compagno nella cucina. Due lucerne la illuminavano, pendenti da due staggi appiccati alla trave del palco. Molta gente, tutta in faccende, era adagiata sovra panche al di qua e al di là di un descaccio stretto, che teneva quasi tutto un lato della stanza: ad intervalli, tovagliole e imbandigioni; ad intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi gittati e raccolti; fiaschi e bicchieri da per tutto. Sul desco molle si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: noi eravamo stamattina nella ciotola d'un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutto intento a vedere come andassero gli affari publici, si dimenticava di curare le sue faccenduole private. Lo schiamazzo era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servigio di quella tavola insieme e tavoliere: l'oste stava seduto sur una panchetta, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, di certe figure, che faceva, e disfaceva nella cenere colle molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S'alzò egli al suono del saliscendo; e si fece incontro ai sopravvegnenti. Veduta ch'ebbe la guida, – maladetto! – disse tra sè: – che tu m'abbia a venir sempre tra' piedi, quando manco ti vorrei! – Adocchiato poi Renzo in fretta, disse, pur tra sè: – non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai; quando avrai dette due parole ti conoscerò. – Però di questo muto soliloquio nulla trasparve sulla faccia dell'oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossigna, e due occhietti chiari e fissi. «Che cosa comandano codesti signori?» diss'egli. «Prima di tutto un buon fiasco di vino sincero,» disse Renzo: «e poi un bocconcino.» Così dicendo, s'assettò sur una panca, verso l'estremità del desco, e mandò un «ah!» sonoro, come se volesse dire: fa bene un po' di panca dopo essere tanto stato in piedi e in faccende. Ma tosto gli corse alla memoria quella panca e quel desco, a cui da ultimo era stato seduto con Lucia e con Agnese; e mise un sospiro. Die' poi una scrollatina di capo, per cacciare quel pensiero; e vide venir l'oste col vino. Il compagno s'era seduto rimpetto a Renzo. Questi gli versò tosto da bere, dicendo: «per ammollare le labbra». E riempiuto l'altro bicchiere, lo tracannò in un sorso. «Che cosa mi darete da mangiare?» disse poi all'ostiere. «Un buon pezzo di stufato?» disse questi. «Signor sì; un buon pezzo di stufato.» «Subito servito,» disse l'oste a Renzo; e al garzone: «servite questo forastiere.» E s'avviò verso il focolare. «Ma…» ripigliò, poi tornando di nuovo verso Renzo: «ma pane, non ne ho in questa giornata.» «Al pane,» disse Renzo, ad alta voce e ridendo, «ha pensato la providenza.» E cavato il terzo ed ultimo di quei pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, lo levò in aria, gridando: «ecco il pane della providenza!» Alla esclamazione, molti si volsero; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: «viva il pane a buon mercato!» «A buon mercato?» disse Renzo: «gratis et amore.» «Meglio, meglio.» «Ma,» soggiunse egli tosto, «non vorrei che cedesti signori pensassero male. Non è mica ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato per terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.» «Bravo! bravo!» gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno dei quali venne in mente che quelle parole esprimessero seriamente un fatto e un'intenzione reale. «Si pensano ch'io minchioni; ma la è proprio così,» disse Renzo alla sua guida; e rivoltando poi per mano quel pane, soggiunse: «vedete come l'hanno aggiustato; pare una focaccia: ma; ve n'era del prossimo! Se vi si trovavano di quelli che hanno l'ossa un po' tenere, saranno stati freschi.» E tosto stracciati l'un dopo l'altro e divorati tre o quattro morselli di quel pane, mandò lor dietro un secondo bicchiere di vino; e soggiunse: «da per sè non vuole andar giù questo pane. Mai non ho avuto tanto secco in gola. Un gran gridare s'è fatto!» «Preparate un buon letto a questo bravo giovane,» disse la guida: «perchè egli intende di dormir qui.» «Volete dormir qui?» chiese l'oste a Renzo, avvicinandosi al desco. «Sicuro,» rispose questi: «un letto alla buona; basta che le lenzuola sieno di bucato; perchè, son povero figliuolo, ma assuefatto alla pulizia.» «Oh; quanto a questo!» disse l'oste; andò al banco, che stava in un angolo della cucina; e tornò, portando in una mano un calamaio e un pezzetto di carta bianca, e nell'altra una penna. «Che vuol dir questo?» sclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo dinanzi, e sorridendo poi con maraviglia. «È il lenzuolo di bucato codesto?» L'oste, senza rispondere, pose la carta sul desco, il calamaio accanto alla carta, poi si curvò, appoggiò sul desco medesimo il braccio sinistro e la punta del gomito destro, e colla penna tesa per aria, e la faccia alzata verso Renzo, gli disse: «fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria.» «Che cosa?» disse Renzo: «che hanno a far codeste storie col letto?» «Io fo il mio dovere,» disse l'oste, guardando in faccia alla guida: «noi siamo obbligati di dar notizia e relazione di tutte le persone che vengono ad alloggiare da noi: nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negocio viene, se ha seco armi… quanto tempo ha di fermarsi in questa città… Sono parole della grida.» Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d'ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse: «ah ah! avete la grida! E io fo conto d'esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride.» «Parlo daddovero,» disse l'oste, sempre guardando al muto compagno di Renzo; e andato di nuovo al banco, ne trasse un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a squadernarlo dinanzi agli occhi di Renzo. «Ah! ecco!» sclamò questi, alzando con una mano il bicchiere riempiuto di nuovo, e rivotandolo tosto, e stendendo poi l'altra mano, coll'indice teso, verso la grida spiegata: «ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell'arma; so che cosa vuol dire quella faccia d'ariano, col laccio al collo.» (In capo alle gride si metteva allora l'arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova spiccava un re moro incatenato per la gola.) «Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e obedisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don… basta, so io; come dice in un altro foglio di messale simile a questo; quando avrà proveduto, che un giovane onesto possa sposare una giovane onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le farò anche un bacio per soprappiù. Posso avere delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d'altri furfanti: perchè se fosse solo…» e qui compì la frase con un gesto: «se un furfantone volesse saper dove io sono, per farmi un qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Ho da dire i miei negozii! Anche codesta è nuova. Son venuto a Milano a confessarmi, per un supposto; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire; e non da un oste.» L'oste taceva e guardava pure alla guida; la quale non faceva dimostrazione di sorta. Renzo, ci duole il dirlo, ingorgiò un altro bicchiere, e proseguì: «ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti farà capace. Se le gride che parlan bene, in favore dei buoni cristiani, non valgono; tanto meno hanno da valere quelle che parlano male. Dunque porta via tutti questi imbrogli, e reca in iscambio un altro fiasco; perchè questo è rotto.» Così dicendo, lo percosse leggiermente colle nocca della mano, e soggiunse: «senti, come e' suona a fesso.» Il discorso di Renzo aveva anche questa volta attirata l'attenzione della brigata; e quando egli ebbe fatto fine, sorse un mormorìo di favore generale. «Che cosa ho da fare?» disse l'oste, guardando a quello sconosciuto, che non era tale per lui. «Via, via,» gridarono molti di quei compagnoni: «ha ragione quel forese: sono angherie, trappolerie, gabelle: legge nuova oggi, legge nuova.» In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, lanciando all'oste uno sguardo di rimprovero per quella interpellazione troppo palese, disse: «lasciatelo un po' fare a suo modo: non fate scandali.» «Ho fatto il mio dovere,» disse l'oste ad alta voce; e tra sè: – adesso ho le spalle al muro. – Prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco vôto, per consegnarlo al garzone. «Reca di quel medesimo,» disse Renzo: «che lo trovo galantuomo; e lo porremo a dormire come l'altro, senza domandargli nome e cognome, e che cosa viene a fare, e se ha da stare un pezzo in questa città.» «Di quel medesimo,» disse l'oste al garzone, dandogli il fiasco; e tornò a sedere sotto la cappa del cammino. – Altro che lepre! – pensava egli quivi, istoriando tuttavia la cenere: – e in che mani sei capitato! Pezzo d'asino! se vuoi affogare, affoga; ma l'oste della luna piena non ha d'andarne di mezzo, per le tue pazzie. – Renzo rendette grazie alla guida, e a tutti quegli altri che avevano tenute le sue parti. «Bravi amici!» diss'egli: «ora vedo proprio che i galantuomini si danno la mano, e si sostengono.» Poscia spianando la destra in aria sovra il desco, e recandosi di nuovo in contegno d'aringatore, «non è ella una gran cosa,» sclamò, «che tutti quelli che maneggiano, vogliano fare entrar per tutto carta, penna e calamaio? Sempre la penna in aria! Gran passione che hanno di adoperar la penna!». «Ehi, quel galantuomo di fuori! volete saper la ragione?» disse ridendo uno di quei giucatori che vinceva. «Sentiamo un po',» rispose Renzo. «La ragione è,» disse colui, «che, siccome quei signori si mangiano le oche, così si trovano poi aver tante penne, tante penne, che qualche cosa bisogna che ne facciano.» Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva. «To',» disse Renzo: «è un poeta costui. Ne avete anche qui dei poeti: già ne nasce da per tutto. Ne ho una vena anch'io; e qualche volta ne dico delle belle… ma quando le cose vanno bene.» Per comprendere questa inezia del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancor più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po' balzano, che nei discorsi e nei fatti abbia più dell'arguto, e del nuovo che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far loro dire le cose più lontane e disparate dal loro legittimo significato! Perchè, vi domando io, che ha a fare poeta con cervello balzano? «Ma la ragione giusta la dirò io,» soggiunse Renzo: «egli è perchè la penna la tengono essi: e così, le parole che dicono essi, volano via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzano per aria con quella penna, e le inchiodano sulla carta, per servirsene a tempo e luogo. Hanno poi anche un'altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non sappia di lettera, ma che abbia un po' di… so ben io…» e per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando la fronte colla punta dell'indice, «e s'accorgono che egli comincia a capire l'imbroglio, taffe, buttan dentro nel discorso qualche parole in latino, per fargli perdere il filo, per fargli perdere la scrima, per ingarbugliargli la testa. Basta; se ne ha a dismettere delle usanze! Oggi a buon conto s'è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà governarsi, se ne farà anche di meglio: senza torcere un capello a nessuno però; tutto per via di giustizia.» Intanto alcuni di quei compagnoni si eran rimessi a giucare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se ne andavano; altra gente sopravveniva; l'oste attendeva agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare colla nostra storia. Lo sconosciuto guidatore non vedeva anch'egli l'ora d'andarsene; non aveva, a quel che paresse, nessun negozio in quel luogo; eppure non voleva partire prima d'aver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si volse a lui, riappiccò il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo, correvano per la bocca d'ognuno, venne a metter fuori un suo partito. «Eh! se comandassi io,» diss'egli, «troverei ben io il verso di fare andar le cose bene.» «Come vorreste fare?» domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del dovere, e storcendo un po' la bocca, come per istar più attento. «Come vorrei fare?» disse colui: «vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto pei poveri, come pei ricchi.» «Ah! così va bene,» disse Renzo. «Ecco come farei. Una meta onesta, che ognuno ci potesse stare. E poi, scompartire il pane in ragione delle bocche: perchè, c'è degli ingordi indiscreti che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque scompartire il pane. E come si fa? Ecco: dare un buon biglietto ad ogni famiglia, in proporzione delle bocche, per andare a levare il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa conformità: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età di mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto; e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragione delle bocche. A voi, per un supposto, dovrebbero fare un biglietto per… il vostro nome?» «Lorenzo Tramaglino,» disse il giovane; il quale invaghito del progetto, non pose mente che era tutto fondato sopra carta, penna e calamaio; e che per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle persone. «Benissimo,» disse lo sconosciuto: «ma avete moglie e figliuoli?» «Dovrei bene… figliuoli no… troppo presto… ma la moglie… se il mondo andasse, come dovrebbe andare…» «Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza; ma una porzione più picciola.» «È giusto; ma se presto, come spero… e con l'aiuto di Dio… Basta; quando avessi moglie anch'io?» «Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v'ho detto; sempre in ragione delle bocche,» disse lo sconosciuto, alzandosi d'in su la panca. «Così va bene,» gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo del pugno in sul desco: «e perchè non la fanno una legge a codesto modo?» «Che volete che vi dica io? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perchè penso che la moglie e i figliuoli mi staranno aspettando da un pezzo.» «Un'altra gocciolina, un'altra gocciolina,» gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e tosto levatosi, e arrappatogli una falda del farsetto, tirava a forza per farlo seder di nuovo. «Un'altra gocciolina; non mi fate questo torto.» Ma l'amico, con una strappata, si sviluppò, e lasciando Renzo fare un'affoltata d'istanze e di rimproveri, disse di nuovo «buona notte,» e se ne andò. Renzo gliela dava ancora ad intendere, che quegli era già nella via; e poi ripiombò sulla panca. Affisò quel bicchiere che aveva colmo; e visto passar dinanzi al desco il garzone, lo ritenne con un cenno della mano, come se avesse qualche affare da comunicargli; gli additò il bicchiere, e con una pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare, disse: «ecco; lo aveva preparato per quel galantuomo: vedete; pieno, raso, proprio da amico; ma non ha voluto. Alle volte, la gente ha delle idee curiose. Io non ci posso far altro: il mio buon cuore l'ho fatto vedere. Adesso mo, giacchè la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andar male.» Così detto, lo prese, e lo votò in un tratto. «Ho capito,» disse il garzone, andandosene. «Ah! avete capito anche voi,» riprese Renzo: «dunque è vero. Quando le ragioni son giuste…!» Qui non ci vuol meno di tutto l'amore; che noi portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un racconto di così poco onore ad un personggio principale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d'imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch'ella era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizzi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Quei pochi bicchieri, ch'egli aveva cacciati giù alla prima l'un dietro l'altro, contra il suo solito, parte per ammorzare l'arsura della gola, parte per una certa alterazione d'animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po' esercitato non si sarebbero pur fatti sentire. Su di che il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo; e vaglia quel che può valere. Gli abiti temperati ed onesti, dic'egli, recano anche questo vantaggio, che quanto più sono invecchiati e radicati in un uomo, tanto più facilmente, quando egli faccia qualche cosa di contrario, ne risente in su l'istante danno, o sconcio, o impaccio per lo meno di modo che se ne ha poi a ricordare per un pezzo, e anche uno scappuccio gli serve di scola. Comunque sia, quando quei primi fumi furono saliti al cervello di Renzo, vino e parole continuarono ad andare, l'uno giù e l'altre su, senza modo nè regola: e al punto a cui l'abbiamo lasciato, egli stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti ch'egli potesse prender per tali, non ne mancava; e per qualche tempo anche le parole erano venute via di buon grado, e si erano lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di compier le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficoltosa. Il pensiero, che s'era presentato vivo e risoluto alla sua mente, si annebbiava e svaniva tutt'ad un tratto; e la parola, dopo essersi fatta un pezzo aspettare, non era quella che facesse a proposito. In queste angustie, per uno di quei falsi istinti che in tante cose rovinano gli uomini, egli ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica. Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole ch'egli mandò fuori in quella sciagurata sera: le altre più che omettiamo, disdirebbero troppo; perchè, non solo non hanno senso, ma non fanno mostra d'averlo: condizione necessaria in un libro stampato. «Ah oste, oste!» ricominciò egli, seguendolo coll'occhio attorno al desco, o sotto la cappa del cammino; talvolta affisandolo dove non era; e parlando sempre in mezzo al trambusto della brigata: «oste che tu se'! Non posso mandarla giù… quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio…! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione mo, che proveccio, che gusto… di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, voi signori? Gli osti dovrebbero tenere dai buoni figliuoli… Senti, senti, oste; che ti voglio fare un paragone… per la ragione… Ridono eh? Sono un po' sostentato… ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un po'; chi è che ti fa andar la bottega? I poveri figliuoli: dico bene? Guarda un po' se quei signori delle gride vengono mai da te a bagnarsi la bocca.» «Tutta gente che beve acqua,» disse un vicino di Renzo. «Vogliono stare in sè,» aggiunge un altro, «per poter dire le bugie pulito.» «Ah!» gridò Renzo: «adesso mo è il poeta che ha parlato. Dunque capite anche voi la mia ragione. Rispondi dunque, oste; e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d'un quattrino? E quel cane assassino di don… ? Taccio, perchè sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr… so io, sono due galantuomini; ma ce n'è pochi dei galantuomini. I vecchi peggio dei giovani; e i giovani… peggio ancora dei vecchi. Però, son contento che non si sia fatto carne: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma… ne ho anche dati via. Largo! abbondanza! viva!… Eppure, anche Ferrer… qualche parolina in latino… siés baraòs trapolorum… Maladetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!… Là ci volevano quei camerate… quando scappò su quel maladetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si fuggiva mica ve' allora. Tenerlo lì quel signor curato… So io a chi penso! » A questa parola, chinò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in una immaginazione; poi mise un gran sospiro, e sollevò una faccia con due occhi imbambolati, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi ne era l'oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già avevano cominciato a prendersi spasso della eloquenza appassionata e avviluppata di Renzo, tanto più ne presero della sua cera compunta; i più vicini dicevano agli altri: guardate, e tutti si volgevano a lui; tanto che egli divenne il zimbello della brigataccia. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma a dir vero, nessuno ne era tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per soprappiù egli era forese. Si diedero, or l'uno or l'altro, a stuzzicarlo con inchieste sciocche, e grossolane, con cerimonie beffarde. Egli, ora dava segno di scandalezzarsi, ora pigliava la cosa in riso, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt'altro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a balzi e a sproposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un'attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; di modo che anche quello che doveva esser più altamente fìtto nella sua memoria, non fu quivi proferito; chè troppo ci dorrebbe se quel nome, pel quale anche noi sentiamo un po' d'affetto e di riverenza, fosse stato trassinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate. L'oste, vedendo che il giuoco andava troppo innanzi e troppo in lungo, s'era accostato a Renzo; e pregando pure con buona grazia quegli altri che lo lasciassero stare, lo andava scotendo per un braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire. Ma egli tornava pur sempre sulle medesime del nome e cognome, e delle gride, e dei buoni figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, fecero un tratto impressione nella sua mente; gli fecero avvertire un po' più distintamente il bisogno di ciò ch'elle significavano, e produssero un momento di lucido intervallo. Quel po' di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n'era ito: a un di presso come l'ultimo moccolo rimasto acceso d'una luminaria fa vedere gli altri spenti. Fece una risoluzione; pontò le mani aperte sul desco; provò una e due volte di sollevarsi; sospirò, tentennò; alla terza, sorretto dall'oste, fu in piede. Quegli, reggendolo tuttavia, lo fece uscire d'intra 'l desco e la panca; e presa in una mano una lucerna, coll'altra, alla meglio, parte lo condusse, parte lo trasse verso la porta della scala. Quivi Renzo, al romore dei saluti che gli venivano gridati dietro dalla brigata, si volse in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata sarebbe stata uno stramazzone; si volse, e con l'altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando ed iscrivendo nell'aria certi saluti, a guisa d'un nodo di Salomone. «Andiamo a letto, a letto,» disse l'oste, strascinandolo; gli fece imboccare la porta; e con più fatica ancora, lo tirò in cima dell'angusta scala di legno, e poi nella stanza che gli aveva fissata. Renzo, veduto il letto che lo aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l'oste con due occhietti, che ora scintillavano più che mai, ora si ecclissavano, come due lucciole; cercò di bilicarsi sulle gambe; e stese la mano verso la guancia dell'oste, per prenderla fra l'indice e il medio, in segno di amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. «Bravo oste,» gli riuscì però di dire: «ora vedo che sei galantuomo: questa è una opera buona, dare un letto ad un buon figliuolo; ma quella ragia del nome e cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch'io son furbo la parte mia…» L'oste, il quale non si pensava che colui potesse ancor tanto connettere, l'oste, che per una lunga esperienza sapeva quanto gli uomini in quello stato sieno più soggetti del solito a volgersi repentinamente di sentimento, volle approfittare di quel lucido intervallo, per fare un altro tentativo. «Figliuol caro,» diss'egli con una voce e con una cera tutta carezzevole: «non l'ho mica fatto per seccarvi, ne per sapere i fatti vostri. Che volete? La è legge; anche noi, bisogna obedire; altrimenti siamo i primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e… Di che si tratta finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non mica per loro, ma per fare un piacere a me; via, qui fra noi, a quattr'occhi, facciamo le nostre cose; ditemi il vostro nome e… e poi andate a letto col cuor quieto.» «Ah birbone!» sclamò Renzo: «mariuolo! tu mi torni ancora in campo con quella infamità del nome, cognome e negozio!» «Taci, buffone; va a letto,» diceva l'oste. Ma quegli continuava più forte: «ho capito: tu sei ancor tu della lega. Aspetta, aspetta, che t'aggiusto io.» E dirizzando la bocca verso la porta della scaletta, cominciava ad urlare ancor più sgangheratamente: «amici! l'oste è della…» «Ho detto per ridere,» gridò questi sulla faccia di Renzo, ributtandolo, e pignendolo verso il letto: «per ridere; non hai capito che ho detto per ridere?» «Ah! per ridere: ora tu parli bene. Quando hai detto per ridere… Le son proprio cose da ridere.» E cadde sul letto. «A noi; spogliatevi; presto,» disse l'oste, e al consiglio aggiunse l'aiuto; che ve n'era bisogno. Quando Renzo fu venuto a capo di trarsi il farsetto, quegli, presolo, pose tosto le mani sulle tasche, per vedere se v'era il morto. Ve lo trovò: e pensando che al domani il suo ospite avrebbe avuto tutt'altro negozio che di pagar lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani donde un oste non potrebbe farlo uscire; pensando a ciò, volle arrischiare un altro tentativo. «Voi siete un buon galantuomo; n'è vero?» diss'egli. «Buon figliuolo, galantuomo,» rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita coi bottoni dei panni che non s'era ancor potuto cavar di dosso. «Be',» replicò l'oste: «saldate ora dunque quel poco conticino; perchè domani io debbo uscire per certe mie faccende…» «Questo è giusto,» disse Renzo. «Son furbo, ma galantuomo… Ma i danari? Adesso mo, andare a cercare i danari…!» «Sono qui,» disse l'oste: e mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, venne a capo di aggiustar la partita, e di riporre lo scotto. «Dammi una mano a finir di spogliarmi, oste,» disse Renzo. «Capisco anch'io, ve', che ho addosso un gran sonno.» L'oste gli prestò l'ufìcio richiesto; gli stese per soprappiù la coltre addosso, e gli disse dispettosamente «buona notte», che già quegli russava. Poi, per quella specie di attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza al pari che un oggetto di amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull'animo nostro, si fermò un momento a contemplare l'ospite così per lui fastidioso, levandogli la lucerna sul volto, e facendovi con la palma stesa ribatter sopra la luce; in quell'atto a un dipresso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. «Matto minchione!» disse nella sua mente al povero addormentato: «sei proprio andato a cercartela. Domani poi mi saprai dire che bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.» Così detto o pensato, ritrasse la lucerna, si mosse, uscì della stanza, e chiuse l'uscio a chiave per di fuori. Sul pianerottolo della scala, domandò l'ostessa; alla quale impose che, lasciati i figliuoli in guardia ad una loro fanticella, discendesse in cucina a presiedere e vigilare in sua vece. «Bisogna ch'io vada fuori, in grazia d'un forestiero capitato qui pel mio malanno,» diss'egli, e le raccontò in compendio il noioso accidente. Poi soggiunse «occhio a tutto, e sopra tutto prudenza, in questa maladetta giornata. Ci abbiamo laggiù una mano di scapigliati, che, tra il bere, e tra che di natura son larghi di bocca, ne dicono d'ogni sorte Basta, se un qualche temerario» «Oh! non son mica una bambina, e so anch'io quel che va fatto. Finora, mi pare che non si possa dire…» «Bene, bene, e badare che paghino, e tutti quei discorsi che fanno, sul vicario di previsione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e Francia e altre simili minchionerie, far vista di non intendere, perchè, a contraddire, la può andar male subito, e a dar ragione, la può andar male in seguito e già tu sai anche tu che qualche volta quelli che le dicono più grosse… Basta, quando si sente certe proposizioni, voltar via la testa, e dire: vengo, come se qualcheduno chiamasse da un'altra banda. Io farò di tornare il più presto.» Ciò detto, scese con lei in cucina, diede un'occhiata in giro, per vedere se non v'era novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, tolse un randello da un angolo, riepilogo con un'altra occhiata alla moglie le istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel fare quelle operazioni, egli aveva ripreso in cuor suo il filo dell'apostrofe cominciata al letto del povero Renzo e la proseguiva, camminando nella via. – Testardo d'un montanaro! – Chè, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l'esser suo, questa qualità si manifestava da per sè nelle parole, nella pronunzia, nell'aspetto e negli atti – Una giornata come questa, a forza di politica, a forza d'aver giudizio, io ne usciva netto, e dovevi mo venir tu sulla fine, a guastarmi l'uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso l'occhio per questa sera, e domattina te l'avrei data ad intendere. Ma signor no; in compagnia ci vieni; e in compagnia d'un bargello, per far meglio! Ad ogni passo, l'oste scontrava nel suo cammino, o passeggieri scompagnati, o coppie, o quadriglie di gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da banda, li guardò colla coda dell'occhio passare, e continuò tra sè e sè: – eccoli i castigamatti. E tu, pezzo d'asino, per aver veduto un po' di gente in volta a far baccano, ti sei cacciato nel capo che il mondo abbia a voltarsi. E su questo bel fondamento, hai rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io faceva il possibile per salvarti; e tu, bestia, in ricambio, per poco non mi hai messa a romore l'osteria. Ora toccherà a te di uscir d'impiccio: per me ci provedo io. Come se io volessi sapere il tuo nome per mia curiosità! Che cosa m'importa a me che tu sia Taddeo o Bartolommeo? Io ci ho un bel gusto anch'io a pigliar la penna in mano!: ma non siete mica voi altri soli a voler le cose a vostro modo. Lo so anch'io che c'è delle gride che non contano niente: bella novità, da venircela a raccontare un montanaro! Ma tu non sai tu che le gride contra gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a suo modo, e aver le gride in tasca, la prima cosa è non dirne male in publico. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non cercasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, che cosa c'è di buono? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come sopra, di trecento scudi: son lì covati trecento scudi; e per ispenderli così bene; da essere applicati, per i due terzi, alla regia Camera, e l'altro all'accusatore o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale, all'arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie.– A queste parole, l'oste poneva piede sulla soglia del palazzo del capitano di giustizia. Quivi, come a tutte le altre segreterie, era una gran faccenda: da per tutto si attendeva a dare gli ordini che parevano più atti a preoccupare il giorno vegnente, a togliere i pretesti e la baldanza agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la forza nelle mani solite adoperarla. Si accrebbe la soldatesca alla casa del vicario; gli sbocchi della via furono sbarrati di travi, trincerati di carri. S'ingiunse a tutti i fornai che lavorassero a far pane senza intermissione; e si spedirono staffette ai paesi circonvicini, con ordini che se ne mandasse frumento alla città; ad ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon mattino, a vigilare la distribuzione e a contenere gl'inquieti, coll'autorità della presenza e colle buone parole. Ma per dar, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci le blandizie con un po' di spavento, si pensò anche a trovar modo di metter le mani addosso a qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di giustizia; il quale, ognuno può pensare di che animo fosse per le sollevazioni e pei sollevati, con un bagnuolo d'acqua vulneraria sur uno degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino dal principiare del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto l'oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno da potersi riconoscere, e appostarlo, e tenerlo in petto; onde adunghiarlo poi a notte affatto quieta, o il domani. Udite quattro parole di quella predica di Renzo, colui gli aveva fatto tosto assegnamento addosso; parendogli quello un reo buon uomo, proprio il caso. Trovandolo poi nuovo affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle carceri, come all'albergo più sicuro della città: ma gli venne fallito, come avete inteso. Potè però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e patria, oltre cento altre belle notizie congetturali; di modo che, quando l'oste giunse quivi a dir ciò che egli sapeva di Renzo, già ne sapevano più di lui. Entrò egli nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad albergare da lui un forestiere, che non aveva mai voluto manifestare il suo nome. «Avete fatto il vostro dovere a darcene avviso,» disse un notaio criminale, ponendo giù la penna: «ma già lo sapevamo.» – Bel mistero! – pensò l'oste: – ci vuole una grande abilità! – «E sappiamo anche,» continuò il notaio, «quel riverito nome.» – Diavolo! il nome mo, come hanno fatto? – pensò l'oste questa volta. «Ma voi,» ripigliò l'altro, con volto serio, «voi non dite tutto sinceramente.» «Che cosa ho da dire di più?» «Ah! ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità di pane derubato, saccheggiato, acquistato per furto e per sedizione.» «Vien uno con un pane in saccoccia; so molto io dove lo è andato a pigliare. Perchè, a parlare come in punto di morte, io posso dire di non avergli veduto che un pane solo.» «Già, sempre scusare, difendere: chi ode voi, son tutti galantuomini. Come potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?» «Che cosa ho da provare io? Io non ci entro: io faccio l'oste.» «Non potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di proferir parole ingiuriose contra le gride, e di fare atti mali ed indecenti contra l'arme di sua eccellenza.» «Mi faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per la prima volta? È il diavolo, con rispetto, che lo ha mandato a casa mia: e se lo conoscessi, vossignoria capisce bene che non avrei avuto bisogno di domandargli il suo nome.» «Però, nella vostra osteria, alla vostra presenza, si sono dette cose di fuoco: parole temerarie, proposizioni sediziose; mormorazioni, strida, clamori.» «Come vuole vossignoria ch'io badi agli spropositi che possono dire tanti schiamazzatori, che parlan tutti in una volta? Io debbo attendere ai miei interessi, che son pover uomo. E poi vossignoria sa bene che chi è latino di bocca, per lo più è anche latino di mano, massime quando son tanti insieme, e…» «Sì, sì; lasciateli pur fare e dire: domani, domani vedrete se il ruzzo sarà loro uscito del capo. Che credete?» «Io non credo niente.» «Che la canaglia sia diventata padrona di Milano?» «Oh, appunto!» «Vedrete, vedrete.» «Capisco benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di riscuotere. Loro signori hanno la forza; a loro signori tocca.» «Avete ancora tanta gente in casa?» «Un mondo.» «E quel vostro avventore che fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a preparar sedizioni?» «Quel forestiere, vuol dire vossignoria: è andato a dormire.» «Dunque avete molta gente… Basta; badate a non lasciarlo andar via.» – Ho da fare il birro io? – pensò l'oste; ma non disse nè sì nè no. «Tornate pure a casa; e abbiate giudizio,» ripigliò il notaio. «Io ho sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire s'io ho mai dato disturbo alla giustizia.» «Bene, bene; e non crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.» «Io? Per amor del cielo! Io non credo niente: attendo a far l'oste io.» «La solita canzone: non avete mai altro da dire.» «Che vuole vossignoria ch'io dica altro? la verità è una sola.» «Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso, informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir domandato.» «Che cosa ho da deporre io? io non so niente; appena ho testa da attendere ai fatti miei.» «Badate a non lasciarlo partire.» «Spero che l'illustrissimo signor capitano saprà che io son venuto subito a fare il mio dovere. Bacio le mani a vossignoria.» Allo spuntar del dì, Renzo russava da circa sette ore, ed era ancora, poveretto, in sul bello, quando due forti squassi alle due braccia, e una voce che dai piedi del letto gridava «Lorenzo Tramaglino!», lo fecero risentire. Si riscosse, scrollò le braccia, aperse gli occhi a fatica; e vide ritto dinanzi a sè appiè del letto un uomo vestito di nero, e due armati, uno a destra, uno a sinistra del capezzale. Egli, tra la sorpresa, e il non esser ben desto, e la spranghetta di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non gli piacendo quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto. «Ah! avete inteso una volta, Lorenzo Tramaglino?» disse l'uomo dalla cappa nera, quel notaio medesimo della sera antecedente. «Alto; su dunque; levatevi, e venite con noi.» «Lorenzo Tramaglino!» disse Renzo Tramaglino: «che vuol dir questo? Che volete da me? Chi v'ha detto il mio nome?» «Manco ciarle, e su presto,» disse uno dei birri che gli stavano a fianco, prendendogli di nuovo il braccio. «Ohe! che prepotenza è questa?» gridò Renzo, ritirando il braccio. «Oste! oh l'oste!» «Lo portiam via in camicia?» disse ancora quel birro, volgendosi al notaio. «Avete inteso?» disse questi a Renzo: «così si farà, se non vi levate subito subito, per venir con noi.» «E perchè mo?» chiese Renzo. «Il perchè lo sentirete dal signor capitano di giustizia.» «Io? Io sono un galantuomo: non ho fatto niente io; e mi stupisco…» «Meglio per voi, meglio per voi; così in due parole sarete sbrigato e potrete andare pei fatti vostri.» «Mi lascino andare adesso,» disse Renzo: «io non ho nulla da partire colla giustizia.» «Orsù, finiamola!» disse un birro. «Lo portiam via da vero?» disse l'altro. «Lorenzo Tramaglino!» disse il notaio. «Come sa il mio nome, vossignoria?» «Fate il vostro dovere,» disse il notaio ai birri, i quali tosto miser le mani addosso a Renzo, per cavarlo del letto. «Ehi! non toccate la carne d'un galantuomo, che ! So fare anch'io a vestirmi.» «Dunque vestitevi, e levatevi subito,» disse il notaio. «Mi levo,» rispose Renzo, e andava di fatto raccogliendo qua e là i panni sparsi pel letto, come le reliquie d'un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli, proseguiva tuttavia dicendo «ma non voglio andare dal capitano di giustizia, io. Non ho che fare con lui. Giacchè mi si fa questo affronto ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e mi ha delle obbligazioni.» «Sì, sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer,» rispose il notaio. In altre circostanze egli avrebbe riso ben di cuore d'una proposta simile, ma non era momento da ridere. Già nel venire, egli aveva veduto per le vie un cotal movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli di sollevazione non affatto compressa, o cominciamenti d'una nuova: uno sbucar di borghesi, un accozzarsi, un andare in frotte, uno stare a brigatelle. Ed ora, senza farne sembiante, o cercando almeno di non farlo, porgeva orecchi, e gli pareva che il ronzìo andasse crescendo. Desiderava adunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto condur via Renzo d'amore e d'accordo; giacchè, se si fosse dichiarata guerra con lui, non poteva esser certo, giunti che fossero nella via, di trovarsi tre contr'uno. Perciò faceva d'occhio ai birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovane; e dalla parte sua, cercava d'indolcirlo con buone parole. Il giovane intanto, mentre si vestiva bel bello, raccapezzando alla meglio le memorie ingarbugliate del giorno antecedente, si apponeva bene a un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser cagione di tutto l'inconveniente; ma come diamine colui lo sapeva egli il suo nome? E che diamine era accaduto in quella notte, perchè la giustizia avesse pigliata tanta sicurtà, da venire a dirittura a metter le mani addosso a uno dei buoni figliuoli che il giorno prima avevano tanta voce in capitolo, e che non dovevano esser tutti addormentati, poichè Renzo s'accorgeva anch'egli d'un ronzo crescente nella via? Guardando poi al volto del notaio, vi scorgeva tra pelle e pelle la titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per chiarirsi delle sue congetture e scoprir paese, come per acquistar tempo, e anche per tentare un colpo, disse: «capisco bene che cosa è l'origine di tutto questo: gli è per amore del nome e del cognome. Ier sera veramente io era un po' in cimberli: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte, come dico, si sa, quando il vino è passato pel canale delle parole, vuol dire anch'egli la sua. Ma, se non si trattasse d'altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già ella lo sa il mio nome. Chi diamine gliel ha detto?» «Bravo, figliuolo, bravo!» rispose il notaio, tutto piacevole: «veggio che avete giudizio; e credetelo a me che son del mestiere, voi siete più accorto che altri. È il miglior modo per uscirne presto e bene: con codeste buone disposizioni, in due parole siete spicciato e lasciato in libertà. Ma io, vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei. Via, fate presto, e venite pure di buon animo; che quando vedranno chi siete; e poi io dirò… Lasciate fare a me… Basta; sbrigatevi figliuolo.» «Ah! ella non può: capisco,» disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo sollecitare. «Passeremo dalla piazza del duomo?» chiese egli poi al notaio. «Per dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà,» disse quegli, arrovellando in cuor suo di dovere lasciar cadere in terra quella inchiesta misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento interrogazioni. – Quando uno nasce sventurato! – pensava. – Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro, che cantare; e un po' di respiro che s'avesse, così extra formam, accademicamente, in via di discorso amichevole, se gli farebbe confessar senza corda quel che un volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell'e esaminato, senza ch'egli se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte, mi deve appunto capitare in un momento così angustiato. Eh! non c'è scampo, – continuava a pensare levando gli orecchi, e piegando la testa all'indietro: – non c'è rimedio: e’ risica d'essere una giornata peggio di ieri. – Ciò che lo fece pensar così fu un romore straordinario che s'udì nella via: e non potè tenersi di non aprire l'impannata, per dare un'occhiatina. Vide ch'egli era un crocchio di borghesi, i quali, all'intimazione di sbandarsi fatta loro da una pattuglia, avevano da prima risposto con male parole, e finalmente si separavano brontolando tuttavia; e quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati procedevano con molta buona creanza. Chiuse l'impannata, e stette un momento in fra due, se dovesse condurre a termine l'impresa, o lasciar Renzo in cura dei due birri, ed egli correre dal capitano di giustizia a render conto dell'emergente. – Ma, – pensò poi tosto, – mi si dirà ch'io sono un dappoco, un vile, e che doveva eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare. Maladetta la pressa! Malann'aggia il mestiere! – Renzo era in piedi; i due satelliti, l'uno da un fianco e l'uno dall'altro: il notaio accennò a costoro che non gli facessero troppo forza, e disse a lui: «da bravo, figliuolo; a noi, spicciatevi.» Renzo pure sentiva, vedeva e pensava. Era egli ormai tutto vestito, salvo il farsetto, che teneva con una mano, frugando con l'altra per le tasche. «Ohe!» diss'egli, guardando il notaio con un piglio molto significante: «qui c'era dei soldi e una lettera. Signor mio!» «Vi sarà dato ogni cosa puntualmente,» disse il notaio, «adempiute che sieno quelle poche formalità. Andiamo, andiamo.» «No, no, no,» disse Renzo, scrollando il capo: «questa non mi va: voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.» «Voglio mostrarvi che mi fido di voi: tenete, e fate presto,» disse il notaio, cavandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose sequestrate. Questi, riponendole al luogo loro, mormorava fra i denti: «alla larga! Bazzicate tanto coi ladri, che avete un poco imparato il mestiere.». I birri non potevano più tenersi; ma il notaio li frenava coll'occhio, e tra sè intanto diceva: – se tu arrivi a por piede dentro di quella soglia, l'hai da pagare con l'usura, l'hai da pagare. – Mentre Renzo si metteva il farsetto, e pigliava il suo cappello, il notaio fe' cenno all'un dei birri, che andasse innanzi per la scala; gli avviò dietro il prigioniero, poi l'altro amico; poi si mosse anch'egli. In cucina che furono, mentre Renzo dice: «e questo oste benedetto dove s'è cacciato?», il notaio fa un altro cenno ai due; i quali afferrano l'uno la destra l'altro la manca del giovane, e in fretta in fretta gli allacciano i polsi con certi ordegni, per quella ipocrita figura di eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi, (c'incresce di dover discendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede) consistevano in una cordicella lunga un po' più che il giro d'un polso comunale, la quale aveva ai capi due pezzetti di legno, come a dire due randelletti, due picciole bilie diritte. La cordicella avvinghiava il polso del paziente; i legnetti, passati tra il medio e l'anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in pugno, di modo che egli, storcendolo, ristringeva l'allacciatura a volontà; con che aveva mezzo, non solo di assicurare la presa, ma anche di martoriare un recalcitrante: a far meglio il quale effetto, la cordicella era sparsa di nodi. Renzo si sbatte, grida: «che tradimento è questo? A un galantuomo… !» Ma il notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, «abbiate pazienza,» diceva: «fanno il loro dovere. Che volete? son tutte formalità; e anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si facesse quello che ci viene comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di voi. Abbiate pazienza.» Mentre egli parlava, i due uomini d'operazione diedero una storta ai manichini. Renzo s'acquetò come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto fra le morse, e sclamò: «pazienza!» «Bravo figliuolo!» disse il notaio: «questa è la vera maniera d'uscirne a bene. Che volete? è una seccatura; lo capisco anch'io: ma portandovi bene, in un momento ne siete fuori. E giacchè vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato ad aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me, che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare attorno, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s'avvede di quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un'ora voi siete in libertà: c'è tanto da fare che avranno fretta anch'essi di sbrigarvi: e poi parlerò io… Ve ne andate pei fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato nelle mani della giustizia. E voi,» continuò poi volgendosi ai due birri con volto severo: «voi, badate a non fargli male; perchè lo proteggo io: il vostro dovere vi bisogna farlo; ma ricordatevi che questi è un galantuomo, un giovane civile, il quale di qui a poco sarà in libertà; e che gli dee premere il suo onore. Che non paia niente: come se foste tre galantuomini che vanno al passeggio.» E con tuono imperativo e con sopracciglio minaccioso, conchiuse: «m'avete inteso.» Voltosi poi a Renzo col sopracciglio spianato e colla cera fatta in un tratto ridente, che pareva volesse dire: «oh noi sì che siamo amici!», gli susurrò di nuovo: «giudizio; fate a mio modo; non vi guardate attorno; fidatevi di chi vi vuol bene: andiamo.» E il convoglio si avviò. Però, di tante belle parole Renzo non credette niente: nè che il notaio volesse più bene a lui che ai birri, nè che se la pigliasse tanto calda per la sua riputazione, nè che avesse intenzione di aiutarlo; niente: comprese benissimo che il galantuomo, temendo non si presentasse per via qualche buona occasione di scappargli dalle mani, metteva innanzi quei bei motivi, per istornar lui dallo starvi attento e da approfittarne. Di modo che tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a persuader più chiaramente a Renzo ciò che egli s'era già proposto in nube, di far tutto il contrario. Nessuno conchiuda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perchè s'ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale sembra essere stato de' suoi amici: ma in quel momento si trovava coll'animo agitato. A mente riposata, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di chi, per indurre altri a fare una cosa per sè sospetta, fosse andato suggerendogliela ed inculcandogliela caldamente, con quella miserabile mostra di dargli un parere disinteressato da amico. Ma è una tendenza generale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e scorgono ciò che altri potrebbe fare per cavarli d'angustie, di domandarglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorta di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anch'essi sotto questa legge comune. Quindi è che in simili circostanze fanno essi per lo più una così povera figura. Quei trovati maestrevoli, quelle belle malizie, colle quali sono usi a vincere, che sono diventate per loro quasi una seconda natura, e che messe in opera a tempo e condotte colla pacatezza d'animo, colla serenità di mente necessarie, fanno il colpo sì bene e così nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscuotono l'applauso universale; i poveretti, quando sono in angustie, le adoperano in fretta, tumultuariamente, senza garbo nè grazia. Talchè ad un terzo che gli osservi ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno compassione e muovono il riso; e quegli che eglino pretendono allora d'aggirare, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quei loro artifizii ricava lume per sè, contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza inculcare ai furbi di professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o ciò che è meglio, di non trovarsi mai in circostanze angustiose. Renzo adunque, appena furono per via, cominciò a gittar gli occhi qua e là, a spandersi colla persona, a metter la testa innanzi, a tender gli orecchi. Non v'era però concorso straordinario; e benchè sul viso di più d'un passeggiero si potesse legger facilmente un certo che di sedizioso, pure ognuno andava dritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non ve n'era. «Giudizio, giudizio!» gli mormorava il notaio dietro le spalle «il vostro onore; l'onore, figliuolo.». Ma quando Renzo, origliando verso tre che venivano con facce infocate, sentì parlare d'un forno, di farina nascosta, di giustizia, cominciò anche a far cenni col volto verso coloro, e a tossire in quel modo che indica tutt'altro che una infreddatura. Quelli guardarono più attentamente al convoglio, e si fermarono, con loro si fermarono altri che sopraggiungevano; altri che gli erano passati dinanzi, volti al bisbiglio, tornavano indietro, e facevano coda. «Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti vostri; l'onore, la riputazione,» susurrava il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati coll'occhio, pensandosi di far bene, (ognuno è soggetto a sbagliare) gli diedero una stretta di manichini. «Ahi! ahi! ahi!» grida il tormentato: al grido, la gente si condensa all'intorno; ne accorre da ogni parte della via: il convoglio si trova incagliato. «È un malvivente,» bisbigliava il notaio a quei che gli erano addosso: «è un ladro colto in sul fatto. Si ritirino, dieno luogo alla giustizia.» Ma Renzo, visto il bello, visti i birri diventar bianchi, o almeno smorti, – se non m'aiuto ora, pensò, mio danno. – E tosto alzò la voce: «figliuoli! mi menano su, perchè ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto niente; son galantuomo: aiutatemi, non mi abbandonate, figliuoli!» Un mormorìo favorevole, grida più spiegate di favore s'alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chieggono, poi pregano i più vicini d'andarsene, e di dar loro il passo: la folla invece incalza e pigne sempre più. Quelli, vista la mala parata, lasciano i manichini, e non si curan più d'altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di fare il simile; ma v'era dei guai per amore della cappa nera. Il pover uomo, pallido in volto e smarrito in cuore, cercava di farsi picciolo, si andava storcendo, per isdrucciolare fuor della folla; ma non poteva levar gli occhi, che non ne vedesse venti addosso a sè. Studiava ogni modo di comparire un estraneo che, passando di là a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una pagliuca nel ghiaccio; e riscontrandosi muso a muso con uno che lo guardava fisamente con un piglio peggio degli altri, egli, composta la bocca al sorriso, con una sua cera sciocca, gli domandò: «che cosa è questo garbuglio?» «Uh corbaccio!» rispose colui. «Corbaccio! corbaccio!» risonò all'intorno. Alle grida si aggiunsero gli urtoni; tanto che in breve, parte colle gambe proprie, parte colle gomita altrui, egli ottenne quel che più gli stava a cuore in quel momento, d'esser fuori di quella serra. «Scappa, scappa, galantuomo: lì è un convento, là è una chiesa; per di qua, per di là,» si grida a Renzo da ogni banda. Quanto allo scappare, pensate se egli aveva bisogno di consiglio. Fino dal primo momento che gli era balenato in mente una speranza di uscir da quell'unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e deliberato, se questo gli riusciva, di andare senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato. – Perchè, – aveva pensato, – il mio nome lo hanno sui loro libracci, comunque diavolo se lo abbiano; e col nome e cognome, mi vengono a pigliare quando vogliono. – E quanto ad un asilo, egli non vi si sarebbe gittato che all'estremità. – Perchè, se posso essere uccel di bosco, – aveva pur pensato – non voglio farmi uccel di gabbia. – Aveva dunque disegnato per meta e per rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dove era accasato quel suo cugino Bortolo, se vi ricorda, che più volte lo aveva fatto sollecitare di portarsi colà. Ma il punto era di trovar la strada. Lasciato in una parte sconosciuta di una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva pure di che porta s'uscisse per andare a Bergamo; e quando lo avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta. Stette un momento in forse di chiedere indirizzo ai suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto da meditare sui casi suoi, gli si erano girati per la mente di strani pensieri su quello spadaio così obbligante, padre di quattro figliuoli, così a buon conto non volle manifestare i suoi disegni ad una gran brigata, dove ne poteva essere un altro di quel conio; e deliberò tosto di allontanarsi in fretta di quivi: che la via la domanderebbe poi in luogo dove nessuno sapesse chi egli era, nè il perchè la domandava. Disse ai suoi liberatori: «grazie, grazie, figliuoli: siate benedetti,» e uscendo pel largo che gli fu fatto immediatamente, alzò le calcagna, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo senza saper dove. Quando gli parve d'essersi abbastanza discostato, allentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardarsi intorno, per iscegliere l'uomo a cui fare la sua domanda, una faccia che inspirasse fiducia. Ma anche qui v'era dell'intrigo. La domanda per sè era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena sgabellati da quel picciolo intoppo, dovevano senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo: la voce di quella fuga poteva esser giunta fin là: e in tanta pressa, Renzo dovette forse fare dieci giudizii fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, con le gambe larghe, e le mani dietro la schiena, colla pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran giogaia, e che per ozio andava alternativamente sollevando su la punta dei piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ricadere sulle calcagna, aveva una cera di cicalone curioso, che invece di risposte avrebbe date interrogazioni. Quell'altro che veniva innanzi con gli occhi fissi e col labbro spenzolato, non che insegnare presto e bene la via altrui, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che a dir vero mostrava d'essere svegliato assai, mostrava però d'essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto ad inviare un povero forese dalla parte opposta a quella a cui egli tendeva. Tanto è vero che all'uomo impacciato, quasi ogni cosa è nuovo impaccio! Adocchiato finalmente uno che veniva in fretta, pensò che questi, avendo probabilmente qualche negozio pressante, gli risponderebbe tosto e direttamente, per isbrigarsi da lui; e sentendolo parlar da solo, stimò che dovesse essere un uomo sincero. Gli si accostò, e gli disse: «di grazia, quel signore, da che parte si va fuora, per andare a Bergamo?» «Per andare a Bergamo? Da porta orientale.» «Grazie, signore; e per andare a porta orientale?» «Prendete questa via a mancina; sboccherete alla piazza del duomo; poi…» «Basta, signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito.» E difilato camminò dalla parte che gli era stata indicata. L'indicatore gli guardò dietro un momento, e accozzando nel suo pensiero quel modo di camminare con la domanda, disse tra sè: – o ne ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui. – Renzo giunge alla piazza del duomo; la attraversa, passa a canto a un mucchio di cenere e di carboni spenti, e riconosce le reliquie della baldoria alla quale aveva assistito il giorno antecedente; costeggia la scalea del duomo, rivede il forno delle grucce mezzo smurato, guardato da soldati, e passa innanzi: oltre, oltre, per la strada da cui era venuto già colla folla, arriva dinanzi al convento dei cappuccini; dà un'occhiata a quella piazzetta e alla porta della chiesa, e dice tra sè sospirando: – m'aveva però dato un buon parere quel frate di ieri: che stessi in chiesa ad aspettare e a fare un po' di bene. – Qui, essendosi ritardato un momento a guardar fiso alla porta per cui aveva da passare, e veggendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la fantasia un po' riscaldata, (si vuoi compatirlo; egli aveva ben di che) sentì una certa ripugnanza ad affrontare quel varco. Si trovava così da mano un luogo d'asilo, e in cui con quella lettera sarebbe ben raccomandato; fu tentato fortemente d'entrarvi. Ma tosto ripreso animo, pensò: – uccel di bosco, fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione i birri non si saran fatti in pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte. – Si guardò dietro le spalle, per vedere se mai non venissero per di là: non vide nè quelli, nè altri che paresse pigliarsi cura di lui. Si ravvia, rallenta quelle gambe benedette che volevano pur sempre correre, mentre conveniva soltanto d'andare; e piano piano, zufolando in semituono, arriva alla porta. V'era, proprio sul passo, una frotta di gabellieri, e per rinforzo, anche un drappello di micheletti spagnuoli; ma stavan tutti coll'arco teso verso il di fuori, per non lasciar entrare di quelli che, alla novella d'un trambusto, v'accorrono come i corvi al campo dove è stata data battaglia; talchè Renzo, minchion minchione, cogli occhi bassi, con un andare così tra il viaggiatore e il passeggiante, passò la soglia, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Veggendo a dritta un viottolo, entrò in quello, per evitare la strada maestra; e andò un pezzo prima di pur guardarsi dietro le spalle. Va e va; trova cascine, trova villaggi, tocca innanzi senza domandarne il nome: è certo di allontanarsi da Milano, spera di andar verso Bergamo; tanto gli basta per ora. Di tempo in tempo si volgeva indietro, e andava anche guardando e soffregando or l'uno or l'altro polso ancora un po' indolenziti, e segnati in giro d'una striscia rosseggiante, vestigio della funicella. I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti, di repetìi, d'inquietudini, di rancori, di tenerezze; era uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera antecedente, di scoprirla parte segreta della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avevan potuto risapere il suo nome. I suoi sospetti cadevano naturalmente su lo spadaio, al quale si ricordava bene di averlo spiattellato. E riandando il modo con cui glielo aveva cavato di bocca, e tutto il contegno di colui, e tutte quelle esibizioni, che terminavano sempre a voler saper qualche cosa, il sospetto diveniva quasi certezza. Se non che si ricordava poi anche in barlume di avere, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di che; la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva dir altro che d'essersi in quel tempo trovata fuori di casa. Il poveretto si smarriva in queste speculazioni: era come un uomo che ha soscritti molti fogli bianchi, e gli ha fidati ad uno ch'egli teneva per buono e per bello; e scoprendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de' suoi negozii: che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far sull'avvenire qualche disegno che non fosse aereo, o ben tristo. Ma ben tosto il più penoso di tutti fu quello di trovar la strada. Dopo essere andato un pezzo, si può dire, alla ventura, sentì la necessità di chieder lingua. Provava bene un certo rincrescimento a metter fuori quella parola Bergamo, come s'ella avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; pure, di meno non si poteva fare. Deliberò, come aveva fatto in Milano, di chiedere indirizzo al primo viandante la cui faccia gli andasse a genio: e così fece. «Siete fuori di strada,» gli rispose questi; e pensatovi un poco, parte in parole, parte con gesti, gl'indicò il cammino che doveva tenere, per rimettersi su la strada maestra. Renzo lo ringraziò dell'indirizzo, fe' sembiante di seguirlo in tutto, andò in fatti da quella parte, coll'intenzione di avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non la perder di vista, di andare quanto fosse possibile correlativo ad essa; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da concepirsi che da praticarsi. Il costrutto fu che, andando così da dritta a sinistra, a spinapesce, un po' seguendo le indicazioni che otteneva per via, un po' correggendole secondo i suoi lumi e adattandole al suo intento, un po' lasciandosi guidare dalle strade in cui si trovava avviato, il nostro fuggiasco aveva fatte forse dodici miglia, che non era discosto da Milano più di sei; e quanto a Bergamo, era un bel che se non se n'era allontanato. Cominciò a capire che a quel modo non se ne veniva a capo; e pensò a trovare qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente fu di avere il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade vicinali: e domandando di quello, si farebbe dare indirizzo, senza seminar per via quella inchiesta di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale. Mentre rumina il modo di pescare tutte quelle notizie senza dar sospetto, vede pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d'un paesello. Da qualche tempo sentiva crescere il bisogno di ristorar le forze; pensò che quivi sarebbe il luogo di fare i due servigi in una volta; entrò. Non v'era altri che una vecchia colla rocca al fianco e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu proferto un po' di stracchino, e del vin buono: accettò la vivanda, del vino se ne scusò (gli era venuto in uggia, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera antecedente); e si assettò, pregando la donna che facesse presto. Questa in un tratto ebbe imbandito: e tosto cominciò a tempestare il suo viandante d'inchieste, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano, dei quali il romore era giunto fin là. Renzo, non solo seppe volteggiare, e schermirsi dalle inchieste con molta accortezza, ma traendo vantaggio dalla difficoltà, fe' servire al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove egli fosse avviato. «Ho da andare in molti luoghi,» rispose: «e se trovo un ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, presso al confine, però su quel di Milano… Come si chiama?» – Qualcheduno ve ne sarà, – pensava intanto tra sè medesimo. «Gorgonzola, volete dire,» rispose la vecchia. «Gorgonzola!» ripetè Renzo, quasi per iscriversi meglio la parola nella memoria. «È molto lontano di qui?» riprese poi. «Non so bene; saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse qualcheduno de' miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.» «E credete che vi si possa andare per questi bei viottoli, senza prendere la strada maestra? dove c'è una polvere, una polvere! Tanti dì che non piove!» «Io mi figuro di sì: potete domandare al primo paese che incontrerete andando alla dritta.» E glielo nominò. «Va bene,» disse Renzo; si levò, prese in mano un pezzo di pane che gli era avanzato del magro banchetto, un pane ben diverso da quel che aveva trovato il giorno prima appiè della croce di san Dionigi; pagò lo scotto, uscì, e prese la via a dritta. E per non ve l'allungare più del bisogno, col nome di Gorgonzola in bocca, di paese in paese, camminò tanto che, un'ora circa prima del tramonto, vi giunse. Già per via egli aveva disegnato di far quivi un'altra fermata, a prendere una refezione un po' più sostanziosa. Il corpo avrebbe anche aggradito un po' di letto; ma prima che contentarlo in questo, Renzo lo avrebbe lasciato cadere sfinito sulla via. Il suo proposito era d'informarsi all'osteria della distanza dell'Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che vi menasse, e di rincamminarsi a quella volta, subito dopo il refiziamento. Nato e cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, egli aveva inteso dir più volte, che a un certo punto, e per un certo tratto, esso marcava il confine tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un'idea precisa; ma per allora la faccenda principale era di portarsi al di là. Se non gli veniva fatto in quel giorno, era deliberato di camminare fin che la notte e la lena glielo consentissero, e di aspettar poi l'alba vegnente, in un campo, in una catapecchia, dove a Dio piacesse; pur che non fosse una osteria. Fatti alcuni passi in Gorgonzola, adocchiò una insegna; entrò; e all'oste che gli venne incontro, comandò un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più e il tempo gli avevano fatto passare quell'odio così estremo e fanatico. «Vi prego di far presto,» aggiunse: «perchè ho bisogno di rimettermi subito in istrada.» E questo lo aggiunse, non solo perchè era vero, ma anche per paura che l'oste, immaginandosi ch'egli volesse albergare quivi, non gli venisse alla vita a chieder del nome e del cognome, e donde veniva, e per che negozio… Alla larga! L'oste rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questi sedè in capo al desco, a fianco alla porta: il posto de' peritosi. Erano in quella stanza alcuni oziosi del paese, i quali dopo aver disputate e discusse e chiosate le grandi novelle di Milano del giorno antecedente, si struggevano di sapere come la fosse un po' andata anche in quel giorno; tanto più che quelle prime erano più atte ad irritare la curiosità, che a soddisfarla: una sollevazione nè soggiogata nè vittoriosa, sospesa più che terminata dalla notte; una cosa monca, la fine d'un atto piuttosto che d'un dramma. Uno di coloro si spiccò dalla brigata, si fece accanto al sopravvenuto, e gli domandò se veniva da Milano. «Io?» disse Renzo sorpreso, per pigliar tempo a rispondere. «Voi, se la domanda è lecita.» Renzo, scotendo il capo, strignendo le labbra, e facendone uscire un suono inarticolato, disse: «Milano, per quel che sento… così, a dire intorno… non debb'essere paese da andarvi al presente, fuori d'un gran caso di necessità.» «Continua dunque anche oggi il fracasso?» domandò con più istanza il curioso. «Bisognerebbe esser colà, per saperlo,» disse Renzo. «Ma voi, non venite da Milano?» «Vengo da Liscate,» rispose netto il giovane, che intanto aveva pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti a rigore di termini, perchè v'era passato; e il nome lo aveva appreso a un certo punto del cammino da un viandante che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a Gorgonzola. «Oh!» disse l'amico; come se volesse dire: faresti meglio a venire da Milano, ma pazienza. «E a Liscate,» soggiunse, «non si sapeva niente di Milano?» «Potrebb'essere benissimo che qualcheduno vi sapesse qualche cosa,» rispose il montanaro: «ma io non vi ho inteso niente.» E queste parole le porse con quel modo particolare che sembra voler dire: ho finito. Il curioso tornò al suo raddotto; e un momento dopo, l'oste venne ad imbandire. «Quanto c'è di qui all'Adda?» gli disse Renzo, a mezza voce, con un tratto da addormentato, con una cera sbadata, che gli abbiam veduto fare qualche altra volta. «All'Adda, per passare?» disse l'oste. «Cioè… sì… all'Adda.» «Volete passare dal ponte di Cassano, o sul porto di Canonica?» «Dove che sia… Domando così per curiosità.» «Eh, dico mo, perchè quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può render conto di sè.» «Va bene: e quanto c'è?» «Fate conto che, tanto a un luogo, come all'altro, poco più, poco meno, ci sarà sei miglia.» «Sei miglia! Non sapeva,» disse Renzo. «E già,» riprese poi, con una mostra ancor più apparente di svogliatezza, portata fino all'affettazione: «e già, chi avesse bisogno di prendere una scorciatoia, vi sarà altri luoghi da passare?» «Ve n'è sicuro,» rispose l'oste, ficcandogli in volto due occhi pieni d'una curiosità maliziosa. Bastò questo per fare al giovane morir fra' denti le altre inchieste che teneva apparecchiate. Si tirò dinanzi il piatto; e guardando alla mezzetta che l'oste aveva pur deposta in sul desco, disse: «il vino è sincero?» «Come l'oro,» disse l'oste: «domandatene pure a tutta la gente del paese e del contorno, che se ne intende: e poi, lo sentirete.» E così dicendo, tornò verso la brigata. – Maladetti gli osti! – sclamò Renzo in cuor suo: – più ne conosco, peggio li trovo. – Pure diè dentro a mangiare di gran voglia, tendendo insieme, senza farne sembiante, l'orecchio, all'intento di scoprir paese, di rilevare come si pensasse quivi sul grande avvenimento nel quale egli aveva avuta non picciola parte, e di osservare specialmente se fra quei parlatori vi fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse fidarsi di chiedere indirizzo, senza timore d'esser messo alle strette, e forzato a ciarlare de' fatti suoi. «Ma!» diceva uno: «questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far di buono. Basta; domani al più tardi, si saprà qualche cosa.» «Mi pento di non esser andato a Milano stamattina,» diceva un altro. «Se vai domani, vengo anch'io,» disse un terzo; poi un altro, poi un altro. «Quel che vorrei sapere,» ripigliò il primo, «è, se quei signori di Milano penseranno anche alla povera gente di fuori, o se faranno far la legge buona solamente per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per loro: i foresi, come non fossero cristiani.» «La bocca l'abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra ragione,» disse un altro: con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era avanzata: «e quando la cosa sia incamminata…» Ma non istimò bene di compier la frase. «Del grano nascosto non ve n'è solamente in Milano,» cominciava un altro con una cera scura e maliziosa; quando si sente lo scalpito d'un cavallo che s'avvicina. Corrono tutti alla porta; e raffigurato colui che giugneva, gli vanno tutti incontro. Era un mercante di Milano, che, andando più volte l'anno a Bergamo per suoi traffichi, usava passar la notte in quell'albergo; e come vi trovava quasi sempre la stessa brigata, era divenuto conoscente di ciascuno. Gli si affollano intorno; uno prende la briglia, un altro la staffa. «Ben venuto.» «Ben trovati.» «Avete fatto buon viaggio?» «Bonissimo; e voi altri, come state?» «Bene, bene. Che novelle di Milano?» «Ah! ecco quei delle novità,» disse il mercante, smontando, e lasciando il cavallo nelle mani d'un garzone. «E poi, e poi,» continuò entrando per la porticina colla brigata, «a quest'ora le saprete forse meglio di me.» «Da vero che non sappiamo niente,» disse più d'uno, ponendosi le mani al petto. «Possibile?» disse il mercante. «Dunque ne sentirete delle belle… o delle brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è disoccupato? Bene: un bicchier di vino, e il mio solito boccone; presto, perchè voglio coricarmi per tempo, e partir domattina per tempissimo, onde essere a Bergamo a ora di pranzo. E voi altri,» continuò, sedendosi al desco dal capo opposto a quello a cui stava Renzo tacito e attento, «voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di ieri?» «Di ieri abbiamo inteso parlare.» «Vedete dunque,» riprese il mercante, «se le sapete le novità. Voleva ben dir io che stando qui sempre di guardia, per frugare quelli che passano» «Ma oggi, come e andata oggi?» «Ah oggi. Non sapete niente d'oggi?» «Niente affatto: non è passato nessuno.» «Dunque lasciatemi inumidir le labbra; e poi vi dirò le cose d'oggi. Sentirete.» Colmò il bicchiere, lo prese colla destra, poi colle due prime dita dell'altra mano rilevò i mustacchi, poi assettò la barba colla palma, bevette, e ripiglio «oggi, amici cari, poco mancò che non fosse una giornata brusca come ieri, o peggio. E non mi par quasi vero ch'io sia qui a contarvene; perché già aveva messo da banda ogni pensiero di viaggio, per restare a guardare la mia povera bottega.» «Che v'era egli?» disse uno degli ascoltanti. «Che v'era? Sentirete.» E trinciando la vivanda che gli era stata messa dinanzi, e poi mangiando, continuò la sua narrazione. La brigata, in piedi, a dritta e a sinistra del desco, gli faceva uditorio con le bocche aperte; Renzo, al suo posto, senza che paresse suo fatto, dava mente forse più che nessun altro, masticando pian piano gli ultimi suoi bocconi. «Stamattina dunque quei birbi che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si trovarono ai posti convenuti; (già v'era intelligenze: tutte cose preparate) si misero insieme; e ricominciarono quella bella storia di girare di via in via, gridando, per far popolo. Sapete ch'egli è come quando si scopa, con riverenza, la casa; il mucchio della spazzatura ingrossa quanto più va innanzi. Quando parve loro d'esser popolo abbastanza, s'avviarono verso la casa del signor vicario di provisione; come se non bastasse delle tirannie che gli hanno fatte ieri: ad un signore di quel carattere! oh che birboni! E la roba che dicevano contro di lui! Tutte invenzioni: un signor dabbene, puntuale; ed io lo posso dire che son tutto sua cosa, e lo servo di panni per le livree della famiglia. S'incamminarono dunque verso quella casa: bisognava vedere che canaglia, che facce: figuratevi che son passati dinanzi alla mia bottega: facce che… i giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivano da quelle bocche! da turarsene gli orecchi, se non fosse stato che non tornava conto di farsi scorgere. Andavano dunque colla buon'intenzione di dare il sacco; ma…» E qui, levata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise la punta del pollice alla punta del naso. «Ma?» dissero forse tutti gli ascoltatori. «Ma,» continuò il mercante, «trovarono sbarrata la via di travi e di carri, e dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, cogli archibugi spianati, e i calci appoggiati ai mustacchi. Quando videro questa cerimonia… Che cosa avreste fatto voi altri?» «Tornare indietro.» «Sicuro; e così fecero. Ma vedete un po' se non era il demonio che li portava. Son lì sul Cordusio, vedono lì quel forno che fin da ieri avevano voluto saccheggiare: e che cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori; v'era dei cavalieri, e fior di cavalieri, a curare che tutto andasse con buon ordine; e costoro, (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi vi era chi soffiava lor negli orecchi) costoro dentro a furia; piglia tu, che piglio anch'io: in un batter d'occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacca, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sossopra.» «E i micheletti?» «I micheletti avevano la casa del vicario da guardare: non si può mica cantare e portar la croce. Fu un batter d'occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che v'era da godere fu portato via. E poi torna in campo quel bell'avviamento di ieri, di strascinare il resto in sulla piazza, e di fare un falò. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, dite un po' che bella proposta mise in campo.» «Che?» «Che? di fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dare il fuoco al mucchio e alla casa insieme. Detto fatto…» «V'han dato fuoco?» «Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe una inspirazione del cielo. Corse su nelle stanze, cercò d'un Crocifisso, lo trovò, lo appese all'archetto d'una finestra, tolse da capo d'un letto due candele benedette, le accese, e le collocò sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifisso. La gente guarda in su. In un Milano, bisogna dirla, v'è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sè. La più parte voglio dire; v'era bene dei diavoli che, per rubare, avrebber dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere, dovettero torsene giù, e star cheti. Indovinate mo chi sopravvenne. Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale; e monsignor arciprete cominciò a predicare da una parte, e monsignor penitenziere da un'altra, e poi altri di qua e di là: ma, brava gente; ma che cosa volete fare?, ma è questo l'esempio che date ai vostri figliuoli? ma tornate a casa; ma avrete il pane a buon mercato; ma andate a vedere, che la meta è affissa su pei canti.» «Era vero?» «Come! se era vero? Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a dir su delle fandonie?» «E la gente che cosa fece?» «A poco a poco se ne andarono; corsero ai canti; e, chi sapeva leggere, la c'era proprio la meta. Dite un po': il pane d'un soldo, otto once di peso.» «Che bazza!» «La vigna è bella; pur che la duri. Sapete quanta farina hanno mandata male tra ieri e stamattina? Da mantenerne il ducato per due mesi.» «E per noi di fuori non s'è fatta nessuna legge buona?» «Quel che s'è fatto per Milano, è tutto a spese della città. Non so che dirvi: per voi altri sarà quel che Dio vorrà. A buon conto i fracassi son finiti; perchè, non vi ho detto tutto; ora viene il buono.» «Che c'è altro?» «C'è che, ier sera o stamattina che sia, sono stati agguantati molti dei capi; e subito si è saputo che quattro saranno impiccati. Appena cominciò a correr questa voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non rischiare d'essere il numero cinque. Milano, quand'io ne sono uscito, pareva un convento di frati.» «Gl'impiccheranno mo da vero?» «Senza fallo, e presto,» rispose il mercante. «E la gente che farà?» chiese ancora colui che aveva fatta l'altra domanda. «La gente anderà a vedere,» disse il mercante. «Avevano tanta voglia di veder morire un cristiano all'aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al signor vicario di provisione. In quel cambio avranno quattro ghiottoni, serviti con tutte le formalità, accompagnati dai cappuccini, e dai confratelli della buona morte: e gente che lo ha meritato. È una providenza, vedete; era una cosa necessaria. Cominciavano già a prendere il vezzo d'entrar nelle botteghe, e di servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane sarebbe venuta la volta del vino, e così di mano in mano… Pensate se coloro volevano dismettere una usanza così comoda, di loro spontanea volontà. E vi so dir io che per un galantuomo che ha bottega aperta era un pensiere poco allegro.» «Sicuro,» disse uno degli ascoltatori. «Sicuro,» ripeterono gli altri in coro. «E,» continuò il mercante, forbendosi la barba col mantile, «l'era ordita di lunga mano: c'era una lega, sapete?» «C'era una lega?» «C'era una lega. Tutte cabale fatte dai navarrini, da quel cardinale là di Francia, sapete, che ha un certo nome mezzo turco, e che ogni giorno ne pensa una nuova per fare un qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma sopra tutto tende a far qualche tiro a Milano; perchè capisce bene, il furbo, che qui sta la forza del re.» «Già.» «Volete vederne la prova? Chi ha fatto il più gran chiasso erano forestieri; andavano in volta facce, che in Milano non s'erano mai più vedute. Anzi mi dimenticava di dirvene una che m'è stata data per sicura. La giustizia aveva acchiappato uno in un'osteria…» Renzo, il quale non perdeva un ette di quel discorso, al tocco di questa corda, fu colto da un brivido, e diè un guizzo, prima che potesse pensare a contenersi. Nessuno però se ne avvide; e il dicitore, senza interrompere d'un istante il racconto, aveva proseguito: «uno che non si sa bene ancora da che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, né che razza d'uomo si fosse; ma certo era uno dei capi. Già ieri, nel forte del baccano, aveva fatto il diavolo; e poi non contento di ciò, s'era messo a predicare e a proporre, così una galanteria: che si ammazzassero tutti i signori. Furfantone! Chi farebbe vivere la povera gente, quando i signori fossero ammazzati? La giustizia che lo aveva appostato, gli mise le unghie addosso; gli si trovò un gran fascio di lettere; e lo menavano in prigione; ma che? i suoi compagni che facevano la guardia intorno all'osteria, vennero in gran forza, e lo liberarono, il manigoldo.» «E che n'è avvenuto?» «Non si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: son gente che non ha casa nè tetto, e da per tutto trovano da alloggiare e da rintanarsi: però finchè il diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando se lo pensano meno; perchè, quando la pera è matura, convien ch'ella caschi. Per ora si sa di sicuro che le lettere sono rimaste in mano della giustizia, e che v'è descritta tutta la cabala; e si dice che ne andrà di mezzo molta gente. Tal sia di loro; che hanno gettato sossopra mezzo Milano, e volevano anche far peggio. Dicono che i fornai sono birbi. Lo so anch'io; ma bisogna impiccarli per via di giustizia. C'è del grano nascosto. Chi non lo sa? Ma tocca a chi comanda di tener buone spie, e andarlo a disotterrare, e far ballar per aria gli ammassatori in compagnia de' fornai. E se chi comanda non fa niente, tocca alla città di ricorre, rè; e se non danno retta alla prima, ricorrere ancora; chè a forza di ricorrere si ottiene; e non metter su un'usanza così scelerata d'entrare a furore nelle botteghe e nei fondachi a far bottino.» A Renzo quel poco mangiare era tornato in tossico. Gli pareva mill'anni d'esser fuori e lontano da quell'osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva detto a sè stesso: andiamo, andiamo. Ma quella paura di non dar sospetto, cresciuta allora oltremodo e fatta tiranna di tutti i suoi pensieri, lo aveva tenuto altrettante inchiodato in su la panca. In quella perplessità, pensò che il ciarlone doveva poi finirla di parlare di lui, e concluse seco stesso di muoversi tosto che sentisse appiccato un altro discorso. «E per questo,» disse uno della brigata, «io che so come vanno queste faccende, e che nei tumulti i galantuomini non vi stanno bene, non mi sono lasciato vincere dalla curiosità, e sono rimasto quieto a casa mia.» «E io, mi son mosso?» disse un altro. «Io?» soggiunse un terzo «se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato imperfetto qualunque negozio, e sarei tornato subito a casa. Ho moglie e figli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono.» A questo punto l'oste, che era stato anch'egli a udire, andò verso l'altro capo del desco, per vedere che cosa faceva quel forestiere. Renzo colse il bello, chiamò l'oste a sè con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare, quantunque le acque fosser basse assai; e senza fare altro motto, andò in linea retta verso l'uscio di strada, passò la soglia, guardò bene a non tornare dalla parte per la quale era venuto, e si mise nella opposta, a guida della Providenza. Basta sovente una voglia per non lasciar aver bene un uomo; pensate poi due alla volta, l'una in guerra coll'altra. Il povero Renzo ne aveva da molte ore due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano cresciuta a dismisura l'una e l'altra a un colpo. Dunque la sua avventura aveva fatto romore, dunque v'era impegno di mettergli le mani addosso: chi sa quanti birri erano in campo per dargli la caccia! quali ordini erano stati spediti di vigilare nei paesi, su le osterie, per le strade! Rifletteva bensì che due soli finalmente erano i birri che lo conoscessero, e che il nome non lo portava scritto in sulla fronte; ma gli tornavano a mente cento storie che aveva intese di fuggiaschi colti e scoperti per vie strane, riconosciuti all'andare, all'aria sospettosa, ad altri segnali impensati: tutto gli faceva ombra. Quantunque, al momento ch'egli usciva di Gorgonzola, battessero i tocchi dell'avemaria, e le tenebre che venivano innanzi diminuissero sempre più quei pericoli, pure egli prese a malincuore la strada maestra, e si propose di entrare nel primo viottolo che mostrasse tirar dalla parte a cui gli premeva di riuscire. Sul principio incontrava qualche viandante; ma pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe cuore di abbordarne nessuno, per pigliar lingua. – Ha detto sei miglia, colui, – pensava. – Se andando per tragetti e per viottoli, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte le altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo certamente, dunque vo inverso l'Adda. Andare, andare, tosto o tardi, vi arriverò. L'Adda ha buona voce; e quando le sia vicino, non ho più bisogno di chi me la insegni. Se qualche barca c'è, da passare, passo subito; altrimenti mi fermerò fino a domattina, in un campo, sur una pianta, come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione. – Ben presto vide aprirsi una stradetta a mancina; e vi si cacciò. A quell'ora, se si fosse abbattuto in qualcheduno, non si sarebbe più fatto schivo di domandare; ma non vi s'udiva pedata d'uomo vivente. Andava dunque a guida della via, e pensava. – Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei compagni che mi stavano vano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a riscontrarmi muso a muso, con quel mercante, di là dall'Adda, (ah quando l'avrò passata quest'Adda benedetta!) e fermarlo, e domandargli con comodo dove abbia pescate tutte quelle belle notizie. Sappiate mo, il mio caro signore, che la cosa e andata così e così, e che il diavolo ch'io ho fatto è stato di aiutare Ferrer, come se fosse stato un mio fratello; sappiate mo che quei birboni che, a sentir voi, erano i miei amici, perchè un tratto io dissi una parola da buon cristiano, mi vollero fare un brutto gioco; sappiate che, intanto che voi stavate a guardare la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le coste, per salvare il vostro signor vicario di provisione, che non l'ho mai visto nè conosciuto. Aspetta ch'io mi muova un'altra volta per aiutar signori… È vero che bisogna farlo per l'anima: son prossimo anch'essi. E quel gran fascio di lettere, dove c'era tutta la cabala, e che adesso è in mano della giustizia, come voi sapete di sicuro; che sì ch'io ve lo fo comparire qui, senza l'aiuto del diavolo? Avreste curiosità di vederlo quel fascio? Eccolo qui… Una lettera sola?… Signor sì, una lettera sola; e questa lettera, se lo volete sapere, l'ha scritta un religioso che vi può insegnar la dottrina quando che sia, un religioso, che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra; e la è scritta, questa lettera, come vedete, vorrei dirgli, a un altro religioso, un uomo anch'egli… Vedete mo quali sono i furfanti miei amici. Oh, imparate un po' a parlare un'altra volta; massime quando si tratta del prossimo. – Ma dopo qualche tempo, questi pensieri ed altri consimili dieder luogo affatto: le circostanze presenti occupavano tutte le facoltà del povero pellegrino. Il sospetto dell'essere inseguito o scoperto, che aveva tanto amareggiato il viaggio diurno, non gli dava ormai più fastidio; ma quante cose rendevan questo più noioso d'assai! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa; tirava una brezzolina sorda, eguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora in dosso quegli stessi abiti, che s'era messi per andare un tratto a nozze, e tornar poi tosto trionfante a casa, pochi passi discosto; e ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell' andare alla ventura, cercando, come si dice, a naso, un luogo di riposo e di sicurezza. Quando s'abbatteva a passare per qualche paese, andava cheto cheto; però guardando se qualche porta fosse ancora aperta; ma non vide mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata di finestra. Nella via fuor dell'abitato, si soffermava a ogni tanto, stava cogli orecchi levati, se sentisse quella benedetta voce dell'Adda; ma invano. Altre voci non sentiva che un uggiolar di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l'aria, querulo a un tempo e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle, l'uggiolare si cangiava in un latrar concitato, iracondo: al passar dinanzi alla porta, udiva, vedeva quasi, il bestione col muso al combaciamento delle imposte, addoppiar gli urli: il che gli faceva andar via la tentazione di bussare e di chieder ricovero. E fors'anche, se cani non vi fossero stati, non gliene avrebbe dato il cuore. – Chi è là? – pensava egli: – che volete a quest'ora? Come siete venuto qui? Fatevi conoscere. Non c'è osterie da albergare? Ecco quello che mi domanderanno, al meglio che possa andare, se picchio: quand'anche non ci dorma qualche spauroso che a buon conto si metta a gridare: aiuto! al ladro! Bisogna subito aver qualche cosa di netto da rispondere: e che cosa ho da rispondere io? Chi sente un romore la notte, non gli viene in mente altro che ladri, malviventi, trappole: non si pensa mai che un galantuomo possa trovarsi attorno di notte, se non è un cavaliere in carrozza. – Allora riserbava quel partito all'estrema necessità, e tirava innanzi, pur colla speranza di scoprire almeno l'Adda, se non passarla, in quella notte; e non dovere andare alla cerca di giorno chiaro. Innanzi e innanzi; giùnse dove la campagna colta moriva in una landa di felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di fiume vicino, e si inoltrò per quella, seguendo il sentiero che la trascorreva. Fatti pochi passi, ristette ad origliare; ma invano. La noia del cammino veniva cresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più nè un gelso, nè una vite, nè altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi gli facessero una mezza compagnia. Pure andò innanzi; e perchè nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo da cento storie udite, egli per discacciarle o per acquetarle, recitava, camminando, e ripeteva preghiere pei morti. A poco a poco pervenne fra macchie più alte, di spini, di prugnoli, di querciuoli, di marruche. Procedendo tuttavia, e affrettando, con più impazienza che alacrità, cominciò a veder fra le macchie qualche albero sparso; e pur procedendo, sempre a guida dello stesso sentiero, s'accorse d'entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a progredire; ma lo vinse, e di mala voglia inoltrò. Più inoltrava, più la mala voglia cresceva, più ogni cosa gli recava fastidio. Le piante che affisava di lontano, gli rendevano aspetti strani, deformi, mirabili; gli spiaceva l'ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato dalla luna; lo stesso scrosciar delle secche foglie, mosse e calpeste dalle sue pedate, aveva pel suo orecchio non so che di odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo sembrava che penassero a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna per la fronte e per le gote, se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e aggrinzarle, e penetrar più acuta nell'ossa affralite e spegnervi quell'ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quel rincrescimento, quell'orrore indefinito con cui l'animo combatteva da qualche tempo, parve soverchiarlo subitamente. Era per perdersi affatto; ma atterrito più che d'ogni altra cosa del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; e risolveva d'uscir tosto di quivi per la via già percorsa, d'andar dritto all'ultimo paese per cui era passato, di tornar fra gli uomini e di cercar quivi ricovero, anche all'osteria. Or mentre così stava, sospeso il fruscìo dei piedi nel fogliame, tutto tacendo d'intorno a lui, un romore gli venne all'orecchio, un mormorìo, un mormorìo d'acque correnti. Bada; s'accerta; esclama: «è l'Adda!» Fu il ritrovamento d'un amico, d'un fratello, d'un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia dei pensieri, e svanire in gran parte quella scurità e gravità delle cose; e non esitò ad internarsi vie più nel bosco, dietro all'amico romore. Giunse in breve alla estremità del piano, sull'orlo d'una ripa profonda; e traguardando per le macchie che tutta la rivestivano, vide luccicare al basso l'acqua scorrevole. Alzando poi lo sguardo, scerse il vasto piano dell'altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una grande macchia biancastra, in che gli parve di distinguere una città, Bergamo sicuramente. Scese un po' sul pendìo, e separando e diramando con mani e braccia il prunaio, guardò giù, se qualche barchetta si movesse sul fiume, ascoltò se udisse un batter di remi; ma non vide nè intese nulla. Se fosse stato qualche cosa di meno dell'Adda, Renzo scendeva allora allora per tentarne il guado; ma egli sapeva bene che con l'Adda non era da far così a sicurtà. Però si pose a consultar seco stesso molto pacatamente sul partito da prendere. Arrampicarsi sur una pianta e star quivi aspettando l'aurora, per forse sei ore ch'ella poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, in quell'abito, v'era più del bisogno per assiderare. Far le volte innanzi e indietro, per esercitarsi in tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contra il rigore del sereno, egli era un troppo richiedere da quelle povere gambe che già avevano fatto più del loro dovere. Gli sovvenne in buon punto d'aver veduto in uno dei campi più vicini alla landa incolta, un cascinotto. Così i contadini della pianura milanese chiamano certe lor capannucce coperte di paglia, costrutte di tronchi e di ramatelle impastate e ristoppate di loto, dove usano l'estate depositare il ricolto, e ripararsi la notte a guardarlo: nell'altre stagioni rimangono abbandonati. Lo disegnò tosto per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la landa; giunto nel lavorato, rivide il cascinotto, e v'andò. Una impostaccia tarlata e sconnessa era rabbattuta, senza chiave nè catenaccio, sull'usciuolo; Renzo la trasse a sè, entrò; vide sospeso per aria e sostenuto da ritorte di rami un graticcio, a foggia di hamac; ma non si curò di salirvi. Vide un po' di paglia sul terreno; e pensò che anche quivi un sonno sarebbe ben saporito. Prima però di sdraiarsi sul giaciglio che la Providenza gli aveva apparecchiato, vi s'inginocchiò a ringraziarla di quel beneficio, e di tutta l'assistenza che ne aveva avuta in quella terribile giornata. Disse poi le sue orazioni consuete; e terminatele, domandò perdono a Domeneddio dell'averle intralasciate la sera antecedente; anzi, com'egli disse, d'essere andato a dormire come un cane, e peggio. – E per questo, – soggiunse poi tra sè, appoggiando le mani sullo stramazzo, e di ginocchioni mettendosi a giacere: – per questo, alla mattina, m'è toccata poi quella bella svegliata. – Raccolse poi tutta la paglia che sopravanzava all'intorno, e se l'assettò in dosso, facendosene alla meglio una specie di coltre, per temperare il freddo, che anche là entro si faceva sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, colla intenzione di fare un buon sonno, parendogli di averlo comperato in quella giornata anche più caro del dovere. Ma appena ebbe chiuso occhio, cominciò nella sua memoria o nella fantasia (il luogo preciso non lo saprei indicare) cominciò, dico, un andare e venire di gente così affollato, così incessante, che gli fece andar lontano l'idea del sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l'oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell'osteria, tutta quella turba delle vie, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: e di tanti, nessuno che non portasse rimembranze di sventure, o di rancore. Tre sole immagini gli venivano innanzi scevre d'ogni amaro ricordo, monde d'ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto dissimili al certo, ma strettamente collegate nel cuore del giovane: una treccia nera e una barba bianca. Ma la consolazione che pur provava nel fermare sovra di esse il pensiero, era tutt'altro che pura e tranquilla. Rappresentandosi il buon frate, egli sentiva più vivamente la vergogna delle scappate, della turpe intemperanza, del bel conto tenuto dei paterni consigli di lui; e contemplando l'immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò ch'egli sentisse: il lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, non la dimenticava già egli, quella Agnese, che lo aveva pure scelto, che lo aveva già considerato come una cosa colla sua unica figliuola, e prima di ricevere da lui il titolo di madre ne aveva assunto il linguaggio e il cuore, e dimostrata colle opere la sollecitudine. Ma era un dolore di più, e non il meno pugnente, quel pensiero, che in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanta benevolenza, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga, incerta dell'avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da cui aveva sperato il riposo e la giocondità degli ultimi suoi anni. Che notte, povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giorno! E per giugnere a qual domani, a qual serie di giorni! – Quel che Dio vuole, – rispondeva egli ai pensieri che più imperversavano: – quel che Dio vuole. Egli sa quello che fa: c'è anche per noi. Vada tutto in penitenza de' miei peccati. Lucia è tanto buona! Domeneddio non la vorrà poi far patire un pezzo, un pezzo, un pezzo! – Tra questi pensieri, e disperando ormai d'appiccar sonno, e divenendogli il brivido ognor più noioso, tal che a quando a quando gli conveniva tremare e battere i denti senza volerlo, sospirava l'avvicinar del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrere dell'ore. Dico misurava, perchè, ogni mezz'ora, udiva in quel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d'un orologio: m'immagino che dovesse essere quello di Trezzo. E la prima volta che quello scocco gli venne all'orecchio, così inaspettato, senza alcuna idea del donde potesse partire, gli portò nell'animo non so che di misterioso e di solenne, il senso quasi d'un avvertimento che venisse da persona non vista, con una voce sconosciuta. Quando finalmente quel martello ebbe battuto undici colpi, che era l'ora disegnata da Renzo alla levata, si levò mezzo intirizzito, si pose ginocchioni, recitò, e con più fervore del solito, le sue orazioni del mattino, si rizzò in piede, si prostese, stirando le gambe e le braccia, dimenò la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra, che ognuno pareva far da sè, soffiò nell'una, poi nell'altra mano, le fregò, aperse l'uscio del cascinotto; e la prima cosa, diede una girata d'occhi all'intorno, se nessuno vi fosse. Nessuno v'essendo, si volse a cercar coll'occhio il sentiero che aveva percorso la sera antecedente; lo riconobbe tosto, più chiaro e più distinto dell'immagine che glien'era rimasta; e si mise per quello. Il cielo annunziava una bella giornata: la luna in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d'un bigio ceruleo, che giù giù verso l'oriente, s'andava sfumando leggiermente in un giallo rosato. Più giù presso l'orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, più tosto azzurre che brune, le più basse orlate al di sotto d'una striscia quasi di fuoco, che ad ora ad ora si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici per così dire, si andavan lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello, così splendido, così in pace. Se Renzo si fosse quivi trovato per suo divertimento, certo avrebbe guardato in su e ammirato quell'albeggiare così diverso da quello che era uso vedere ne' suoi monti; ma guardava alla terrà, e ne andava ratto, sì per acquistar caldo, sì per giugner presto. Passa i campi, passa lo scopeto, passa le macchie; attraversa la boscaglia, guardando intorno, e ripensando con una specie di compatimento al raccapriccio che vi aveva provato poche ore prima; perviene al ciglio della ripa, traguarda giù; e tra le fratte vede una barchetta di pescatore, che veniva lentamente a ritroso della corrente, radendo quella sponda. Scende tosto per la più corta, tra i pruni; è sulla riva; da una voce leggiera leggiera al pescatore; e colla intenzione di parer chiedergli un servigio di poca importanza, ma, senza avvedersene, con un tal modo mezzo supplichevole, gli accenna che approdi. Il pescatore gira uno sguardo pel lungo della riva, guata attentamente dinanzi lungo l'acqua che viene, si volge a guatare indietro lungo l'acqua che va, e poi dirizza la prora incontro a Renzo, e approda. Renzo che stava sull'ultimo labbro della riva, quasi con un piede nell'acqua, afferra la punta della prora, e salta nel battello. «In cortesia, però col pagamento,» dice egli, «vorrei passare un momento dall'altra parte.» Il pescatore lo aveva indovinato, e già volgeva la prora a quella volta. Renzo, scorto sul fondo della barca un altro remo, si china, e lo afferra. «Piano, piano,» disse il padrone; ma al veder poi con che garbo il giovane aveva dato di piglio allo stromento, e si disponeva a maneggiarlo, «ah, ah,» soggiunse: «siete del mestiere.» «Un pochettino,» rispose Renzo, e vi die dentro con un vigore e con una maestria più che da dilettante. E sbracciandosi tuttavia, sospingeva tratto tratto un'occhiata ombrosa alla riva da cui si allontanavano, e poi una ansiosa a quella dove erano rivolti, e si crucciava di dovervi andare per la lunga; chè la corrente era ivi troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo, parte secondando il filo dell'acqua, doveva fare un tragitto diagonale. Come accade in tutte le faccende un po' scure e ingarbugliate, che le difficoltà alla prima si presentino all'ingrosso, e nella esecuzione poi dieno in fuori per minuto, Renzo, or che l'Adda era, si può dir, valicata, sentiva molta inquietudine del non saper di certo se quivi ella fosse confine di stato, o se superato quell'ostacolo, un altro gliene rimanesse da superare. Onde, fatto rivolgere a sè con una voce il pescatore, e accennando col capo a quella macchia biancastra che aveva raffigurata la notte antecedente, e che allora gli appariva ben più distinta, «è egli Bergamo,» disse, «quel paese?» «La città di Bergamo,» rispose il pescatore. «E quella riva lì, è bergamasca?» «Terra di san Marco.» «Viva san Marco!» sclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla. Toccano finalmente quella riva; Renzo vi si getta; ringrazia Dio in cuore, e poi colla bocca il barcaiuolo; mette le mani in tasca, cava una berlinga, che, attese le circostanze, non fu un picciolo sproprio, e la porge al galantuomo; il quale, data ancora una occhiata alla riva milanese e al fiume di sopra e di sotto, stese la mano, pigliò il dono, lo ripose, poi strinse le labbra, e per soprappiù vi mise l'indice in croce, con una gran significazione di tutta la cera; e disse poi: «buon viaggio», e se ne tornò. Perchè la così pronta e discreta cortesia di costui verso uno sconosciuto non faccia troppa maraviglia al lettore, dobbiamo informarlo che quell'uomo, richiesto sovente d'un simile servigio da frodatori e da banditi, era avvezzo a prestarlo, non tanto per amore del poco ed incerto guadagno che gliene poteva venire, quanto per non farsi dei nemici in quelle classi. Lo prestava, dico, ogni volta che potesse assicurarsi di non esser veduto da gabellieri, da birri, da esploratori. Così, senza voler gran fatto meglio ai primi che ai secondi, cercava di soddisfare a tutti, con quella imparzialità, alla quale s'acconcia per lo più chi è obbligato a trattar con cert'uni, e soggetto a render conto a certi altri. Renzo si fermò un qualche istante sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. – Ah! ne son proprio fuori! – fu il suo primo pensiero. – Sta lì maladetto paese, – fu il secondo, l'addio alla patria. Ma il terzo corse a chi egli lasciava in quel paese. Allora incrocicchiò le braccia sul petto, mise un sospiro, chinò gli occhi sull'acqua che gli scorreva appiedi, e pensò: – è passata sotto il ponte! – Così, all'uso dei suoi paesani, chiamava egli per antonomasia quello di Lecco. – Ah mondo infame! Basta; quel che Dio vuole. – Volse le spalle a quei tristi oggetti, e si avviò, prendendo per punto di mira la macchia biancastra sul pendìo del monte, finchè trovasse da cui farsi segnar più certamente il cammino. E bisognava vedere con che disinvoltura s'accostava ai viandanti, e senza tante esitazioni, senza tanti inviluppi di parole, proferiva il nome del paese dove abitava quel suo cugino, per chiederne la strada. Dal primo che gliela indicò egli intese che gli rimanevano ancor nove miglia di viaggio. Quel viaggio non fu lieto. Senza parlare delle cure che Renzo portava con sè, il suo occhio veniva ad ogni momento contristato da oggetti dolorosi, pei quali dovette accorgersi che ritroverebbe nel paese in cui s'inoltrava la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la via, e più ancora nelle terre e nei borghi, vedeva spesseggiar mendichi, mendichi i più per circostanza e non per mestiere, che mostravano la miseria più nel volto che nell'abito: contadini, montanari, artigiani, famiglie intere; e un misto ronzìo di supplicazioni, di querele e di vagiti. Questa vista, oltre la pietà dolorosa che destava nel suo cuore, lo metteva anche in pensiero dei casi suoi. – Chi sa, – andava meditando – se trovo da far bene? se c'è lavoro, come negli anni passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figliuolo, ha fatto danari, mi ha invitato tante volte; non mi abbandonerà. E poi, la Providenza m'ha aiutato finora, m'aiuterà anche per l'avvenire. – Intanto l'appetito, risvegliato già da qualche tempo, andava crescendo in ragione del cammino; e quantunque Renzo, quando cominciò a porvi mente sul serio, sentisse di poter reggere senza gran disagio fino al termine, che non era ormai discosto più che due miglia, pure fece riflessione che non istarebbe bene l'andare innanzi al cugino, come un pitocco, e dirgli per primo saluto: dammi da mangiare. Cavò di tasca tutte le sue ricchezze, le fece scorrer col dito sur una palma, raccolse il conto. Non era conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però v'era abbondantemente da fare un pastetto. Entrò in un'osteria a rifocillarsi; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo. All'uscire, vide presso alla porta, giacenti nella via, che quasi vi dava dentro col piede, se non avesse posto mente, due donne, una attempata, un'altra più fresca, con un bambinello, che dopo aver succhiata invano l'una e l'altra mammella, traeva guai; tutti del colore della morte: e in piede presso a loro un uomo, a cui nel volto e nelle membra si potevano ancora scorgere i segni d'un'antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutti e tre tesero la mano verso colui che usciva col pie franco e coll'aspetto ringagliardito: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera? «La c'è la Providenza!» disse Renzo; e cacciata in fretta la mano in tasca, la spazzò di quei pochi soldi, li pose nella mano che vide più vicina, e riprese la via. La refezione e l'opera buona (giacchè siam composti d'anima e di corpo) avevano rimbalditi e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall'essersi così spogliato degli ultimi danari gli era venuto più di confidenza per l'avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci tanti. Perchè, se a sostenere in quel giorno quei tapini che venivano meno in sulla via, la Providenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d'un estraneo, fuggiasco, lontano da casa sua, incerto anch'egli del come vivrebbe; come pensare ch'ella volesse lasciar poi in secco colui del quale s'era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sè stessa, così efficace, così abbandonevole? Questo era sottosopra il pensiero del giovane; però men chiaro ancora di quello ch'io l'abbia saputo ritrarre in parole. Nel restante del cammino, ritornando colla mente sopra le circostanze e i contingenti che gli eran paruti più scuri e più impacciati, tutto gli si agevolava. Il caro e la miseria avevan poi da finire: tutti gli anni si miete: intanto aveva il cugino Bortolo e la propria abilità: per aiuto di costa aveva in casa una poca scorta di danari, che si farebbe tosto mandare. Con quelli, alla peggio, vivrebbe dì per dì, sparagnando, fino al buon tempo. – Ecco poi tornato finalmente il buon tempo, – proseguiva Renzo nella sua fantasia: – rinasce la furia dei lavori: i padroni fanno a gara per avere degli operai milanesi, che son quelli che sanno bene il mestiere; gli operai milanesi alzan la cresta; chi vuol gente abile, bisogna pagare; si guadagna da vivere, e da fare un po' di risparmio; si mette all'ordine una casetta e si fa scrivere alle donne che vengano… E poi, perchè aspettar tanto? Non è egli vero che con quella poca scorta avremmo vissuto di là anche quest'inverno? Così vivremo di qua. Dei curati ce n'è da per tutto. Vengono quelle due care donne: si fa casa. Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme! andar fino all'Adda in baroccio, e fare un pranzetto sulla riva, proprio sulla riva, e mostrare alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, lo spinaio per cui sono venuto giù, quel posto dove sono stato a guardare se v'era un battello. – Giunge al paese del cugino; all'entrare, anzi prima di porvi piede, distingue una casa alta alta, a più ordini di lunghe finestre le une sovrapposte all'altre, con di mezzo un più picciolo spazio che non si richiegga ad una divisione di piani; riconosce un filatoio, entra, chiede ad alta voce, fra il romore dell'acqua cadente e delle ruote, se abiti quivi Bortolo Castagneri. «Il signor Bortolo! Eccolo là.» – Il signor! buon segno, – pensa Renzo; vede il cugino, corre a lui. Quegli si volge, riconosce il giovane, che gli dice: «son qui, io». Un oh di sorpresa, un levar di braccia, un gittarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime accoglienze, Bortolo tira il nostro giovane lungi dallo strepito degli ordigni, e dagli occhi dei curiosi, in un'altra stanza, e gli dice: «ti vedo volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. Ti aveva invitato tante volte; mai non volesti venire; ora arrivi in un momento un po' impacciato.» «Come vuoi ch'io la dica, non sono venuto via di mia volontà,» disse. Renzo; e con la più gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la dolorosa storia. «Gli è un altro paio di maniche,» disse Bortolo. «Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto capitale di me; e io non ti abbandonerò. Veramente, ora non c'è ricerca d'operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e scorta ne ha. E, a dirtela, in gran parte lo deve a me, senza vantarmi: egli il capitale, ed io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum. Povera Lucia Mondella! Me la ricordo come se fosse da ieri: una buona ragazza! sempre la più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casetta… La vedo ancora quella casetta, fuori del paese, con un bel fico che sormontava il muro…» «No, no; non ne parliamo.» «Voglio dire che quando si passava da quella casetta, sempre si sentiva quell'aspo, che andava, che andava, che andava. E quel don Rodrigo! già anche al mio tempo, era su quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che veggio; fin che Dio gli lascia la briglia sul collo. Dunque, come io ti diceva, anche qui si patisce un po' la fame… E a proposito come stai d'appetito?» «Ho mangiato poco fa, in viaggio.» «E a danari, come stiamo?» Renzo stese l'una delle palme, e l'appressò alla bocca, e vi fe' scorrer sopra un picciol soffio. «Non fa nulla,» disse Bortolo: «ne ho io; e sta di buon animo, che presto presto, mutandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e ne avanzerai anche per te.» «Ho un po' di scorta a casa; e me li farò mandare.» «Va bene; e intanto fa conto di me. Dio m'ha dato del bene, perchè faccia del bene; e se non ne fo ai parenti ed amici, a chi ne farò?» «L'ho detto io della Providenza!» sclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino. «Dunque,» ripigliò questi, «in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po' matti coloro. Già ne era corsa la voce anche qui; ma voglio che mi racconti poi la cosa più per minuto. Eh, ne abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po' più di giudizio. La città ha comperate due mila some di frumento da un mercante che sta a Venezia: frumento che viene dalla Turchia; ma quando si tratta di mangiare, non la si guarda tanto nel sottile. Vedi mo che cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: per di qui non passa frumento. Che fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia un uomo che sa parlare. L'uomo è partito in fretta, s'è presentato al doge, e ha detto, che cosa era questa minchioneria? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare alle stampe. Che è avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il frumento; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E si è pensato anche al contado. Un altro brav'uomo ha fatto capire al senato che la gente qui di fuori aveva fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta a far pane. E poi, ho io a dirtela? Se non ci sarà pane, mangeremo companatico. Domeneddio m'ha dato del bene, come ti dico. Ora ti condurrò dal mio padrone: gli ho parlato di te tante volte; e ti farà buona cera. Un buon bergamascone all'antica, un uomo di cuor largo. Veramente ora non ti aspettava; ma quando saprà la storia… E poi degli operai sa tenerne conto, perchè la carestia passa, e il negozio dura. Ma prima di tutto bisogna ch'io t'avvisi d'una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano?» «Come ci chiamano?» «Ci chiamano baggiani.» «Non è mica un bel nome.» «Tanto fa: chi è nato su quel di Milano, e vuol vivere su quel di Bergamo, bisogna torselo in pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell'illustrissimo a un cavaliere.» «Lo diranno, m'immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.» «Figliuol mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto che tu possa viver qui. E’ si vorrebbe esser sempre col coltello alla mano: e quando, per un supposto, tu ne avessi ammazzati due, tre, quattro; verrebbe poi quegli che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunale di Dio, con tre o quattro omicidii addosso!» «E un milanese che abbia un po' di…» e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell'osteria della luna piena. «Voglio dire, uno che faccia bene il suo mestiere?» «Tutt'uno: qui è un baggiano anch'egli. Sai tu come dice il mio padrone, quando parla di me coi suoi amici? – Quel baggiano è stato la man del cielo pel mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impacciato. – L'è usanza così.» «L'è un'usanza sciocca. E a vedere quel che noi sappiam fare; chè finalmente chi ha portata qui quest'arte, e chi la fa andare siamo noi; possibile che non si sieno corretti?» «Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengono su; ma gli uomini fatti, non c'è rimedio; hanno preso quel vezzo, non lo mutano più. Che è poi finalmente? L'era ben altra cosa quelle galanterie che t'hanno fatte, e il di più che ti volevano fare i nostri cari compatriotti.» «Già, è vero: se non c'è altro male…» «Ora che sei persuaso di questo, tutto andrà bene. Vieni dal padrone; e coraggio.» Tutto in fatti andò bene, e tanto a seconda delle promesse di Bortolo, che crediamo inutile di farne particolar relazione. E fu veramente providenza; perchè la scorta che Renzo aveva lasciato in casa, vedremo or ora quanto fosse da farvi su fondamento. Quello stesso dì, 13 di novembre, giugne uno straordinario al sig. podestà di Lecco, e gli presenta un dispaccio del sig. capitano di giustizia, contenente un ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione per iscoprire se un certo giovane nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam, al suo paese, ignotum quale per l'appunto, verum in territorio Leuci: quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta maxima diligentia fieri poterit, d'averlo nelle mani; e legato di proposito, videlizet con buone manette, attesa la sperimentata insufficienza dei manichini pel nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e quivi lo ritenga sotto buona custodia, per farne con segna a chi sarà spedito a pigliarlo; e tanto nel caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii Tramaliini; et facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il preso e il lasciato, diligenter referatis. Il signor podestà, dopo essersi umanamente cerziorato, che il soggetto non era tornato in paese, fa venire a sè il console del villaggio; e a guida di lui, si porta alla casa indicata, con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi tien le chiavi non v'è, o non si lascia trovare. Si sconfiggono le serrature; si fa la debita diligenza, vale a dire che si procede come in una città presa d'assalto. La fama di quella spedizione corre immediatamente per tutto il contorno, giugne all'orecchio del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda il terzo e il quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d'un fatto così inaspettato; ma non ne ritrae altro che congetture in aria, e voci contraddittorie; e scrive tosto al padre Bonaventura dal quale fa conto di poter ricevere qualche notizia più precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò che possono sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una sciagura, una vergogna, un delitto: il paese è sossopra. A poco a poco si viene a sapere che Renzo è scappato alla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; si bucina che abbia fatto qualche cosa di grosso; ma la cosa poi non si sa dire, o si dice in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un giovane dabbene: i più presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l'un dell'altro, ch'ella è una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero rivale. Tanto è vero che, a giudicare per induzione, e senza la necessaria conoscenza dei fatti, si fa alle volte gran torto anche ai ribaldi. Ma noi, coi fatti alla mano, come si suoi dire, possiamo affermare, che se colui non aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se ella fosse opera sua, e ne trionfò coi suoi fidati, e principalmente col conte Attilio; Questi, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell'ora trovarsi già in Milano; ma al primo annunzio del bolli bolli che vi s'era levato, e della canaglia che vi andava in volta, in tutt'altra attitudine che di ricever bastoriate, aveva stimato bene d'indugiarsi fuori, fino a migliori notizie. Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragione di temere che alcuno di tanti che solo per impotenza stavano cheti, non pigliasse animo dalle circostanze, e giudicasse il momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga durata: l'ordine venuto da Milano della esecuzione da farsi contra Renzo dava già un indizio che le cose colà avevano ripreso l'andamento ordinario; le notizie positive che giunsero quasi ad un colpo, ne recarono la certezza. Il conte Attilio partì immediatamente, animando il cugino a persistere nell'impresa, a spuntare l'impegno, e promettendogli che dal canto suo egli porrebbe tosto mano a sbrigarlo del frate; al che il fortunato accidente del galuppo rivale doveva fare un gioco mirabile. Appena partito Attilio, giunse il Griso da Monza sano e salvo, e riferì al suo signore ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tale signora; e vi stava incantucciata, come se fosse una monaca anch'ella, non ponendo mai piede fuor della soglia, e alle funzioni di chiesa assistendo da un finestrino ingraticolato: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo inteso motivar non so che di sue avventure, e dir gran cose del suo volto, avrebbero voluto un tratto vedere come fosse fatto. Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o per dir meglio, rende più cattivo quello che già vi stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo disegno infiammavano sempre più la sua passione, quel misto di puntiglio, di rabbia, e d'infame talento, di che la sua passione era composta. Renzo assente, sfrattato, bandito, sì che ogni cosa diventava lecita contro di lui, e anche la sua promessa sposa poteva essere considerata in certo modo come roba di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse pigliarla per lei, e fare un romore da essere inteso anche lontano e in alto, l'arrabbiato frate, fra poco sarebbe probabilmente anch'egli fuor del caso di nuocere. Ed ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutte quelle facilità, le rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand'anche non vi fosse stata una principessa, era un osso troppo duro pei denti di un don Rodrigo; e per quanto egli girandolasse colla fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar verso nè via d'espugnarlo, nè a forza, nè per insidie. Fu quasi quasi per torsi giù dell'impresa; fu per risolversi di andare a Milano, prendendo una giravolta onde non passar pure da Monza; e a Milano gittarsi in mezzo agli amici e ai passatempi, per cacciare con pensieri tutto allegri quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici: piano un poco con questi amici. In vece d'una distrazione, egli poteva aspettarsi di trovare nella loro compagnia un ripicchiamento e un rinfacciamento incessante del suo dolore: perchè Attilio certamente avrebbe già pigliato la tromba, e messili tutti in aspettazione. Da ogni parte gli verrebbe chiesto novelle della montanara: bisognava render ragione. S'era voluto, s'era tentato; che s'era ottenuto? S'era preso un impegno: un impegno un po' ignobile a dir vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come si usciva da quest'impegno? Come? Smaccato da un villano e da un frate! Uh! E quando una buona sorte inaspettata aveva tolto di mezzo l'uno, e un abile amico l'altro, senza fatica del minchione, il minchione non aveva saputo valersi della congiuntura, e si ritraeva vilmente dall'impresa. Vi era di che non levar mai più il viso fra galantuomini, o avere ad ogni istante le mani su l'elsa. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese, dove, lasciando stare i ricordi incessanti e pungenti della passione, si porterebbe lo sfregio d'un colpo fallito? dove sarebbe cresciuto in un punto l'odio publico, e scemata la riputazione del potere? dove sul viso d'ogni mascalzone, anche in mezzo agl'inchini, si potrebbe leggere un amaro: l'hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell'iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma ciò non vuol dire ch'ella sia comoda: ha i suoi buoni intoppi e i suoi triboli; è noiosa la sua parte, e faticosa, benchè vada all'ingiù. A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, nè dare addietro, nè fermarsi, e innanzi non poteva andare da per sé, veniva bene in mente un modo per cui la cosa diverrebbe riuscibile: ed era di prender per compagno e per aiuto un tale, le cui mani giugnevano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà delle imprese era spesso uno stimolo a pigliarle sopra di sè. Ma questo partito aveva pure i suoi inconvenienti e i suoi pericoli, tanto più gravi quanto meno si potevano calcolare innanzi tratto; giacchè nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove andrebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell'uomo, potente ausiliario certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere. Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo fra un sì e un no, entrambi peggio che fastidiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale dava avviso che la trama era bene avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che un bel mattino s'intese che il padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico. Questo successo così pieno e pronto, la lettera di Attilio che faceva un gran coraggio e minacciava di gran beffe, fecero inclinare sempre più don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l'ultima spinta fu la notizia inaspettata che Agnese, non la dimenticava già egli, quella Agnese era tornata a casa sua; un impedimento di meno attorno a Lucia. Rendiamo conto di questi due avvenimenti cominciando dall'ultimo. Le due povere donne s'erano appena posate e allogate nel loro ricovero, che si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran subuglio di Milano; e dietro alla nuova grande una serie infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ad ogni momento. La fattora, posta appunto tra la via e il monastero, aveva le notizie da dentro e da fuori, le raccoglieva a piene orecchie, e ne faceva parte alle ospiti. «Due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi prigione; gl'impiccheranno, parte dinanzi al forno delle grucce, parte a capo della contrada dove abita il vicario di provisione… Ehi, ehi, sentite questa! ne è scappato uno di Lecco o di quelle parti. Il nome non lo so; ma qualcheduno verrà che me lo saprà dire; per vedere se lo conoscete.» Questo annunzio, colla circostanza d'esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, apportò qualche inquietudine alle donne, e a Lucia principalmente; ma che fu quando la fattora venne a dir loro: «è proprio del vostro paese quel che se l'è battuta per non essere impiccato, un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete?» A Lucia che stava seduta, orlando non so che pannolino, fuggì il lavoro di mano; impallidì, e si mutò nel volto, di modo che la fattora se ne sarebbe avveduta certamente, se le fosse stata più presso. Ma ella era in piedi su la soglia con Agnese; la quale, pure conturbata, però non tanto, potè far viso fermo, e si sforzò di rispondere che in un picciolo paese ognuno conosce tutti, e che lo conosceva, e durava però fatica a credere che gli fosse intervenuta una cosa simile, perchè era un giovane quieto. Domandò poi se era certamente scappato, e dove. «Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che lo piglino ancora, può essere che sia in salvo; ma se c'incappa, il vostro giovine quieto…» Qui per buona sorte la fattora fu chiamata e partì; immaginatevi come rimanessero la madre e la figlia. Più d'un giorno dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale dubbiezza, a fantasticare le cagioni, i modi, le conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna nel suo sè, o sommessamente fra loro, quando potevano, quelle terribili parole. Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar di Agnese. Era un pescivendolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l'ordinario, a spacciar la sua merce; e il buon frate Cristoforo l'aveva pregato che, passando per Monza, desse una volta fino al monastero, salutasse le donne in suo nome, raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, le confortasse ad aver pazienza e a confidare in Dio, e ch'egli povero frate non si dimenticherebbe certamente di loro, e starebbe vigilando le opportunità di aiutarle, e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro arrivare sue notizie, per quel mezzo, o per un simigliante. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di nuovo e di accertato, se non l'esecuzione fattagli in casa, e le ricerche per averlo; ma insieme ch'erano riuscite tutte in vano, e si sapeva di sicuro ch'egli s'era posto in salvo su quel di Bergamo. Una tale certezza, e non occorrerebbe pur dirlo, fu un gran balsamo al dolore di Lucia: d'allora in poi le sue lagrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e un rendimento di grazie si trovava mescolato in tutte le sue preghiere. Gertrude la faceva venir sovente in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi nella ingenuità e nella dolcezza della poveretta, e nel sentirsi da lei ringraziare e benedire a ogni tratto. Le raccontava pure in confidenza una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per venir quivi a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia si andava cangiando in pietà. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegare ciò che v'era d'un po' strano nei modi della sua benefattrice; tanto più coll'aiuto di quella dottrina d'Agnese sui cervelli dei signori. Con tutto però che si sentisse portata a ricambiare la confidenza che Gertrude le mostrava, si guardò bene di parlarle dei suoi nuovi terrori, della nuova sciagura, di dirle chi fosse per lei quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandalo. Si schermiva anche a tutto potere dal rispondere alle inchieste curiose di quella su la storia antecedente alla promessa; ma qui non erano ragioni di prudenza. Era perchè alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi di tutte quelle che avea udite, e che credesse di poter udire dalla signora. In queste v'era oppressione, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevano nominare: nella sua c'era mescolato da per tutto un sentimento, una parola, che non le sembrava possibile di proferire parlando di sè, e alla quale non avrebbe mai trovato di sostituire una perifrasi che non le sembrasse svergognata: l'amore! Talvolta Gertrude era tentata d'indispettirsi di quelle ripulse; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche tanta fiducia! Talvolta forse, quel pudore così dilicato, così tenero, così ombroso, le spiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità di un pensiero, che le tornava ad ogni istante, contemplando Lucia: – a questa fo del bene. – Ed era il vero; perchè, oltre il ricovero, quei colloquii, quelle carezze familiari davano pur qualche conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorare di continuo; e pregava sempre che le si desse qualche cosa da fare: anche nel parlatorio portava sempre qualche lavorìo da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si ficcano da per tutto! agucchiando, agucchiando, mestiere al quale prima d'allora ella aveva poco atteso, le veniva ad ogni tratto nell'animo il suo aspo; e dietro all'aspo, quante cose! Il secondo giovedì, tornò quel messo o un altro, con saluti e incoraggiamenti del padre Cristoforo, e con nuova conferma dello scampo di Renzo. Notizie più positive intorno alla disavventura di questo, nessuna; perchè, come abbiam detto al lettore, il cappuccino le aveva sperate dal suo confratello di Milano, a cui l'aveva raccomandato; e questi rispose di non aver veduto nè lettera nè persona: che uno di fuori era ben venuto al convento a cercar di lui; ma che non lo avendo trovato in casa, se n'era andato, e non era più comparso. Il terzo giovedì, nessun messo: il che alle donne fu non solo privazione d'un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni picciola cosa a chi è afflitto e impacciato, una cagione d'inquietudine, di cento sospetti molesti. Già prima d'allora, Agnese aveva avuto in mente di fare una gita a casa; questa novità del non vedere l'ambasciatore promesso, la fece risolvere. A Lucia pareva strano assai di rimanere staccata dalla gonna fidata della madre; ma lo struggimento di risaper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell'asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deliberato fra loro che Agnese andrebbe il giorno vegnente ad aspettare su la strada il pescivendolo che doveva passar di quivi tornando da Milano; e gli chiederebbe in cortesia un posto sul carrettino per farsi condurre alle sue montagne. Lo trovò infatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data commissione per lei: il pescivendolo era stato tutto il giorno prima della partenza a pescare, e non aveva avuto nuova nè imbasciata del padre. La donna lo richiese di quella cortesia, e l'ottenne senza pregare: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non senza lagrime, promettendo di mandar subito novelle e di tornar presto; e partì. Il viaggio fu senza accidenti. Riposarono parte della notte in un albergo su la via, secondo il solito; si rimisero in cammino innanzi giorno; e di buon mattino giunsero a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò andare il suo conduttore con molti Dio ve ne renda merito; e giacchè era lì, volle, prima d'andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Tirò il campanello; chi venne ad aprire fu fra Galdino, quel delle noci. «Oh la mia donna, che buon vento?» «Vengo a cercare il padre Cristoforo.» «Il padre Cristoforo? Non c'è mica.» «Oh! starà molto a tornare?» «Ma…!» disse il frate, alzando le spalle, e avvallando nel cappuccio la testa rasa. «Dov'è andato?» «A Rimini.» «A?» «A Rimini.» «Dov'è questo sito?» «Eh eh eh!» rispose il frate, trinciando verticalmente l'aria con la mano distesa, per significare una grande distanza. «Ohimè me! Ma perchè è andato via così all'improvviso?» «Perchè così ha voluto il padre provinciale.» «E perchè mo l'hanno mandato via lui che faceva tanto bene qui? Oh povera me!» «Se i superiori dovessero render ragione degli ordini che danno, dove sarebbe l'obbedienza, la mia donna?» «Sì; ma questa è la mia rovina.» «Sapete che cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d'un buon predicatore; (ne abbiamo da per tutto, ma alle volte ci vuol quell'uomo fatto apposta) il padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Come anche si vede in effetto.» «Oh poveri noi! Quando è partito?» «Ieri l'altro.» «Ecco; se io ascoltava la mia inspirazione di venir via qualche giorno prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso?» «Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se pure lo sa anch'egli. Un nostro padre predicatore, quando ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercano di qua, li cercano di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo. Fate conto che a Rimini il padre Cristoforo faccia un gran romore col suo quaresimale: perchè, non predica sempre a braccio, come faceva qui per uso dei foresi: pei pulpiti delle città ha le sue belle prediche scritte; e fìor di roba. Va intorno la voce da quelle parti di questo gran predicatore; e lo possono domandare da… da che so io? E allora, bisogna darlo; perchè noi viviamo della carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo a tutto il mondo.» «Oh miseria! miseria!» sclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: «come ho da fare senza quell'uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina.» «Sentite, la mia donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ne abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di abilità, e che sanno trattare egualmente coi signori e coi poveri. Volete il padre Atanasio? Volete il padre Girolamo? Volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così mingherlino, con poca voce, e una barbetta misera, misera: non dico per predicare, perchè ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri è un uomo, sapete?» «Oh santa pazienza!» sclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e di stizza che si prova ad una esibizione in cui si trovi più buon volere che convenienza: «che cosa mi fa a me che uomo sia o non sia un altro, quando quel pover uomo che non c'è più era quegli che sapeva le nostre cose, e aveva fatti gli avviamenti per aiutarci?» «Allora, bisogna aver pazienza.» «Questo lo so,» rispose Agnese «scusate dell'incomodo.» «Niente, la mia donna: mi spiace per voi. E se vi risolvete di domandar qualcheduno dei nostri padri, il convento è qui che non si muove. Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell'olio.» «State sano,» disse Agnese; e si mosse alla volta del suo paesello, diserta, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse smarrito il suo bastone. Un po' meglio informati che fra Galdino, noi possiamo ora dire come andò veramente la cosa. Attilio, appena giunto a Milano, si portò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del consiglio-segreto. (Era una consulta composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo un d'essi, o venendo mutato, assumeva temporariamente il governo). Il conte zio, togato e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere al di fuori, non aveva suoi pari. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, un far d'occhi che esprimeva: non posso parlare, un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, più o meno, tornava in pro. Tanto che fino ad un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non v'è nulla; ma servono a mantener credito alla bottega. Quello del conte zio, che da gran tempo era sempre venuto crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per una occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte, dove, che accoglimento gli fosse fatto, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca lo aveva trattato con una degnazione particolare e ammesso alla sua confidenza, a segno di avergli una volta domandato in presenza, si può dire, di mezza la corte, come gli piacesse Madrid, e di avergli un'altra volta detto a quattr'occhi, nel vano di una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse nei dominii del re. Dopo fatti i proprii convenevoli col conte zio, e presentatigli i complimenti del cugino, Attilio, con un tal contegno serio, che sapeva pigliare a proposito, disse: «credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signor zio d'un affare che, se ella non ci mette la mano, può diventar serio, e portar conseguenze…» «Qualcuna delle sue, m'immagino.» «Per la verità, debbo dire che il torto non è dalla parte di Rodrigo: ma è riscaldato; e, come dico, altri che il signor zio non può…» «Vediamo, vediamo.» «V'è da quelle parti un frate cappuccino, che ha preso in urto mio cugino; e la cosa è a termine che…» «Quante volte non v'ho detto, all'uno e all'altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta bene il da fare che danno a chi dee… a cui tocca…» E qui soffiò. «Ma voi che potete scansarli…» «Signor zio, in questo è mio dovere di dirle che Rodrigo lo avrebbe scansato, se fosse stato possibile. E il frate che la vuole con lui, che ha preso a provocarlo in tutte le maniere…» «Che diavolo ha codesto frate con mio nipote?» «Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di pigliarsela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità… non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa.» «Capisco,» disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipinto dalla natura nella sua faccia velato poi e ricoperto, a molte mani, di politica, folgorò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere. «Ora, da qualche tempo,» continuò Attilio, «s'è fitto in capo questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa…» «S'è fitto in capo; s'è fìtto in capo; lo conosco anch'io il signor don Rodrigo; e ci bisogna altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie.» «Che Rodrigo, signor zio; possa aver fatto qualche scherzo verso quella creatura, incontrandola per via, non sarei lontano dal crederlo: è giovane, e finalmente non è cappuccino; ma queste son baie da non intrattenerne il signor zio: il serio è che il frate s'è messo a parlare di Rodrigo come si farebbe d'un mascalzone, cerca d'inzigargli contra tutto il paese…» «E gli altri frati?» «Non se ne impacciano, perchè lo conoscono per un cervello caldo, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma dall'altra parte questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e…» «M'immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.» «Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.» «Come? come?» «Perchè, e lo va dicendo egli, ci trova maggior gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perchè questi ha un protettor naturale di tanta autorità come vossignoria: e che egli se ne ride dei grandi e dei politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade, e che…» «Oh frate temerario! Come si chiama costui?» «Fra Cristoforo da***» disse Attilio; e il conte zio, tolta da un cassettino una vacchetta, soffiando, soffiando, vi scrisse quel povero nome. Intanto Attilio proseguiva: «è sempre stato di quell'umore costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e per rabbia di non poterli fare star tutti, ne ammazzò uno; di che, per iscansar la forca, si fece frate.» «Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo,» diceva il conte zio, soffiando tuttavia. «Ora poi,» continuava Attilio, «è più arrabbiato che mai, perchè gli è andato a monte un disegno che gli premeva assai assai: e da questo il signor zio capirà che uomo egli sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, ella m'intende, o per che si fosse, voleva maritarla ad ogni modo; e aveva trovato il… l'uomo: un'altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signor zio lo conoscerà di nome; perchè tengo per sicuro che il consiglio-segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto.» «Chi è costui?» «Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quegli che…» «Lorenzo Tramaglino!» sclamò il conte zio. «Ma bene! ma bravo padre! Sicuro… in fatti… aveva una lettera per un… Peccato che… Ma non importa; va bene. E perchè il signor don Rodrigo non mi dice niente di tutto questo, lascia andar le cose tant'oltre, non fa capo a chi lo può e vuole dirigere e sostenere?» «Dirò il vero anche in questo. Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signor zio…» (questi, soffiando, vi pose la mano, come per significare la gran fatica ch'ell'era a farvele star tutte) «s'è fatto in certo modo coscienza,» proseguiva Attilio, «di darle una briga di più. E poi, dirò tutto da quello ch'io ho potuto capire, è così amareggiato, così fuor de' gangheri, così infastidito delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sè, in qualche modo sommario, che di ottenerla in un modo regolare, dalla prudenza e dal braccio del signor zio. Io ho cercato di gettar acqua sul fuoco, ma veggendo la cosa andar per la mala via, ho creduto che fosse mio dovere di avvertir di tutto il signor zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa…» «Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.» «È vero; ma io andava sperando che la cosa svanirebbe da sè, o che il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se ne andrebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma…» «Ora toccherà a me di racconciarla.» «Così ho pensato anch'io. Ho detto fra me: il signor zio, col suo accorgimento, colla sua autorità, saprà ben egli prevenire uno scandalo, e salvare ad un tempo l'onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, diceva io, l'ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoperarlo a proposito il cordone di san Francesco, non fa bisogno d'averlo ravvolto intorno alla pancia. Il signor zio ha cento mezzi che io non conosco: so che il padre provinciale ha, come e giusto, una gran deferenza per lui; e se il signor zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, con due parole…» «Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria,» disse asprettamente il conte zio. «Ah è vero!» sclamò Attilio, con una scrollatina di capo, e con un sogghigno di compassione per sè stesso. «Son io l'uomo da dar pareri al signor zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura di aver fatto un altro male,» soggiunse con un sembiante pensoso: «ho paura d'aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signor zio. Non mi darei pace se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione, che debbe avere. Creda, signor zio, che in questo caso è proprio…» «Via, via; che torto, che torto fra voi altri due? che sarete sempre amici, finchè l'uno non metta giudizio. Scapigliati, scapigliati, che sempre ne fate qualcheduna; e a me tocca di rattopparle: che… mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi due, che…» e qui pensate che soffio mise, «tutti questi benedetti affari di stato.» Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi prese licenza e se ne andò, accompagnato da un «e abbiamo giudizio,» che era la formola di commiato del conte zio pe' suoi nipoti. Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un'erbaccia, per esempio un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un granellino maturato nel campo stesso, o da un granellino portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto vi stesse a pensar sopra, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo mai dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dalla insinuazione d'Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nel miglior modo quel gruppo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva gittato a caso quel motto; e quantunque dovesse ben aspettarsi che ad un suggerimento così scoverto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, ad ogni modo volle fargli balenar dinanzi l'idea di quel ripiego, e fargli avvertire la strada, nella quale desiderava che si mettesse. Dall'altra parte il ripiego era talmente consentaneo all'umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi che sia, si può scommettere che l'avrebbe pensato e abbracciato. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote non istesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto sul cuore. La soddisfazione che il nipote poteva pigliarsi da sè, sarebbe stata un rimedio peggior del male, un seminario di guai; e bisognava stornarla a ogni partito, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe obbedito; e quando avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi ad un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contra un avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso; come dee sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar di rimuoverlo; e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio di cui era l'andare e lo stare di quello. Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un'antica conoscenza: s'erano veduti di rado, ma ogni volta con gran dimostrazioni d'amicizia, e con proferte sperticate di servigi. E alle volte è più facile aver buon mercato d'uno che sia sopra a molti individui, che non d'un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l'altro scorge in un tratto cento relazioni, cento contingenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare, e si può quindi pigliare da cento parti. Tutto ben pensato, il conte zio invitò un dì a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche congiunto dei più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che col solo contegno, con una certa sicurtà nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, ad imprimere e rinfrescare ad ogni tratto l'idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una devozione ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì colla bocca, cogli occhi, cogli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l'anima, alle frutta vi avevano ridotto un uomo a non ricordarsi più del come si facesse a dir di no. A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, dei ministri, della famiglia del governatore, delle cacce del toro ch'egli poteva descriver benissimo perchè le aveva godute da un posto distinto, dell'Escuriale di cui poteva render conto a puntino perchè un creato del conte duca lo aveva condotto per ogni buco. Per qualche tempo tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloquii particolari; ed egli allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era seduto vicino e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una svolta al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò in sul cardinale Barberini che era cappuccino e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII. Il conte zio dovette anch'egli lasciar parlare un poco, e stare a udire, e ricordarsi che finalmente in questo mondo non c'era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo levati da tavola, egli pregò il padre provinciale che passasse con lui in un'altra stanza. Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fe' sedere il padre molto reverendo, s'assise anch'egli e cominciò: «stante l'amicizia che passa fra noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d'un affare di comune interesse, e che vuoi essere conchiuso fra noi, senza andare per altre vie, che potrebbero… E però, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che andremo d'accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico v'è un padre Cristoforo da ***?» Il provinciale accennò di sì. «Mi dica un po' vostra paternità, schiettamente, da buon amico… questo soggetto… questo padre… Di persona io non lo conosco; e sì che di padri cappuccini ne conosco parecchi, uomini d'oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell'ordine fino da ragazzo… Ma in ogni famiglia un po' numerosa… v'è sempre qualche individuo, qualche testa… E questo padre Cristoforo, so per certi riscontri che è un uomo… un po' amico dei contrasti… che non ha tutta quella prudenza, tutti quei riguardi… Giucherei che ha dovuto dar più d'una volta da pensare a vostra paternità.» – Ho capito; è un impegno, – pensava intanto tra sè il provinciale. – Mia colpa; lo sapeva pure che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo posar sei mesi in un luogo, massime in conventi di campagna.– «Oh!» disse poi ad alta voce: «mi spiace da vero sentire che vostra magnificenza abbia in codesto concetto il padre Cristoforo; perchè, a quanto ne so io, è un religioso… esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche al di fuori.» «Capisco benissimo; vostra paternità dee… Però, però, da amico sincero, io voglio avvisarla d'una cosa che le importa di sapere; e se anche ne fosse già informata, senza mancare ai miei doveri, io posso farle avvertire certe conseguenze… possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che teneva in protezione un uomo di quelle parti, un uomo… vostra paternità ne avrà inteso parlare; quello che con tanto scandalo scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatte in quel terribile giorno di san Martino, cose… cose… Lorenzo Tramaglino!» – Ahi! – pensò il provinciale, e disse «questo parti colare mi riesce nuovo; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro uficio, è appunto di andare in cerca dei traviati, per ridurli…» «Va bene; ma la pratica coi traviati di una certa specie…! Sono cose spinose, affari delicati…» E qui, invece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant'aria quanta soffiando ne soleva mandar fuori. E riprese: «ho stimato bene di darle questo cenno, perchè se mai sua eccellenza… Potrebbe esser fatto qualche uficio a Roma… non so niente… e da Roma venirle…» «Sono ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però mi assicuro che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuta pratica con l'uomo ch'ella dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.» «Già ella sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.» «È la gloria dell'abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dire di sè, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest'abito…» «Vorrei crederlo, lo dico di cuore, vorrei crederlo; ma alle volte… come dice il proverbio… l'abito non fa il monaco.» Il proverbio non veniva a taglio esattamente; ma il conte lo aveva citato in sostituzione d'un altro che gli passava in mente: il lupo muta il pelo, ma non il vizio. «Ho dei riscontri,» continuava, «ho dei contrassegni…» «Se ella sa positivamente,» disse il provinciale, «che questo religioso abbia commesso qualche mancamento, (tutti possiamo errare) mi farà favore d'informarmene. Son superiore; indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.» «Le dirò: insieme con questa circostanza spiacevole del favore spiegato di questo padre per chi le ho detto, interviene un'altra cosa disgustosa, e che potrebbe… Ma, fra noi accomoderemo tutto in una volta. Interviene, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.» «Oh questo mi spiace! mi spiace, mi spiace da vero.» «Mio nipote è giovane, caldo, si sente quel che è, non è avvezzo ad esser provocato…» «Sarà mio dovere di prender buone informazioni d'un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, ed ella, con la sua gran pratica del mondo e con la sua equità, conosce queste cose meglio di me, tutti siamo di carne, soggetti a fallare… tanto da una parte, quanto dall'altra: e se il nostro padre Cristoforo avrà mancato…» «Veda vostra paternità, son cose, come io le diceva, da finirsi fra noi, da sepellirle qui, cose che a rimescolarle troppo… si fa peggio. Ella sa come accade: questi urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno innanzi, vanno innanzi… A voler trovarne la radice, o non se ne viene a capo, o danno in fuora cento altri garbugli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovane; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le… inclinazioni d'un giovane; e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni, (pur troppo eh, padre molto reverendo?) tocca a noi di aver senno pei giovani, e di rattoppare le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d'un buon principiis obsta. Separare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente in un luogo, riesce a maraviglia altrove. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. S'incontra appunto anche l'altra circostanza del poter essere egli caduto in diffidenza di chi… potrebbe aver caro che fosse rimosso: e collocandolo in qualche posto un po' lontanetto, facciamo un viaggio e due servigi; tutto s'aggiusta da sè, o per meglio dire, non v'è nulla di guasto.» Questa conclusione, il padre provinciale se l'aspettava fino dal principio della parlata. – Eh già! – pensava tra sè: – vedo dove mi vuoi riuscire. Siamo alle solite; quando un povero frate è in urto con voi altri, o con uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercare se abbia torto o ragione, il superiore ha da farlo passeggiare.– E quando il conte tacque ed ebbe messo un lungo soffio, che equivaleva ad un punto fermo, «capisco benissimo,» disse il provinciale, «quel che vuoi dire il signor conte; ma prima di fare un passo…» «È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si viene a questo, e subito, io prevedo un monte di disordini, un'iliade di guai. Uno sproposito… mio nipote non crederei… ci son io, per questo .. Ma, al punto a cui la faccenda è arrivata, se non la tronchiamo fra noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta… e allora non è più solamente mio nipote… Destiamo un vespaio, padre molto reverendo. Ella vede; siamo una casa, abbiamo attinenze… » «Cospicue.» «Ella m'intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che a questo mondo… è qualche cosa. C'entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora… anche chi è amico della pace… Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere… di trovarmi… io che ho sempre avuta tanta propensione pei padri cappuccini…! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver brighe, di stare in buona armonia con chi… E poi, hanno parenti al secolo… e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s'estendono, si ramificano, tiran dentro… mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che mi obbliga a sostenere un certo decoro… Sua eccellenza… i miei signori colleghi… tutto diviene affar di corpo… massime con quell'altra circostanza… Ella sa come vanno queste cose.» «Veramente,» disse il padre provinciale, «il padre Cristoforo è predicatore; e già io aveva qualche pensiero… Mi viene appunto domandato… Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione, e una punizione prima di aver ben messo in chiaro…» «Oibò punizione, oibò: un provedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero… mi sono spiegato.» «Tra il signor conte e me, la cosa sta in codesti termini; capisco. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, dico io, che qualche cosa nel paese non sia traspirato… Da per tutto c'è degli attizzatori, dei commettimale, o almeno dei curiosi maligni che, se possono vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e notano, ciarlano, gridano… Ognuno ha il suo decoro da conservare; ed io poi, come superiore (indegno) ho un dovere espresso… L'onor dell'abito… non è cosa mia… è un deposito del quale… Il suo signor nipote, giacchè è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e… non dico menarne vampo, trionfarne; ma…» «Mi burla vostra paternità? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato… secondo il suo grado e il dovere; ma dinanzi a me è un ragazzo; e non farà nè più nè meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più, che mio nipote non ne saprà niente. Che bisogno abbiam noi di render conti? Son cose che facciamo tra noi, da buoni amici; e tutto ha da rimaner sotterra. Non si dia pensiero di questo. Debbo essere avvezzo a tacere.» E soffiò «Quanto ai cicaloni,» riprese, «che vuoi ella che abbiano a dire? L'andare di un religioso a predicare in un'altra parte, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo… noi che prevediamo… noi che dobbiamo… non abbiamo a curarci delle ciarle.» «Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che in questa occasione il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese di amicizia, di deferenza… Non per noi, ma per l'abito…» «Sicuro, sicuro; questo è giusto. Però non fa bisogno: so che i cappuccini sono sempre accolti come si dee da mio nipote. Lo fa per inclinazione; è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto in questo caso… qualche cosa di più segnalato… è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che ordinerò a mio nipote… Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinchè non si avvegga di quel che è passato fra noi. Perchè non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c'è ferita. E per quello che abbiamo conchiuso, quanto più presto, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po' lontano… per toglier proprio ogni occasione…» «Mi vien chiesto appunto un soggetto per Rimini; e fors'anche, senz'altra cagione, avrei potuto metter gli occhi…» «Molto a proposito, molto a proposito. E quando…?» «Giacchè la cosa s'ha da fare, si farà presto.» «Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E,» continuava poi, alzandosi da sedere, «se posso qualche cosa, io e i miei attenenti, pei nostri buoni padri cappuccini…» «Conosciamo per prova la bontà della casa,» disse il padre provinciale, alzato anch'egli, e avviatosi verso l'uscio, dietro al suo vincitore. «Abbiamo spenta una favilla,» disse questi, procedendo lentamente, «una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grande incendio. Fra buoni amici, con due parole si acconciano di gran cose.» Giunto alla porta spalancò le imposte, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse innanzi: entrarono nell'altra stanza, e si mescolarono al resto della compagnia. Un grande studio, una grand'arte, di gran parole metteva quel signore nel maneggio di un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. In fatti, col colloquio che abbiam riferito, egli riuscì a fare andare fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini; che è un bel passeggio. Una sera, giunge a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un piego pel padre guardiano. V'è l'obbedienza per fra Cristoforo di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l'istruzione d'insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d'affari che potesse avere avviati nel paese da cui dee partire, e che non vi mantenga corrispondenza: il frate latore debb'essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; al mattino, fa chiamar fra Cristoforo, gli mostra l'obbedienza, gli dice che vada a prendere la sporta, il bordone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno, che gli presenta, si metta poi tosto in cammino. Se fu un colpo pel nostro frate, pensatelo. Renzo, Lucia, Agnese gli corsero tosto in mente; e sclamò, per così dire, tra sè – Oh Dio! che faranno quei tapini, quando io non sia più qui! – Ma tosto levò gli occhi al cielo, e si accusò di aver mancato di fiducia, d'essersi creduto necessario a qualche cosa. Pose le mani in croce sul petto, in segno di obbedienza, e chinò la testa dinanzi al padre guardiano; il quale lo trasse poi in disparte, e gli diede quell'altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, tolse la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono; si cinse le reni con una correggia di pelle, si accomiatò dai confratelli che si trovavano in convento, andò per ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno prese la via che gli era stata prescritta. Abbiam detto che don Rodrigo, riferervorato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s'era risoluto di cercare il soccorso d'un terribile uomo. Di costui non possiam dare nè il cognome, nè il nome, nè un titolo, nè anche una congettura sopra niente di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l'identità dei fatti non lascia luogo a dubitarne; ma da per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinale Federigo Borromeo, avendo a parlar di quell'uomo, lo dice «un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita,» senza più. Giuseppe Ripamonti, che nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest'uomo, quel personaggio. «Riferirò,» dic'egli nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci vien fatto, «il caso di uno, che essendo dei primi fra i grandi della città, aveva stabilito in villa il suo domicilio; e quivi assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizii, i giudici, ogni magistratura, la sovranità. Posto sull'estremo confine dello stato menava una sua vita indipendente; raccettatore di fuorusciti, fuoruscito un tempo egli stesso, poi tornato a man salva…» Da questo scrittore piglieremo in seguito qualche altro passo, che venga a taglio per confermare e per dilucidare la narrazione del nostro autore anonimo, col quale tiriamo innanzi. Fare ciò ch'era vietato dagli ordini publici, o impedito da una forza qualunque; essere arbitro, padrone negli affari altrui, senza altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro che erano soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall'adolescenza, allo spettacolo e al romore di tante prepotenze, di tante concussioni, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, egli provava un misto sentimento di sdegno e d'invidia impaziente. Giovane, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi ne andava in cerca, di pararsi dinanzi ai più famosi di quella professione, di mettersi loro tra' piedi, per provarsi con loro e fargli stare, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore alla più parte di ricchezze e di seguito, e forse a tutti d'ardire e di fortezza, ne ridusse molti a recedere da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti ne ebbe amici; non già amici alla pari, ma, come soltanto potevan piacere a quel suo animo tracotato e superbo, amici subordinati, che facessero una certa professione d'inferiorità, che gli stessero a mano manca. Nel fatto però veniva anche egli ad essere il faccendone, lo stromento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere nei loro impegni l'opera d'un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato scadere dalla sua riputazione, venir meno al suo assunto. Tal che, per conto suo e per conto d'altri, tante ne fece, che non bastando nè il nome, nè il parentado, nè gli amici, nè la sua audacia a sostenerlo contra i bandi publici, e contra tanti odii potenti, dovette dar luogo, e uscir dello stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. «Una volta ch'egli ebbe a sgombrare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza furono tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando dinanzi al palazzo di corte, lasciò alle guardie una imbasciata di villanie pel governatore.» Nell'assenza egli non ruppe le pratiche, nè intermise le corrispondenze con quei suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, «in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste.» Pare anzi che allora contraesse in più alti luoghi certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. «Anche alcuni principi esteri si valsero più volte dell'opera sua per qualche importante uccisione, e spesso gli ebbero a mandar di lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini.» Finalmente, (non si sa dopo quanto tempo) o fosse levato il bando per qualche potente intercessione, o l'audacia di quell'uomo gli tenesse luogo d'ogni altra franchigia, egli si risolvette di tornare a casa, e vi tornò in fatti; non però in Milano, ma in un castello d'un suo feudo, sul confine col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, dominio veneto; e quivi fissò la sua dimora. «Quella casa,» cito ancora il Ripamonti, «era come una officina di mandati sanguinosi: servi banditi nella testa e troncatori di teste; nè cuoco, nè guattero dispensati dall'omicidio: le mani dei ragazzi insanguinate.» Oltre questa bella famiglia domestica, ne aveva, come afferma lo stesso storico, un'altra di simili soggetti dispersi, e posti come a quartiere in varii luoghi dei due stati, sul lembo dei quali viveva, e pronti sempre ai suoi ordini. Tutti i tiranni, a un bel giro all'intorno, avevano dovuto, chi in una occasione e chi in un'altra, scegliere fra l'amicizia e l'inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto tentar la prova di resistergli, ne era incolto così male, che nessuno si sentiva più di tentarla. Nè pur coll'attendere ai fatti suoi, collo stare, come si dice, ne' suoi panni, uno poteva tenersi indipendente da lui. Capitava un suo messo ad intimare che si desistesse dalla tale impresa, che si cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco era andata a rimettere nell'arbitrio di lui un negozio qualunque, l'altra parte si trovava a quella dura eletta o di stare alla sentenza sua, o di chiarirsi suo nemico; il che equivaleva all'essere, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui, per aver ragione in effetto; molti vi ricorrevano avendo ragione, per preoccupare un tanto patrocinio, e chiuderne l'adito all'avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, angariato, amareggiato da un prepotente, si voltò a lui; ed egli, pigliate le parti del debole forzò il prepotente a rimanersi dalle offese, a riparare il torto, a discendere alle scuse; o renitente lo schiacciò, lo costrinse a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più spedito e più terribile fio. E in questi casi, quel nome tanto temuto e abborrito era pure stato benedetto un momento: perchè, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel ricambio qualunque, nelle circostanze dei tempi, non si sarebbe potuto aspettarlo da nessun'altra forza nè privata nè publica. Più sovente, anzi per l'ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci oltraggiosi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevano pure un effetto medesimo, d'imprimere negli animi una grande idea di quanto egli potesse volere ed eseguire in onta dell'equità e dell'iniquità, quelle due cose che frappongono tanti impedimenti alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare addietro. La fama dei tiranni ordinarii rimaneva per lo più ristretta in quel picciolo tratto di paese dove erano continuamente, o spesso presenti ad opprimere: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non v'era ragione perchè la gente si occupasse di quelli di cui non sentiva il peso e l'infestazione. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni angolo del milanese: da per tutto la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualche cosa di strapotente, di scuro, di favoloso. Il sospetto che da per tutto si aveva de' suoi collegati e de' suoi sicarii contribuiva pure a tener viva da per tutto la memoria di lui. Non erano più che sospetti; giacchè, chi avrebbe professata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, un de' suoi; e l'incertezza stessa rendeva più vasta l'opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparir figure di scherani incognite e più brutte dell'ordinario, ad ogni fatto enorme, di cui non si sapesse alla prima disegnare o indovinar l'autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui, che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione dei nostri scrittori, saremo costretti di chiamare l'innominato. Dal castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo non v'era più di sette miglia: e quest'ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d'accordo con lui. Gli s'era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s'intende: gli aveva renduto più d'un servigio (il manoscritto non dice di più); e ne aveva riportate ad ogni volta promesse di ricambio e d'aiuto, in qualunque congiuntura. Poneva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto stretta e di che natura ella fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorare liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò gli bisognava usar certi riguardi, tener conto delle parentele, coltivar le amicizie di personaggi graduati, avere una mano sulle bilance della giustizia, per farle all'uopo tracollare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche in qualche occasione sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse aggiustar più facilmente che con l'armi della violenza privata. Ora, l'intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un famigerato di quella sorte, con un aperto nimico della forza publica, non gli avrebbe certamente fatto buon giuoco a ciò, massimamente presso al conte zio. Però quel tanto d'una tale amicizia che non si poteva nascondere, poteva passare per un uficio indispensabile verso un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa, e così ricevere scusa dalla necessità: giacchè chi ha l'assunto di provedere, e non ne ha la voglia, o non ne trova il verso, alla lunga consente che altri provegga da sè fino ad un certo segno ai casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio. Un mattino don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una picciola scorta di scherani a piede; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e si avviò al castello dell'innominato. Il castello dell'innominato era posto a cavaliere ad una valle angusta e uggiosa, su la cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è non si saprebbe ben dire se congiunto ad essa o separatone, per un mucchio di greppi e di dirupi, e per un andirivieni di tane e di precipizii, così sul di dietro, come sui fianchi. Il lato che risponde nella valle è il solo praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma eguale e continuo; a pascoli in alto, a colture nella più bassa falda, e sparso qua e là di abituri. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un, secondo la stagione, rigagnolo o torrentaccio, che allora serviva di confine ai due dominii. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle, hanno pure un po' di falda lentamente inclinata e coltivata, ma un breve tratto; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza via e nude, salvo qualche cespuglio nei fessi e sui ciglioni. Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove orma d'uomo potesse posarsi, e non ne sentiva nessuna brulicare al di sopra del suo capo. A un volger d'occhi scorreva tutta quella chiostra, i declivi, il fondo, le vie praticate quivi entro. Quella che, a gomiti e a giravolte, ascendeva al terribile domicilio, si spiegava dinanzi a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle balestriere, poteva il signore contare a suo agio i passi di chi saliva e porgli cento volte la mira. E anche d'un grosso drappello d'assalitori avrebb'egli potuto, con quella guernigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero o farne ruzzolare al fondo ben parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma nè pur nella valle, nè pur di passaggio, non ardiva por piede nessuno che non istesse bene col padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l'impresa; ma erano già storie antiche; e nessuno dei giovani valligiani si ricordava d'aver quivi veduto un di quella razza, nè vivo, nè morto. Tale è la descrizione che l'anonimo ci dà del luogo: del nome nulla; anzi, per non metterci sulla via di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo, e lo porta di lancio nel mezzo della valle, appiè del poggio, all'imboccatura dell'erto e tortuoso sentiero. Quivi era una taverna, che si sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Una vecchia insegna appesa al di sopra della porta mostrava dalle due parti dipinto un sole raggiante; ma la voce publica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, tal volta li rifà a suo modo, non disegnava quella taverna che col nome della Malanotte. Al romore d'una cavalcatura che si avvicinava, comparve sulla soglia un ragazzaccio ben guernito di coltelli e di pistole; e dato un'occhiata, entrò ad informare tre scherani, che giucavano sul desco con certe carte sudice e ravvolte a guisa di tegole. Colui che pareva essere il capo si levò, si fece alla porta, e riconosciuto un amico del suo padrone, lo inchinò. Don Rodrigo, rendutogli con molto garbo il saluto, chiese se il signore si trovasse al castello; e rispostogli da quel caporalaccio ch'egli credeva di sì, smontò da cavallo, e gittò le redini al Tira-dritto, uno del suo corteggio. Si tolse poi di collo lo schioppo e lo consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d'un peso inutile e salire più spedito; ma in realtà perchè sapeva bene, che su quell'erta non era lecito andar collo schioppo. Cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al Tanabuso, dicendogli: «voi altri state ad aspettarmi; e intanto farete un po' di allegria con questa brava gente.» Cavò finalmente qualche scudi d'oro, e li pose in mano al caporalaccio, assegnandone la metà a lui, l'altra metà da partirsi fra i suoi uomini. Finalmente, col Griso che pure aveva deposto lo schioppo, cominciò a piede la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti e lo Squinternotto che era il quarto (vedete bei nomi questi, da conservarceli con tanta cura) rimasero coi tre dell'innominato e con quel ragazzo allevato alle forche, a giucare, a sbevazzare e a raccontare a vicenda le loro prodezze. Un altro bravaccio dell'innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don Rodrigo; lo guardò, lo riconobbe, e si accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sè a quanti altri avrebbe incontrati che non lo conoscessero. Giunto al castello e intromesso (lasciato però il Griso alla porta) fu fatto passare per un andirivieni di corridoi oscuri, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane, e in ognuna delle quali stava a guardia qualche bravo; e dopo d'avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l'innominato. Questi gli andò incontro rispondendo al saluto, e insieme squadrandolo e guardandogli alle mani e alla cera, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse a lui, per quanto fosse dei più vecchi e provati amici. Era alto della persona, adusto, calvo; a prima giunta quella calvezza, la canizie dei pochi capegli che gli rimanevano, e le rughe del volto, l'avrebbero fatto stimare d'una età assai più inoltrata dei sessant'anni che aveva appena varcati: il contegno e le mosse, la durezza risentita dei lineamenti, e un fuoco cupo che gli scintillava dagli occhi, indicavano una gagliardìa di corpo e d'animo che sarebbe stata straordinaria in un giovane. Don Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s'era ricordato delle promesse di quell'uomo che non prometteva mai troppo nè invano; e si fece ad esporre il suo scelerato imbroglio. L'innominato che ne sapeva già qualche cosa, ma in confuso, udì attentamente il racconto, e come vago di simili storie, e per essere in questa implicato un nome a lui noto e odiosissimo, quello di fra Cristoforo nemico aperto dei tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere. Il narratore si diede poi ad esagerare in prova le difficoltà dell'impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!… A questo, l'innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore glielo avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che l'impresa la pigliava egli sopra di sè. Notò il nome della nostra povera Lucia, e rimandò don Rodrigo dicendo: «fra poco avrete da me l'avviso di quel che dobbiate fare.» Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio, che abitava contiguo al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora ch'egli era uno dei più stretti ed intimi colleghi di nequizia, che avesse l'innominato: perciò questi aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola. Pure, non appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma stizzato di averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, un cotal tedio delle sue sceleratezze. Quelle tante che erano accumulate, se non su la sua coscienza, almeno nella memoria, si risvegliavano ad ognuna ch'egli commettesse di nuovo, ed apparivano all'animo spiacevoli, e troppe: era come crescere e crescere un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata nei primi delitti, e vinta poi e quasi del tutto cessata, tornava ora a farsi sentire. Ma in quei primi tempi l'immagine d'un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano l'animo d'una fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri dell'avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. – Invecchiare! Morire! E poi? – E, cosa notabile! l'immagine della morte, che in un pericolo vicino, a fronte d'un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell'uomo, e infondergli un'ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli portava una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un nimico anch'egli mortale; non si poteva rispingerla con armi più forti, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva al di dentro; era forse ancor lontana, ma ad ogni momento faceva un passo; e intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, ella si avvicinava. Nei primi tempi, gli esempii così frequenti, lo spettacolo per dir così perpetuo della violenza, della vendetta, dell'omicidio, inspirandogli una emulazione feroce, gli avevano anche servito come d'una specie di autorità contra la coscienza: ora gli rinasceva tratto tratto nell'animo l'idea confusa, ma terribile, d'un giudizio individuale, d'una ragione indipendente dall'esempio; ora l'essere uscito della turba volgare de' malvagi, l'essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d'una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva inteso parlare, ma che da gran tempo non si curava di negare nè di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti di abbattimento senza cagione, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. Nel primo fervore delle passioni, la legge che aveva pure intesa annunziare in nome di Lui non gli era apparsa che odiosa: ora, quando gli tornava d'improvviso alla mente, la mente a suo malgrado la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che egli lasciasse mai nulla trasparire, nè in parole nè in atti, di questa nuova inquietudine, la copriva profondamente, e la mascherava colle apparenze d'una più cupa ed intensa ferocia; e con questo mezzo cercava anche di nasconderla a sè stesso o di soffocarla. Invidiando (giacchè non poteva annientarli nè dimenticarli) quei tempi in cui egli era solito commettere l'iniquità senza rimorso, senz'altra sollecitudine che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell'antica volontà piena, baldanzosa, un perturbata, per convincer sè stesso ch'egli era ancora quell'uomo. Così in questa occasione, aveva tosto impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l'adito ad ogni esitazione. Ma, appena partito costui, sentendo di nuovo affievolire quella risolutezza che s'era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e lo avrebber condotto a scomparire dinanzi ad un amico, ad un complice secondario; per troncare in un tratto quel contrasto penoso, chiamò a sè il Nibbio, uno de' più destri e arrischiati ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E con un piglio risoluto gl'impose che salisse tosto a cavallo, andasse diritto a Monza, significasse ad Egidio l'impegno contratto, e gli richiedesse indirizzo ed aiuto per adempirlo. Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se lo aspettasse, colla risposta di Egidio: che l'impresa era facile e sicura; mandasse tosto l'innominato una carrozza sconosciuta con due o tre bravi ben travisati; Egidio prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A questo annunzio, l'innominato, che che gli passasse per l'animo, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto secondo quell'intesa, e andasse egli, con due altri che disegnò, alla spedizione. Se per rendere l'orribile servigio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far conto dei soli suoi mezzi ordinarii, non avrebbe certamente data così subito una promessa così netta. Ma, in quell'asilo stesso dove tutto pareva dovere essere ostacolo, l'atroce giovane aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per altri sarebbe stato la maggiore difficoltà, era stromento per lui. Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta a parole di lui; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l'ultima, non fu che un primo passo in una via d'abbominazione e di sangue. Quella stessa voce, divenuta imperiosa, e direi quasi autorevole pel delitto, le impose ora il sagrificio della innocente che le era data in custodia. La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perdere Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe paruta una sventura, una punizione amara: e le veniva ingiunto di privarsene con una scelerata perfidia, di convertire in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutti i modi per esimersi dall'orribile comando; tutti fuorchè il solo che sarebbe stato infallibile, e che era pure in sua mano. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contra cui non è forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e obbedì. Era il giorno stabilito; l'ora convenuta si appressava; Gertrude ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più grandi carezze dell'ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza tema sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volge a lambir quella mano; e non sa che fuori del pecorile sta in aspetto il beccaio, a cui il pastore l'ha venduta un momento prima. «Ho bisogno d'un gran servigio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente pronta ad obbedirmi; ma di cui io mi fidi, nessuno. Per una mia faccenda importantissima, che vi racconterò poi, ho bisogno di parlare subito subito con quel padre guardiano dei cappuccini che vi ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è pur necessario che nessuno sappia ch'io l'ho mandato a cercare io. Non ho che voi per fare segretamente questa imbasciata…» Lucia fu atterrita d'una tale inchiesta; e con quella sua peritanza, ma non senza una forte espressione di maraviglia, addusse tosto per disimpegnarsene le ragioni che la signora doveva capire, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza una scorta, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto… Ma Gertrude ammaestrata ad una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anch'ella e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia in chi ella aveva tanto beneficato, mostrò di trovar così vane quelle scuse! Di giorno chiaro, un breve tragitto, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che alla sola indicazione, chi non l'avesse veduta mai, non la poteva fallare!.. Tanto disse, che la poveretta, punta di gratitudine e di vergogna ad un tempo, si lasciò sfuggir di bocca: «bene; che cosa ho da fare?» «Andate al convento de' cappuccini:» e le descrisse la strada di nuovo: «fate chiamare il padre guardiano, ditegli che venga da me tosto tosto; ma che non lasci scorgere a nessuno che sia per mia richiesta.» «Ma che dirò alla fattora, che non mi ha mai veduta uscire, e mi domanderà dove io sia avviata?» «Cercate di passare senza esser veduta; e se non vi riesce, ditele che andate alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.» Nuova difficoltà per Lucia, mentire; ma la signora si mostrò di nuovo così accorata delle ripulse, le fece tanta vergogna dell'anteporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che la poveretta, stordita più che convinta, e sopra tutto commossa da quelle parole, rispose: «ebbene; vo. Dio mi aiuti!» E si mosse. Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l'occhio fisso e torbido, la vide por piede in su la soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, mosse le labbra, e disse: «sentite Lucia!» Questa si rivolse, e ritornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva prevalso nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo vista di non esser contenta delle istruzioni già date, ella divisò di nuovo a Lucia la strada che doveva tenere; e la congedò dicendo: «fate ogni cosa come v'ho detto, e tornate presto.» Lucia partì. Passò inosservata la porta del chiostro, prese la via cogli occhi bassi, rasente il muro; trovò colle indicazioni avute e colle proprie rimembranze la porta del borgo, ne uscì; andò tutta raccolta e un po' tremante per la strada maestra, giunse in breve allo sbocco di quella che conduceva al convento; e la riconobbe. Quella strada era ed è tuttavia affondata, a guisa d'un letto di fiume, tra due alte ripe orlate d'alberi, che vi stendono sopra come una volta. Lucia, entrandovi e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura, e studiava il passo; ma dopo un picciol tratto, si rincorò alquanto allo scorgere una carrozza da viaggio ferma, e presso a quella, dinanzi allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano di qua e di là, come incerti del cammino. Giunta più presso intese un di quei due che diceva: «ecco una buona donna che c'insegnerà la strada.» In fatti, quando ella fu dinanzi alla carrozza, quel medesimo, con un atto più cortese che non fosse la cera, si volse, e disse: «quella giovane, sapreste voi insegnarci la strada di Monza?» «Sono voltati a rovescio,» rispondeva la poveretta: «Monza è per di qua…» e si volgeva per indicare col dito, quando l'altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d'improvviso attraverso la vita, l'alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e gettò uno strido; il malandrino la cacciò nella carrozza: uno che vi stava seduto nel fondo di sopra, la prese e la ficcò, divincolantesi invano e stridente, a sedere dirimpetto a sè: un altro, mettendole un fazzoletto sulla bocca, le chiuse in gola il grido. In tanto il Nibbio si cacciò in furia anch'egli nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di carriera. L'altro che le aveva fatta quella inchiesta traditora, rimaso nella via, si guardò frettolosamente intorno: nessun v'era: spiccò un salto sur una ripa, abbrancò un fusto della siepe che v'era piantata in cima, la trapassò, ed entrato in una macchia di cerri, che scorreva per un certo tratto lungo la strada, vi si appiattò, per non esser veduto dalla gente che potesse accorrere allo strido. Era costui uno scherano di Egidio; era stato a vigilare presso la porta del monastero, aveva veduta Lucia uscirne, aveva notato l'abito e la figura; ed era corso per una scorciatoia ad aspettarla al posto convenuto. Chi potrà ora descrivere il terrore, l'angoscia di costei, significare ciò che passava nel suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansia di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva tosto pel ribrezzo e pel terrore di que' visacci: si storceva; ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze e faceva impeto per pignersi verso lo sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza, quattro altre manacce ve la puntellavano. Ad ogni atto ch'ella facesse di voler mettere un grido, il fazzoletto veniva a soffocarglielo in gola. Intanto tre bocche d'inferno, con la voce più umana che lor fosse concesso di formare, andavano ripetendo «zitto, zitto, non abbiate paura, non vogliamo farvi male.» Dopo qualche momento d'una lotta così angosciosa, ella sembrò acquetarsi; allentò le braccia, lasciò cader la testa all'indietro, levò a stento le palpebre, tenendo l'occhio immoto; e quegli orridi visacci che le stavano dinanzi le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso: le fuggì il colore dal volto; un sudor freddo glielo coperse; si abbandonò, e svenne. «Su, su, coraggio,» diceva il Nibbio. «Coraggio, coraggio,» ripetevano gli altri due birboni; ma lo smarrimento d'ogni senso preservava in quel momento Lucia dall'udire i conforti di quelle orribili voci. «Diavolo! par morta,» disse un di coloro: «se fosse morta davvero?» «Uf!» disse l'altro: «è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne. Io so che, quando ho voluto mandare all'altro mondo qualcheduno, uomo o donna, c'è voluto altro.» «Via!» disse il Nibbio: «attendete al vostro dovere, e non andate a cercar altro. Cavate i tromboni di sotto al sedile, e teneteli in ordine; chè in questo bosco dove entriamo c'è sempre dei birboni annidati. Non mica così in mano, diavolo! riponeteli dietro la schiena, lì coricati: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitto: lasciate parlare a me.» Intanto la carrozza, andando tuttavia velocemente, era entrata nel bosco. Dopo qualche tempo la povera Lucia cominciò a risentirsi come da un sonno profondo e affannoso, e aperse gli occhi. Penò alquanto a distinguere i luridi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di nuovo la sua spaventosa situazione. Il primo uso che fece delle poche forze ritornatele fu di gettarsi verso lo sportello, per lanciarsi fuora; ma fu rattenuta, e non potè che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo per cui passava. Levò di nuovo un grido; ma il Nibbio, alzando la manaccia col fazzoletto, «via,» le disse più dolcemente che potè: «state quieta, che meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non tacete, noi vi faremo tacere.» «Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perchè mi avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare!» «Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.» «No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.» «Noi vi conosciamo ben noi.» «Oh santissima Vergine! Lasciatemi andare, per carità. Chi siete voi? Perchè mi avete presa?» «Perchè c'è stato comandato.» «Chi? Chi? Chi ve lo può aver comandato?» «Zitto!» disse con un visaccio severo il Nibbio: «a noi non si fa di codeste domande.» Lucia tentò un'altra volta di gettarsi d'improvviso allo sportello; ma vedendo ch'egli era in vano, ricorse di nuovo alle preghiere; e colla faccia chinata, colle guance irrigate di lagrime, colla voce interrotta dai singulti, colle mani giunte dinanzi alle labbra, «oh!» diceva: «per amor di Dio e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Che male vi ho fatto io? Sono una povera creatura che non vi ha fatto nessun male. Quello che mi avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.» «Non possiamo.» «Non potete? Oh Signore! Perchè non potete? Dove volete condurmi? Perchè…?» «Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.» Accorata, trambasciata, atterrita sempre più del vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si volse a Colui che tiene in mano i cuori degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse all'angolo dov'era stata posta, incrocicchiò le braccia sul petto, e pregò fervidamente col cuore: poi cavata di tasca la corona, cominciò a dirla, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Di tempo in tempo, sperando d'avere impetrata la misericordia che domandava, si volgeva a ripregar coloro; ma sempre invano. Poi ricadeva ancora alienata dai sensi; poi gli ripigliava, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai l'animo non ci regge a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio che durò più di quattr'ore; e dopo il quale ci converrà pur trapassare per altre ore angosciose. Trasportiamoci al castello dove l'infelice era aspettata. Era aspettata dall'innominato, con una sollecitudine, con una sospension d'animo insolita. Cosa strana! egli che a cuore imperturbato aveva disposto di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva computate per nulla le ambasce da lui fatte patire, se non talvolta per assaporare in esse una selvaggia voluttà di vendetta, ora nell'arbitrio che esercitava sopra questa Lucia, una sconosciuta, una meschina forese, sentiva come un ribrezzo, un rincrescimento, direi quasi un terrore. Da un'alta finestra del suo castellaccio guatava egli da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco la carrozza apparire, e venire innanzi lentamente: perchè quel primo correre a scappata aveva consumata la foga e domate le forze dei cavalli. E benchè, dal punto ov'egli stava a rimirare, il convoglio non paresse più che una di quelle carrozzette che i fanciulli strascinano per balocco, pure la riconobbe tosto; e sentì un nuovo e più forte battito al cuore. – Vi sarà ella? – pensò tosto; e continuava a dire tra sè: – che noia mi dà costei! Liberiamcene. – E si disponeva a domandare uno scherano, e a spedirlo subito incontro alla carrozza, ad ordinare al Nibbio che desse di volta, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò di subito nella sua mente, fece svanire quel disegno. Vessato però dal bisogno di ordinar qualche cosa, riuscendogli intollerabile l'aspettare oziosamente quella carrozza che veniva innanzi a passo a passo, come un tradimento, che so io? come un castigo, fece chiamare una sua vecchia. Era costei nata in quello stesso castello da un antico custode di esso, e vi aveva passata tutta la vita. Ciò ch'ella aveva quivi veduto e inteso fin dalle fasce le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de' suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dalle istruzioni e dagli esempii era che bisognava obbedir loro in ogni cosa, perchè potevano far del gran male e del gran bene. L'idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo insieme coi sentimenti di un rispetto, d'un terrore, d'una cupidigia servile, s'era associata e accomodata a quelli. Quando l'innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell'uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un sentimento più profondo di soggezione. Col tempo s'era avvezza a ciò che vedeva e di che udiva parlar tutto dì: la volontà potente e sfrenata d'un tanto signore era per lei come una specie di giustizia fatale. Già matura aveva sposato un costui servo, il quale ben tosto, essendo andato ad una spedizione rischiosa, lasciò le ossa sur una strada e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore fece allor tosto di quel morto le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l'orgoglio dell'essere sotto una tal protezione. D'allora in poi non pose che ben di rado il piede fuor del castello; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee salvo quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad alcun servigio particolare, ma in quella caterva di scherani, or l'uno or l'altro le dava da fare ad ogni istante: che era il suo rodimento. Ora aveva cenci da rattoppare, ora da preparare in fretta il pasto a chi tornasse da una spedizione, ora feriti da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti eran conditi di beffe e d'improperii: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli aggiunti, che qualcuno sempre vi se n'appiccava, variavano secondo le circostanze e l'umore del parlante. Ella, sturbata nella pigrizia, e provocata nella stizza, che erano due delle sue passioni predominanti, ricambiava talvolta quei complimenti con parole, in cui Satana avrebbe riconosciuto più del suo ingegno che in quelle dei provocatori. «Tu vedi laggiù quella carrozza!» le disse il signore. «La veggo,» rispose ella, protendendo il mento affilato, e aguzzando gli occhi incavati, come se cercasse di spignerli su gli orli delle occhiaie. «Fa tosto tosto allestire una lettiga; entravi, e fatti portare alla Malanotte. Tosto tosto, che tu vi giunga prima che quella carrozza vi sia: già la viene innanzi col passo della morte. In quella carrozza v'è… vi debb'essere… una giovane. Se v'è, dì al Nibbio, per mio ordine, che la ponga nella lettiga e venga su egli tosto da me. Tu monterai nella lettiga con quella… giovane; e quando siate quassù, la condurrai nella tua stanza. S'ella ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guardati bene…» «Oh!» disse la vecchia. «Ma,» continuò l'innominato, «falle coraggio.» «Che le ho a dire?» «Che le hai a dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio altrui, quando si vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in quei momenti? Dille di quelle parole: trovale in tua malora. Va tosto.» E partita ch'ella fu, si fermò egli alquanto alla finestra, cogli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande d'assai; poscia guardò al sole, che in 'quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò alle nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero quasi in un istante di fuoco. Si ritrasse, chiuse la finestra, e si mise a passeggiare innanzi e indietro per la stanza con un passo di viaggiatore frettoloso. La vecchia era corsa ad obbedire e a comandare coll'autorità di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato, faceva là entro sollecitare ognuno; perchè a nessuno veniva in pensiero che altri potesse mai arrischiarsi di spenderlo falsamente. Ella si trovò infatti alla Malanotte un po' prima che la carrozza vi arrivasse; e vedutala venire, uscì di lettiga, fe' segno al cocchiere che si rattenesse, si avvicinò allo sportello, e al Nibbio che mise il capo fuori disse all'orecchio la volontà del padrone. Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Provò un nuovo soprassalto di terrore, spalancò la bocca e gli occhi, e guatò. Il Nibbio s'era tirato indietro, e la vecchia, col mento su lo sportello, guardando Lucia, diceva: «venite, la mia giovane, venite poverina; venite con me, che tengo ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.» Al suono d'una voce femminile, la poveretta provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma tosto ricadde in uno spavento più cupo. «Chi siete?» diss'ella con voce tremante, fissando lo sguardo attonito sul volto della vecchia. «Venite, venite, poverina,» andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente indolcita di colei quali fossero le intenzioni del signore, cercavano di persuader colle buone l'oppressa ad obbedire. Ma ella guatava pur fuori; e benchè il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de' suoi guardiani non le lasciassero concepire speranza di soccorso, pure apriva la bocca a gridare; ma veggendo il Nibbio fare gli occhiacci del fazzoletto, si tacque, tremò, si storse, fu presa e messa nella lettiga. Dopo lei vi entrò la vecchia; il Nibbio lasciò ai due altri manigoldi che andassero dietro per iscorta, e prese speditamente la salita, per accorrere alla chiamata del signore. «Chi siete?» domandava con ansia Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: «perchè son con voi? Dove sono? Dove mi conducete?» «Da chi vuol farvi del bene,» rispondeva la vecchia, «da un gran… Fortunati quelli a cui egli vuoi fare del bene! Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura, state allegra; che m'ha comandato di farvi coraggio. Gli direte, neh? che v'ho fatto coraggio.» «Chi è? Perchè? Che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine…!» Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione nei primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo nè forse udito proferire, faceva nella mente della sciagurata che allor l'udiva, una specie confusa, strana, lenta; come il ricordo della luce e delle forme, in un vecchione accecato dall'infanzia. Intanto l'innominato, ritto su la porta del castello, mirava in giù; e vedeva la lettiga, a passo a passo come prima la carrozza, salire, salire; e dinanzi, ad una distanza che cresceva ad ogni momento, venir sollecitamente il Nibbio. Quando questi ebbe toccata la cima, «vien qua,» gli disse il signore; e precorrendolo, entrò, e andò in una stanza del castello. «Ebbene?» disse, fermandosi quivi. «Tutto a puntino,» rispose, inchinandosi, il Nibbio: «l'avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un grido solo, nessun comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma…» «Ma che?» «Ma… dico il vero, che avrei avuto più caro che l'ordine fosse stato di darle un'archibugiata nella schiena; senza sentirla parlare, senza vederla in volto.» «Che? che? che vuoi tu dire?» «Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo… Mi ha fatto troppa compassione.» «Compassione! Che sai tu di compassione? Che cosa è compassione?» «Non l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un po' come la paura: se uno le lascia pigliar possesso, non è più uomo.» «Sentiamo un po' come ha fatto costei per muoverti a compassione.» «O signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far certi occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole…» – Non la voglio in casa costei, – pensava tra sè intanto l'innominato. – In mal punto mi sono impegnato; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà lontana… – E levando la faccia in atto imperioso verso il Nibbio, «ora,» gli disse, «metti da parte la compassione: monta a cavallo, piglia un compagno, due se vuoi; e va, va, fin che sii giunto a casa di quel don Rodrigo, tu sai. Digli che mandi tosto… ma tosto, perchè altrimenti…» Ma un altro no interno più imperioso del primo gl'inibì di finire. «No,» disse con voce risoluta, quasi per esprimere a sè stesso il comando di quella voce segreta. «No: va riposa; e domattina… farai quello che ti dirò!» – Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimaso solo, in piede, colle braccia incrocicchiate sul petto, e col guardo immoto sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra elevata, disegnava un quadrato di luce pallida tagliata a scacchi dalle grosse sbarre di ferro, e frastagliata più minutamente dai piccioli compartimenti delle vetriere. – Un qualche demonio, o… un qualche angiolo che la protegga… Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina per tempo, fuori di qui costei; al suo destino: e non se ne parli più, e, – proseguiva seco stesso, con quell'animo con cui si fa un comandamento ad un ragazzo indocile, sapendo che non obbedirà, – e non ci si pensi più. Quell'animale di don Rodrigo non mi venga a rompere il capo con ringraziamenti; che… non voglio più sentir parlare di costei. L'ho servito perchè… perchè ho promesso: e ho promesso, perchè… è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio colui. Vediamo un po'… – E voleva ghiribizzare qualche opera scabrosa da imporre a don Rodrigo per compenso, e quasi per pena; ma gli si venner di nuovo a gittar per traverso alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! – Come dee aver fatto costei? – continuava, strascinato da quel pensiero. – Voglio vederla. Eh no. Sì, voglio vederla. – E d'una stanza in un'altra, trovò una scaletta, e su a tentone, si portò alla stanza della vecchia; picchiò col piede nelle imposte. «Chi è?» «Apri.» A quella voce la vecchia fe' tre salti; e tosto s'udì il paletto scorrere romoreggiando negli anelli, e le imposte si spalancarono. L'innominato dalla soglia girò un'occhiata nella stanza; e al lume d'una lucerna che ardeva sur un trespolo, vide Lucia acquattata per terra, nell'angolo il più lontano dalla porta. «Chi ti ha detto che tu la gittassi là come un sacco di cenci, malnata?» disse alla vecchia, con un cipiglio iroso. «S'è posta dove ha voluto,» rispose umilmente colei: «io ho fatto il possibile per farle coraggio: lo può dire anch'essa; ma non c'è verso.» «Levatevi,» diss'egli a Lucia, fattosele presso. Ma ella, a cui il picchiare, l'aprire, la pedata, la voce, avevan portato un nuovo e più oscuro sgomento nell'animo sgomentato, stavasi più che mai raggomitolata nell'angolo, col volto occultato nelle palme, e non si movendo se non in quanto tremava tutta. «Levatevi, che non voglio farvi male… e posso farvi del bene,» ripetè il signore… «Levatevi!» tuonò poi quella voce, irata dell'aver due volte comandato invano. Come rinvigorita dallo spavento, l'infelicissima si rizzò subitamente ginocchioni; e giugnendo le palme, come si sarebbe posta dinanzi ad una immagine sacra, alzò gli occhi al volto dell'innominato, e riabbassandoli tosto, disse: «son qui: mi uccida.» «V'ho detto che non voglio farvi male,» rispose con voce mitigata l'innominato, affisando quelle fattezze perturbate dall'accoramento e dal terrore. «Coraggio, coraggio,» diceva la vecchia: «se vi dice egli stesso che non vuol farvi male…» «E perchè,» riprese Lucia con una voce in cui fra il tremito dello spavento si sentiva pure una certa sicurezza della indegnazione disperata, «perchè mi fa ella patire le pene dell'inferno? Che le ho fatto io?…» «V'hanno forse maltrattata? Parlate.» «Oh maltrattata! M'hanno presa a tradimento, per forza! Perchè? Perchè m'hanno presa? Perchè son qui? Dove sono? Sono una povera creatura: che le ho fatto? Nel nome di Dio…» «Dio, Dio,» interruppe l'innominato: «sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sè, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Che cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi…?» e lasciò la frase a mezzo. «O Signore! pretendere! Che cosa posso pretendere io poveretta, se non ch'ella mi usi misericordia? Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare. Non torna conto ad uno che ha da morire far tanto patire una povera creatura. Oh! ella che può comandare, dica che mi lascino andare! M'hanno portata qui per forza. Mi faccia chiudere ancora con questa donna, e mi faccia portare a ***, dov'è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! Mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontano da qui… ho veduto i miei monti! Perchè mi fa ella patire? Mi faccia portare in una chiesa; pregherò per lei, tutta la mia vita. Che cosa le costa dire una parola? Oh ecco! ella si muove a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!» – Oh perchè non è figlia d'uno di quei sozzi che m'hanno bandito! – pensava l'innominato: – d'uno di quei vili che mi vorrebbero morto ! che ora godrei di questo suo guaire; e invece… – «Non iscacci una buona inspirazione!» proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert'aria di esitazione nel volto e nel contegno del suo tiranno. «S'ella non mi fa questa misericordia, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma ella… Forse un giorno anche ella… Ma no, no; pregherò io sempre il Signore che la preservi da ogni male. Che cosa le costa dire una parola? S'ella provasse a patire queste pene…!» «Via, fate animo,» interruppe l'innominato con una dolcezza che fece strabiliare la vecchia. «V'ho io fatto nessun male? V'ho io minacciata?» «Oh no! Vedo ch'ella ha buon cuore, e sente pietà di questa povera creatura. S'ella volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e invece ella mi ha… un po' allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l'opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.» «Domattina…» «Oh mi liberi adesso, adesso…» «Domattina ci rivedremo, dico. Via, intanto fate buon cuore. Riposate. Voi dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.» «No, no; io muoio se alcuno entra qui: io muoio. Mi conduca ella in chiesa… quei passi, Dio glieli conterà.» «Verrà una donna a portarvi da mangiare,» disse l'innominato; e dettolo, rimase stupito anch'egli come gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e come gli fosse nato il bisogno di cercarne uno per rassicurare una donnicciuola. «E tu,» riprese poi subitamente, rivolto alla vecchia, «falle animo a mangiare, mettila a riposare in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti tu puoi ben dormire una notte sul pavimento. Rincorala, ti dico; tienla allegra. E ch'ella non abbia a lagnarsi di te!» Così detto, si mosse rapidamente verso la porta. Lucia si levò e corse per rattenerlo e rinnovare la sua preghiera; ma egli era sparito. «Oh povera me! Chiudete, chiudete tosto.» E udito ch'ebbe le imposte batter l'una contra l'altra, e il paletto scorrere, tornò ad appiattarsi nel suo angolo. «Oh povera me!» sclamò di nuovo singhiozzando: «chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore… quegli che mi ha parlato?» «Chi è, eh? Chi è? Volete ch'io ve lo dica, io. Aspetta ch'io te lo dica. Perchè vi protegge, avete preso superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar me di mezzo. Domandatene a lui. S'io vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete intese voi.» – Io son vecchia, son vecchia io, – continuò mormorando fra i denti. – Maladette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione. – Ma udendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e con voce rimessa ed umana ripigliò: «via, non vi ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto state di buon animo. Uh se sapeste! quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco… al modo che vi ha parlato, so che ci sarà del buono. E poi vi corcherete, e… mi lascerete bene un cantoncello anche a me,» soggiunse con un accento di rancore compresso. «Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non vi accostate; non partite di qui!» «No, no, via,» disse la vecchia ritraendosi a sedere sur una scrannaccia, donde gittava verso la poveretta certe occhiate di terrore e d'astio insieme; e poi guardava al suo letto, rodendosi del cruccio di esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contra il freddo. Ma ricreava la mente col pensiero della cena, e colla speranza che ve ne sarebbe anche per lei. Lucia non si accorgeva del freddo, non risentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de' suoi dolori, de' suoi terrori stessi che un sentimento confuso, simile alle immagini sognate da un febbricitante. Si scosse quando udì bussare; e levando la faccia atterrita gridò: «chi è? chi è? Non venga nessuno!» «Niente, niente; buona nuova,» disse la vecchia: «è Marta che reca da mangiare.» «Chiudete, chiudete!» gridava Lucia. «Ih! subito, subito,» rispondeva la vecchia; e presa una cesta dalle mani di quella Marta, la congedò in fretta, richiuse e venne a posare la cesta sur una tavola nel mezzo della stanza. Fe' poi replicatamente invito a Lucia che venisse a godere di quelle imbandigioni. Adoperava le parole secondo lei più efficaci a far tornare il gusto alla poveretta, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza dei cibi: «di quei bocconi che, quando le persone ordinarie se ne ponno ugnere il dente, se ne ricordano per un pezzo! Del vino che bee il padrone co' suoi amici… quando capita qualcheduno di quelli…! e vogliono stare allegri! Ehm!» Ma vedendo che tutti gl'incanti riuscivano inutili, «siete voi che non volete,» disse. «Non istate poi a dirgli domani ch'io non vi ho fatto animo. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando facciate giudizio e vogliate obbedire.» Così detto si gittò avidamente sul pasto. Saziata che fu, si levò, andò verso l'angolo; e chinandosi sopra Lucia, l'invitò di nuovo a mangiare e a corcarsi. «No, no, non voglio niente,» rispose questa con voce fiacca e come sonnolenta. Poi con più risolutezza riprese: «è serrata la porta? è ben serrata?» E dopo d'essersi guardata intorno, si levò, e colle mani innanzi, con passo sospettoso, andava a quella volta. La vecchia vi corse prima di lei, stese la mano alla serratura, abbrancò la maniglia, la dimenò, scosse il paletto, e lo fece stridere contro la stanghetta che lo teneva fermo. «Sentite? vedete? è ben serrato? Siete contenta ora?» «Oh contenta! contenta io qui!» disse Lucia, allogandosi di nuovo nel suo angolo. «Ma il Signore sa ch'io ci sono!» «Venite a dormire: che volete far lì accosciata come un cane? S'è mai visto rifiutare i comodi, quando si ponno avere?» «No, no; lasciatemi stare.» «Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il buon luogo; mi corco qui su la sponda; starò disagiata per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete da fare. Ricordatevi che ve n'ho pregata più volte.» Così dicendo, si cacciò, vestita com'era, sotto la coltre: e tutto tacque. Lucia si stava immobile, raggruzzata in quell'angolo, colle ginocchia ristrette alla vita, e le mani sulle ginocchia, e il volto nelle mani. Non era il suo nè sonno nè vegliare, ma una rapida seguenza, una vicenda torbida di pensieri, d'immaginazioni, di batticuori. Ora più consapevole di sè stessa, e più distintamente ricordevole degli orrori veduti e sofferti in quel giorno, si applicava dolorosamente alle circostanze di quella oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, portata in una regione ancor più oscura, si batteva contra i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore. In questa ambascia stette ella un lungo tempo, che noi qui pure amiamo meglio di trascorrere rapidamente: alfine affranta, abbattuta, rilassò le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase per qualche pezza in uno stato più somigliante ad un sonno vero. Ma tutto ad un tratto, si risentì come ad una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perchè. Tese l'orecchio ad un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che presso a spegnersi, scoccava una luce tremola, e tosto la ritraeva per così dire, indietro, come è il venire e l'andar dell'onda in sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da lei rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di scompigliumi. Ma ben tosto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell'orribile giorno trascorso, tutti i terrori dell'avvenire l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le apportavano un nuovo terrore; e fu vinta da un tale affanno che desiderò di morire. Ma in quel punto le sovvenne ch'ella poteva pur pregare, e insieme con quel pensiero spuntò come una subita speranza di conforto. Cavò di nuovo la sua corona, e la ricominciò a dire; e a misura che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt'ad un tratto le passò per la mente un altro pensiero: che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando ella, nella sua desolazione, facesse pur qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacchè in quel momento l'animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette tosto di farne un sagrificio. Si levò in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani donde pendeva la corona, alzò la faccia e le pupille al cielo, e disse: «o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli pei poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine, rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.» Proferite queste parole, chinò la testa, e si mise la corona d'intorno al collo, quasi come un segno di consecrazione e una salvaguardia ad un tempo, come un'armadura della nuova milizia a cui s'era ascritta. Ripostasi a sedere sul pavimento, sentì entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne alla mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve sentire in quella parola una promessa di salvamento. I sensi affaticati da tanta guerra si assopirono a poco a poco in quel rabbonacciamento di pensieri: e finalmente, già presso all'aggiornare, col nome della sua protettrice tronco fra le labbra, Lucia si addormentò di un sonno perfetto e continuo. Ma v'era altri in quello stesso castello, che avrebbe pur voluto fare altrettanto, e mai non potè. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quella immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio, il signore si era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro con furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi pure in furia, s'era corcato. Ma quella imagine, più che mai presente, parve in quel punto gli dicesse: tu non dormirai. – Che sciocca curiosità da feminetta, – pensava egli, – m'è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!… Io?… Io non son più uomo, io? Che cosa è stato? Che diavolo m'è venuto addosso? Che c'è di nuovo? Non lo sapeva io prima d'ora che le donne guaiscono? Guaiscono anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! Non ho io mai inteso piagnucolar femine? – E qui, senza ch'egli si affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da per sè gli rappresentò più d'un caso in cui nè preghi nè lamenti non l'avevano punto smosso dal compiere le sue risoluzioni. Ma la memoria di tali imprese, non che gli desse la baldanza, che già gli mancava, di compier questa; non che estinguesse nell'animo quella molesta pietà; vi portava anche una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Tanto che gli parve un sollievo il tornare a quella prima imagine di Lucia contra la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. – È viva costei, – diceva: – è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quella faccia mutarsi, le posso anche dire: perdonatemi… Perdonatemi? Io domandar perdono? ad una femina? Io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, togliermi da dosso un po' di questa diavoleria, la direi; eh! sento, che la direi. A che son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via! – disse poi, dando una volta arrabbiata nel covacciolo divenuto duro duro, sotto la coltre divenuta greve greve: – via! le sono sciocchezze che mi son passate altre volte pel capo. Passerà anche questa. – E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcuna di quelle cose che solevano occuparlo fortemente, onde applicarlo tutto ad essa; ma non ne trovò. Tutto gli appariva mutato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desiderii, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'ad un tratto restìo per un'ombra appresa, non voleva più andare innanzi. Pensando alle imprese avviate e non compiute, invece di animarsi al compimento, invece d'irritarsi degli ostacoli, (chè l'ira in quel momento gli sarebbe sembrata soave) egli sentiva una tristezza, quasi uno sgomento dei passi già fatti. Il tempo gli si affacciò dinanzi vóto d'ogni interesse, d'ogni volere, d'ogni azione, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte le ore simiglianti a quella che gli scorreva così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi masnadieri, e non trovava una cosa che gl'importasse da comandare a nessuno di loro; anzi l'idea di rivederli, di trovarsi fra essi era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impaccio. E se volle pur trovare una faccenda pel domani, un'opera fattibile, dovè pensare che il domani poteva lasciare in libertà quella poveretta. – La libererò, sì; appena spunti il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? E l'impegno? E don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo? – A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante di un superiore, l'innominato pensò tosto a rispondere a questa che s'era fatta egli stesso, o piuttosto quel nuovo egli che cresciuto terribilmente in un tratto, sorgeva come a giudicare l'antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a pigliar l'impegno di far tanto patire, senza odio, senza timore, una infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a rinvergar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non veniva quasi a capo d'intender bene il come vi si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell'animo obbediente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di sè stesso, per rendersi ragione di un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di sceleraggine in sceleraggine: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata dai sentimenti che l'avevano fatta volere e commettere, ricompariva con una mostruosità che quei sentimenti non vi avevano allora lasciato scorgere. Elle erano tutte sue, elle erano lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente ad ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. Si levò in furia a sedere, gittò in furia le mani alla parete a canto al letto, colse una pistola, l'afferrò, la spiccò, e… al momento di finire una vita divenuta incomportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da una sollecitudine, per dir così, superstite, si lanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. Immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balla del più vile sopravvissuto; la sorpresa, il trambusto del castello al domani: ogni cosa sossopra; egli senza forza, senza voce, gittato chi sa dove. Immaginava il romore che ne sarebbe corso, i ragionamenti che se ne sarebber fatti quivi, d'intorno, lontano, la gioia de' suoi nimici. Anche le tenebre, anche il silenzio gli facevano apprendere nella morte qualche cosa di più tristo, di spaurevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se si trovasse al giorno chiaro, fuori, in faccia alla gente: gittarsi in un'acqua e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando alternamente con una forza convulsiva del pollice il cane della pistola; quando gli cadde in mente un altro pensiero. – Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'era ragazzo, di cui parlano sempre tuttavia, come se fosse cosa sicura, se quella vita non c'è, se è una invenzione dei preti; che fo io? perchè morire? che importa quello ch'io abbia fatto? che importa? È una pazzia la mia… E se c'è quest'altra vita…! – A un tal dubbio, a un tal risico, gli venne addosso una disperazione più nera, più pesante, dalla quale nè pur colla morte si poteva fuggire. Lasciò cader l'arme, e stava colle unghie nei capelli, battendo i denti, tremando con tutte le membra. Tutto ad un tratto gli si levarono nella memoria parole che aveva intese e rintese poche ore prima: – Iddio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! – E non gli tornavano già con quell'accento di umile preghiera con che erano state proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e in un'attitudine più composta, affisò gli occhi della mente in colei che aveva pronunziate quelle parole; e la vedeva, non come la sua captiva, una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazia e consolazione. Aspettava ansiosamente il giorno per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla egli stesso alla madre. – E poi? che farò domani, il resto della giornata? Che farò doman l'altro? Che farò dopo doman l'altro? E la notte? La notte, che tornerà fra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte! – E ricaduto nel vôto penoso dell'avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, un modo di vivere i giorni, le notti. Ora si proponeva di abbandonare il castello, e di andarsene in paesi lontani, dove non si fosse inteso parlar di lui; ma sentiva che egli, egli sarebbe sempre con sè: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l'animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero. Ora paventava il giorno, che doveva mostrarlo ai suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti da poi che Lucia s'era addormentata, ecco, mentre egli stava immoto a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che rendeva pure non so che di festoso. Si pose in ascolto, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e più stando, intese pur l'eco del monte, che ad ora ad ora ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, ode un altro scampanìo più vicino, pure a festa; poi un altro. – Che allegria c'è? Di che godono tutti costoro? Che buon tempo hanno? – Balzò da quel covile di spini; e vestitosi in fretta a mezzo, andò ad aprire le imposte d'una finestra, e guardò. Le montagne erano mezzo velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore, che pure andava a poco a poco crescendo, si discerneva nella via in fondo alla valle gente che passava sollecitamente, altra che usciva delle porte e s'avviava, tutti dalla stessa banda, verso lo sbocco, a destra del castello; e si poteva pur distinguere l'abito e il contegno festivo dei viandanti. – Che diavolo hanno costoro? Che c'è d'allegro in questo maladetto paese? Dove va tutta questa canaglia? – E, data una voce ad un bravo fidato che dormiva nella stanza contigua, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quegli, che non la sapeva più di lui, rispose che andrebbe tosto a pigliarne contezza. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; altri, raggiugnendo chi gli andava innanzi, si accompagnava con lui; altri, uscendo di casa, si accozzava col primo che rintoppasse nella via; e andavano insieme, come amici ad un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una pressa e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie squille, quali più, quali meno vicine e spiegate, pareva, per dir così la voce comune di quei gesti, e il supplemento delle parole che non potevano giugner lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di sapere che cosa potesse comunicare una letizia, una voglienza somigliante a tanta gente diversa. Poco stante il bravo venne a riferire che, il dì antecedente, il cardinal Federigo Borromeo arcivescovo di Milano era giunto a ***, e vi rimarrebbe tutto quel dì che allora incominciava; e che la novella sparsa la sera di questo arrivo a un gran tratto d'intorno aveva invogliati i popoli d'andare a veder quell'uomo; e si scampanava per festa insieme e per avviso. Il signore rimasto solo continuò a guardar nella valle ancor più pensoso. – Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo tormenti. Ma nessuno, nessuno ne avrà uno come il mio; nessuno avrà passata una notte come la mia! Che ha quell'uomo, per render tanta gente allegra? Qualche soldi che distribuirà così alla ventura… Ma costoro non vanno tutti per limosina. Ebbene qualche segni nell'aria, qualche parole… Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se…! Perchè non vado anch'io? Perchè no?… Andrò: che altro farei? Andrò; e gli voglio parlare: a quattr'occhi gli voglio parlare. Che gli dirò? Ebbene quel che, quel che… Sentirò che cosa sa dire egli, quest'uomo! – Presa questa confusa determinazione, finì in fretta di vestirsi, e sopra l'abito indossò una sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del militare; raccolse la terzetta rimasta in sul letto e l'attaccò alla cintura da un lato; dall'altro un'altra che spiccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui, se la pose ad armacollo; prese il cappello, si coperse, uscì della stanza; e andò prima di tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Depose fuori la carabina in un angolo presso all'uscio, e bussò, facendo insieme sentir la sua voce. La vecchia precipitò dal letto, si gittò un cencio attorno, e corse ad aprire. Il signore entrò, e girato un'occhiata per la stanza, vide Lucia ravvolta nel suo cantuccio e quieta. «Dorme?» chiese sotto voce alla vecchia: «colà, dorme? erano questi i miei ordini, sciagurata?» «Io ho fatto il possibile,» rispose questa: «ma non ha mai voluto mangiare, non ha mai voluto venire…» «Lasciala dormire in pace; guarda che tu non la disturbi; e quando si svegli… Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu la manderai a prendere che che costei possa domandarti. Quando si svegli… dille che io… che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che… farà tutto quello ch'ella vorrà.» La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sè: – che sia qualche principessa costei? – Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a fare anticamera, mandò il primo bravo che scontrò a far la guardia perchè nessun altri che quella donna mettesse il piede nella stanza; e poi uscì dal castello, e a passo veloce pigliò la discesa. Il manoscritto non nota la distanza dal castello al villaggio dove era il cardinale: ella non doveva però esser più che una buona passeggiata. Questa prossimità non la argomentiamo soltanto dall'accorrere dei valligiani a quella terra; giacchè nelle memorie dei tempi troviamo che da venti e più miglia la gente traeva per vedere una volta il cardinale Federigo: ma da tutte le cose che siam per narrare, avvenute in quel giorno, ci è forza dedurre che quel tragitto non dovesse esser lungo. I bravi che s'abbattevano sulla salita si fermavano rispettosamente al passar del signore, aspettando se mai egli avesse ordini da dare, o se volesse prenderli seco per qualche spedizione; e rimanevano attoniti di quella sua cera e delle occhiate che dava in risposta ai loro inchini. Quando poi egli si trovò al basso, nella strada publica, fu ben un'altra faccenda. Tra i primi passeggieri che lo videro, fu un bisbiglio, un guardar sospettoso, uno scostarsi di qua e di là. Per tutta la via egli non fe' due passi a paro con un altro viandante: ognuno che se lo vedeva arrivar presso, guardava adombrato, faceva un inchino, e rallentava il passo, per rimanergli addietro. Giunto al villaggio, ivi era folla; al suo apparire, il suo nome passò di bocca in bocca; e la folla si apriva. Egli si accostò ad uno di quei prudenti, e gli domandò dove fosse il cardinale. «Nella casa del curato,» rispose quegli riverentemente, e gl'indicò dov'ella fosse. Il signore vi andò, entrò in un cortiletto dov'erano molti preti, che tutti lo guardarono con una attenzione maravigliata e sospettosa. Vide dirimpetto una porta spalancata che dava adito ad un salottino, dove pure molti preti erano congregati. Si tolse la carabina di spalla, e l'appoggiò ad un angolo del cortile; poi entrò nel salottino: e quivi pure occhiate, bisbiglio, un nome ripetuto, e silenzio. Egli, voltatosi ad uno di quelli, gli chiese dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli. «Io son forestiero,» rispose l'interrogato; e tosto dato d'occhio intorno, chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino stava appunto dicendo sotto voce ad un suo compagno: «colui? quel famoso? che ha a far qui colui? alla larga!» Pure, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette venire; fece un inchino all'innominato, udì l'inchiesta, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi su quel volto, e abbassandoli tosto in sul pavimento, stette alquanto sopra di sè, poi disse o balbettò: «non saprei se monsignore illustrissimo… in questo momento… si trovi… sia… possa… Basta, vado a vedere.» E andò di male gambe a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale. A questo luogo della nostra storia noi non possiamo di meno di non fermarci qualche poco; come il viandante, stracco e attristato d'un lungo cammino per un terreno arido e salvatico, s'indugia e perde un po' di tempo all'ombra d'un bell'albero, sull'erba, presso una fonte d'acqua viva. Ci siamo avvenuti in un personaggio, il cui nome e la ricordanza, cadendo quando che sia nella mente, la ricrea con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia: or quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse d'intenderle, e avesse pur voglia di andare innanzi nella storia, salti addirittura al capitolo seguente. Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grande opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che spicciato limpido dalla roccia, senza ristagnare nè intorbidarsi mai in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gittarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, egli badò fin dalla puerizia a quelle parole di annegazione e di umiltà, a quelle massime intorno alla vanità dei piaceri all'ingiustizia dell'orgoglio, alla vera dignità e ai veri beni, che, sentite o non sentite nei cuori, vengono trasmesse da una generazione all'altra nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le pigliò in sul serio, le gustò, le trovò vere; comprese che dunque non potevano esser vere altre parole ed altre massime opposte, che pure si trasmettono d'età in età, colla stessa asseveranza, e talvolta dalle stesse labbra; e propose di prender per norma delle azioni e dei pensieri quelle che erano il vero. Per esse intese che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni; ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto: e cominciò fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa. Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che un grido già fin d'allora antico e universale segnalava per santo. Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta tuttavia il nome del loro casato; e quivi, attendendo assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di proprio moto; e furono d'insegnare la dottrina cristiana, ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl'infermi. Si valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo per attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole esercitò come un primato di esempio, un primato che, dell'ingegno e dell'animo ch'egli era, avrebbe forse egualmente ottenuto se fosse stato l'infimo per fortuna. I vantaggi d'un altro genere, che le circostanze della fortuna gli avrebbero potuto procurare, non solo non li ricercò, ma pose cura a rifiutarli. Volle una mensa piuttosto povera che frugale, usò un vestito piuttosto povero che positivo; a conformità di questo tutto il tenore della vita e il contegno. Nè credette mai di doverlo mutare, perchè alcuni congiunti facessero un gran gridare, un gran dolersi, ch'egli avvilisse così la dignità della casa. Un'altra guerra ebbe a sostenere dagl'istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di porgli innanzi, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualche cosa che lo facesse distinguere dagli altri, e apparire come il principe del luogo: o credessero eglino di farsegli graditi alla lunga con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s'invanisce e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di quei prudenti che s'adombrano delle virtù come dei vizii, predicano sempre che la perfezione è posta nel mezzo, e il mezzo lo pongono giusto in quel punto dove essi sono arrivati, e si trovano stare a loro agio. Egli, non che si arrendesse a quegli ufici, ma ne riprese gli uficiosi: e ciò tra la pubertà e la giovinezza. Che, vivente il cardinal Carlo suo maggiore di ventisei anni, dinanzi a quella presenza autorevole e, per così dire, solenne, circondata da omaggi e da un silenzio rispettoso, avvalorata da tanta fama e impressa dei segni della santità, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al talento di un tale cugino, non è certamente maraviglia; ma è ben cosa da dirsi che, dopo la morte di lui, nessuno potè accorgersi che a Federigo, allor di vent'anni, fosse mancata una guida e un censore. Il grido crescente del suo ingegno, della dottrina e della pietà, la parentela e gl'impegni di più d'un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un'idea di santità e di maggioranza sacerdotale, tutto ciò che dee, e tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar colla bocca, non v'essere giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servigio, temeva le dignità e cercava di scansarle; non certamente perchè rifuggisse dal servire altrui; chè poche vite furono spese in questo come la sua; ma perchè non si stimava abbastanza degno nè capace di così alto e pericoloso servigio. Perciò venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò quel carico senza esitare. Cedette di poi al comandamento espresso del papa. Tali dimostrazioni, e chi nol sa?, non sono nè difficili, nè rare; e all'ipocrisia non bisogna un più grande sforzo d'ingegno per farle, che alla buffoneria per deriderle a buon conto in ogni caso. Ma cessano elle perciò d'essere l'espressione naturale d'un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole che esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre belle, quando sien precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sagrificio. In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e perpetuo a non prendere per sè, dell'avere, del tempo, delle cure, di tutto sè stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de' poveri: come poi mostrasse d'intendere in fatto una tal massima, si vegga da questo. Volle che si stimasse quanto poteva importare la spesa di lui e dei famigliari addetti al suo servizio personale; e dettogli che sei cento scudi, (scudo si chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino) diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa patrimoniale a quella della mensa; non credendo che a lui doviziosissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a sè stesso, che poneva cura a non dismettere una veste la qual non fosse logora affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d'una squisita mondezza: due abitudini notabili infatti, in quell'età sudicia e sfarzosa. Così pure, affin che nulla si disperdesse de' rilievi della sua mensa frugale, gli assegnò ad un ospizio di poveri; e uno di questi, per ordine di lui, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccogliere ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d'una virtù gretta, tapina, angustiosa, d'una mente invischiata nelle minuzie e incapace di disegni elevati; se non fosse in piede questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse a tanto costo dai fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono dei già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, dei più colti ed esperti che potè avere, a farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trenta mila volumi stampati, e quattordici mila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e proveduti da lui fin che egli visse; dopo, non bastando l'entrate ordinarie a quella spesa, furon ristretti a due); e il loro ufìcio era di coltivare varii rami di studio, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, coll'obbligo ad ognuno di publicare qualche lavoro su la materia assegnatagli; vi unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio di alunni che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per professarle alla volta loro; vi unì una stamperia di lingue orientali, dell'ebraica cioè, della caldea, dell'arabica, della persiana, dell'armena; una galleria di quadri, una di statue, e una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste egli potè trovar professori già formati; pel rimanente, abbiam veduto che briga gli fosse costata la raccolta dei libri e dei manoscritti; certo più difficili a rinvenire dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora assai men coltivate in Europa che non al presente; più ancor dei tipi, gli uomini. Basti dire che, di nove dottori, otto ne prese fra i giovani alunni del seminario: dal che si può argomentare che giudizio egli facesse degli studii consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che sembra averne portato la posterità, col porre gli uni e le altre in dimenticanza. Negli ordini che lasciò per l'uso e pel governo della biblioteca appare un intento di utilità perpetua, non solamente bello per sè, ma in molte parti sapiente e gentile, assai oltre le idee e le abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio cogli uomini più dotti d'Europa, per averne notizie dello stato delle scienze e avviso dei libri migliori che venisser fuora in ogni genere, e farne acquisto; gli diè carico d'indicare agli studiosi le opere che potevano servire al loro intento, ordinò che a questi, fossero cittadini o forestieri, si prestasse il comodo di approfittare dei libri ivi serbati. Una tale intenzione dee ora parere ad ognuno troppo naturale, immedesimata colla fondazione d'una biblioteca: in allora non lo era. E in una storia dell'ambrosiana, scritta (col costrutto e colle eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi in tutto a sue spese, i libri fossero esposti alla vista di tutti, porti a chiunque li richiedesse, e datogli luogo di sedere a studio, e carta penne e calamaio per far note; mentre in qualche altra insigne biblioteca publica d'Italia i libri non erano, non che altro, visibili, ma nascosti entro armadii, donde non si cavavano se non per umanità, com'egli dice, dei presidenti, quando si sentivano di mostrarli un momento; di luogo e di agio ai concorrenti, per istudiare, non se ne aveva pure idea. Dimodochè arricchire tali biblioteche era un sottrarre libri all'uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n'era e ce n'è tuttavia molte, che isteriliscono il campo. Non domandate quali sieno stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo su la coltura publica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furono miracolosi, o che non furono niente; cercare e spiegare, fino ad un certo segno, quali sieno stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano dovesse essere colui che volle una tal cosa, la volle a quel modo, e la eseguì, in mezzo a quella ignorantaggine, a quella inerzia, a quel fastidio generale d'ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai che importa?, e c'era altro da pensare?, e che bella invenzione!, e mancava anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati di più in numero degli scudi spesi da lui in quella impresa, i quali furono cento cinque mila, la più parte de' suoi. Per chiamare un tal uomo benefico e liberale in alto grado, non si richiederebbe pure ch'egli ne avesse spesi molti altri in soccorso immediato dei bisognosi; e vi ha anche molti, nell'opinione dei quali le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, sono la migliore e la più utile elemosina. Ma nell'opinione di Federigo, l'elemosina propriamente detta era un dovere principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furono consentanei all'opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poverelli; all'occasione di questa stessa carestia, della quale ha già parlato la nostra storia, noi avremo in seguito a riferire alcuni tratti per cui si vedrà che sapienza e che gentilezza egli abbia saputo mettere anche in questa liberalità. Dei molti esempii singolari, che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui un solo. Avendo egli risaputo che un nobile usava artificii e angherie per mandar monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, ebbe il padre a sè; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non avere quattro mila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessarii a maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattro mila scudi. Forse a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci d'un superbo; e che quattro mila scudi potevano esser meglio impiegati così e colà. Al che non abbiamo nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero sovente eccessi d'una virtù così libera dalle opinioni dominanti, (ogni tempo ha le sue) così disimpacciata dalla tendenza generale, come in questo caso fu quella che mosse un uomo a dar quattro mila scudi, perchè una giovane non fosse mandata monaca. La carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il contegno. Di facile abbordo ad ogni uomo, egli credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione un volto gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più quanto essi ne trovano meno nel mondo. E qui pure ebbe a tenzonare coi galantuomini del ne quid nimis, i quali avrebbero pur voluto tenerlo a segno, al loro segno. Un di costoro, una volta che, nella visita d'un paese alpestro e salvatico, Federigo istruiva certi poveri figliuoletti, e fra l'interrogare e l'insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, lo avvertì che fosse più cauto in far tante accoglienze a quei ragazzi, perchè erano troppo lordi e stomacosi: come se supponesse, il valentuomo, che Federigo non avesse abbastanza di senso per fare una tale scoperta, o non abbastanza d'acume per cavarne da sè quel consiglio così recondito. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre così rado si trova chi gli avvisi dei loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del far bene. Ma il buon vescovo non senza risentimento, rispose: «sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che io gli abbracci?» Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per una pacatezza, per una soavità di modi imperturbabile, che si sarebbe attribuita ad una felicità straordinaria di temperamento; ed era l'effetto d'una disciplina costante sopra un'indole subita e viva. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu coi pastori suoi subordinati che scoprisse rei di avarizia, o di negligenza, o d'altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava mai segno di gioia, nè di rammarico, nè di ardore, nè di agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell'animo suo, più mirabile se vi si destavano. Non solo dai molti conclavi ai quali assistette riportò il concetto di non aver mai agognato a quel posto così desiderabile all'ambizione e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava assai, venne ad offerirgli il suo voto e quelli della sua (pur troppo così dicevano) fazione, Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quegli depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia, questo allenamento dal predominare apparivano egualmente nelle occasioni più comuni della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo debito il farlo, rifuggì mai sempre dall'impacciarsi nelle faccende altrui; anzi si scusava a tutto potere dall'ingerirvisi ricercato: discrezione e continenza non comune, come ognun sa, negli uomini zelatori del bene, quale era Federigo. Se volessimo lasciarci andare a questa vaghezza di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di notare un'altra singolarità di quella bella vita: che, piena com'ella fu di azione, di governo, di funzioni, d'insegnamento, di udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio vi ebbe luogo, ma ve n'ebbe tanto, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E in fatti, con tanti altri e diversi titoli di lode, egli ebbe in alto grado, presso i suoi contemporanei, quello d'uomo dotto. Non dobbiamo però dissimulare ch'egli tenne con ferma persuasione, e sostenne in fatto con lunga costanza qualche opinioni, che al giorno d'oggi parrebbero ad ogn'uomo piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle buone. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch'erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa, a dir vero, che quando si cavi dall'esame particolare dei fatti, può esser valida e significante; ma che applicata generalmente così nuda, come si fa d'ordinario e come dovremmo far noi in questo caso, viene a dir proprio niente. E però, non volendo risolvere con formole semplici quistioni complicate, lasceremo anche di esporle; bastandoci di avere accennato così alla sfuggita che d'un uomo così ammirabile in complesso noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse egualmente; per non parere d'aver voluto comporre una orazione funebre. Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest'uomo abbia lasciato qualche monumento. Se ne ha lasciati! Intorno a cento sono le opere che rimangono di lui, tra grandi e picciole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca fondata da lui: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, di antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e d'altro. – E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono elle dimenticate, o almeno così poco conosciute, così poco ricerche? Come mai, con tanto ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione pel buono e pel bello, con tanto candor d'animo, con tante altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo non ha, in cento opere, lasciata pur una di quelle che sono riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai tutte insieme non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri? – La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione interessante assai; perchè le ragioni di questo fenomeno si trovano, o almeno bisognerebbe cercarle in molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se le non vi andassero a genio? se vi facessero venir la muffa al naso? Sicchè sarà meglio che ripigliamo il cammino della storia, e che, invece di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a vederlo in azione, colla scorta del nostro autore. Il cardinal Federigo, intanto che venisse l'ora di uscir nella chiesa a celebrare gli ufici divini stava studiando, come era suo costume di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con una faccia inquieta e scura. «Una strana visita, strana da vero, monsignore illustrissimo!» «Chi?» domandò il cardinale. «Niente meno che il signor…» riprese il cappellano; e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: «è qui fuora, in persona; e domanda niente altro che d'essere introdotto da vossignoria illustrissima.» «Egli!» disse il cardinale, con volto animato, chiudendo il libro, e levandosi da sedere: «venga! venga tosto!» «Ma…» replicò il cappellano senza muoversi: «vossignoria illustrissima dee sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso…» «E non è egli una buona ventura per un vescovo, che ad un tal uomo sia nata la voglia di venirlo a trovare?» «Ma…» insistette il cappellano: «noi non possiamo mai parlare di certe cose, perchè monsignore dice che le son baie: però, quando viene il caso, mi pare che sia un dovere… Lo zelo fa dei nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d'un ribaldo ha osato vantarsi che un giorno o l'altro…» «E che hanno fatto?» interruppe il cardinale. «Dico che costui è un appaltatore di misfatti, un disperato che tiene corrispondenza coi disperati più furiosi, e che può esser mandato…» «Oh, che disciplina è codesta,» interruppe ancora sorridendo Federigo, «che i soldati esortino il generale ad aver paura?» Poi fatto grave e pensoso, riprese: «san Carlo non si sarebbe trovato a questo di deliberare se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar tosto: già egli ha troppo aspettato.» Il cappellano si mosse, dicendo in cuor suo: – non c'è rimedio: tutti questi santi sono ostinati. – Aperto l'uscio, e affacciatosi alla stanza dove era il signore e la brigata, vide questa ristretta in una parte a bisbigliare e a sogguardare quello, lasciato solo in un canto. Si avviò alla sua volta; e intanto squadrandolo, però sottocchio e dal collo in giù, andava pensando che diavolo d'armeria poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d'introdurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno… ma non si seppe risolvere. Gli si fece accanto, e disse: «monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me.» E precedendolo in quella picciola folla, che tosto fece ala, andava gittando a dritta e a sinistra occhiate le quali significavano: che volete? non lo sapete anche voi che fa sempre a suo modo? Saliti entrambi, il cappellano aperse la portiera e intromise l'innominato. Federigo gli venne incontro con un volto premuroso e sereno e colle palme tese dinanzi, come ad un aspettato; e tosto fe' cenno al cappellano che uscisse: il quale obedì. I due rimasti stettero alquanto taciti e diversamente sospesi. L'innominato, che era stato quivi portato, come per forza, da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, vi stava anche come per forza, straziato da due opposte passioni: quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una vergogna del venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, ad implorare un uomo: e non trovava parole, nè quasi ne cercava. Però, levando gli occhi al volto di quell'uomo, si sentiva più e più comprendere da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave che, crescendo la fiducia, addolciva il dispetto, e senza affrontar l'orgoglio, lo faceva dar luogo e tacere. La presenza di Federigo era in fatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non punto incurvato nè impigrito dagli anni; l'occhio grave e vivido, la fronte schietta e pensosa; nella canizie, nel pallore, fra le tracce dell'astinenza, della meditazione, della fatica, pure una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che in altre età v'era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine dei pensieri solenni e benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora. Egli pure tenne un istante fisso nell'aspetto dell'innominato il suo sguardo penetrante ed esercitato di lunga mano a ritrarre dai sembianti i pensieri; e sotto a quel fosco e a quel turbato parendogli di scoprire sempre più qualche cosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio di una tal visita, tutto animato, «oh!» disse: «che gioconda visita è questa! e quanto vi debbo esser grato d'una sì buona risoluzione; quantunque per me ella abbia un po' del rimprovero!» «Rimprovero!» sclamò il signore maravigliato, ma indolcito da quelle parole e da quel modo, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque. «Certo, m'è un rimprovero,» riprese questi, «ch'io mi sia lasciato prevenire da voi; quando da tanto tempo, tante volte, avrei potuto, avrei dovuto venir'da voi io.» «Da me, voi! Sapete chi sono? V'hanno ben detto il mio nome?» «E questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch'io dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto? Voi siete che me la fate provare; voi, dico, che io avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi dei miei figli, che pur tutti amo e di cuore, quello che avrei più desiderato di accogliere e di abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de' suoi poveri servi.» L'innominato stava attonito a quel porgere così infiammato, a quelle parole che rispondevano tanto risolutamente a ciò ch'egli non aveva ancor detto, nè era ben deliberato di dire; e commosso ma sbalordito, taceva. «E che?» ripigliò ancor più affettuosamente Federigo: «voi avete una buona nuova da darmi; e me la fate tanto sospirare?» «Una buona nuova? Io! Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Dite voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.» «Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol farvi suo,» rispose pacatamente il cardinale. «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?» «Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi lo ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che vi opprime, che vi agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una consolazione che sarà piena, immensa, tosto che voi lo riconosciate, lo confessiate, lo imploriate?» «Oh, certo! ho qui qualche cosa che mi opprime, che mi divora! Ma Dio! Se c'è questo Dio, se è quegli che dicono, che volete che faccia di me?» Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo con un tuono solenne, come di placida inspirazione, rispose: «che può far Dio di voi? Che vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere…» (l'innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento a udirsi parlare quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non sentirne sdegno, anzi quasi un sollievo) «che gloria,» proseguiva, Federigo «ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d'interesse; voci fors'anche di giustizia, ma di una giustizia così facile! così naturale! alcune forse, pur troppo, d'invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta fino ad oggi deplorabile sicurtà d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate che cosa Dio possa fare di voi? Chi son io, pover uomo, che sappia dirvi fin d'ora che profitto possa cavar da voi un tal Signore? che cosa Egli possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l'abbia animata, infiammata d'amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover uomo, che vi pensiate d'aver saputo da per voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Che cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? E farvi salvo? E compiere in voi l'opera della redenzione? Non sono elle cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m'infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quegli che mi comanda e m'inspira un amore per voi che mi divora!» A misura che queste parole uscivano dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da prima attonita e intenta; poi si compose ad una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi che dall'infanzia più non conoscevano le lagrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, egli si coperse colle mani il volto e scoppiò in un pianto dirotto, che fu come l'ultima e più chiara risposta. «Dio grande e buono!» sclamò Federigo, levando gli occhi e le mani al cielo: «che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perchè Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perchè mi faceste degno di assistere ad un sì giocondo prodigio!» Così dicendo, stese la mano a prender quella dell'innominato. «No!» gridò questi, «no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.» «Lasciate,» disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, «lasciate ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.» «È troppo!» disse, singhiozzando, l'innominato. «Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato vi aspetta; tante anime buone, tanti innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per udirvi: e voi vi trattenete… con chi!» «Lasciamo le novantanove pecorelle,» rispose il cardinale: «sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita. Quelle anime son forse ora ben più contente, che del vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde ora in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch'Egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l'oggetto non ancor conosciuto.» Così dicendo, stese le braccia al collo dell'innominato; il quale dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell'impeto di carità, abbracciò anch'egli il cardinale, e abbandonò su l'omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lagrime ardenti cadevano su la porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo strignevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca avvezza a portar le armi della violenza e del tradimento. L'innominato, sciogliendosi da quell'abbraccio, si coperse di nuovo gli occhi con una mano, e levando insieme la faccia, sclamò: «Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno dinanzi; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!» «È un saggio,» disse Federigo, «che Dio vi dà, per cattivarvi al suo servigio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!» «Me sventurato!» sclamò il signore: «quante, quante… cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d'intraprese, di appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho che posso romper tosto, disfare, riparare.» Federigo si fece attento; e l'innominato raccontò brevemente, ma con termini forse più efficaci d'esecrazione che non abbiam fatto noi, la sua impresa sopra Lucia, i patimenti, i terrori della poveretta, e come ella aveva implorato, e la smania che quell'implorare aveva messa addosso a lui, e come ella era ancor nel castello… «Ah, non perdiam tempo!» sclamò Federigo ansante di pietà e di sollecitudine. «Beato voi! Questa è arra del perdono di Dio! far che possiate diventar stromento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio v'ha benedetto! Sapete d'onde sia questa nostra povera travagliata?» Il signore nominò il paese di Lucia. «Non è lontano di qui,» disse il cardinale: «lodato sia Dio; e probabilmente…» Così dicendo, corse ad un tavolino, e scosse un campanello. E tosto entrò con ansietà il cappellano crocifero, e la prima cosa guardò all'innominato: e vista quella faccia tramutata, e quegli occhi rossi di pianto, guardò al cardinale; e fra mezzo a quella inalterabile compostezza, scorgendogli in volto come un grave contento, una straordinaria sollecitudine, era per rimanere estatico colla bocca aperta, se il cardinale non l'avesse tosto svegliato da quella contemplazione, chiedendogli se tra i parrochi quivi radunati si trovasse quello di ***. «C'è, monsignore illustrissimo,» rispose il cappellano. «Fatelo entrar tosto,» disse Federigo, «e con lui il parroco qui della chiesa.» Il cappellano uscì, e andò nella stanza dove erano quei preti congregati: tutti gli occhi si rivolsero a lui. Egli, colla bocca tuttavia aperta, col volto ancor tutto dipinto di quell'estasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: «signori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi.» E stette un momento senza dir altro. Poi ripigliando il tuono e la voce della carica, soggiunse: «sua signoria illustrissima e reverendissima domanda il signor curato della parrocchia, e il signor curato di ***.» Il primo chiamato si fece tosto innanzi; e nello stesso tempo uscì di mezzo alla folla un «io?» strascicato, con una intonazione di maraviglia. «Non è ella il signor curato di ***?» riprese il cappellano. «Per l'appunto; ma…» «Sua signoria illustrissima e reverendissima domanda lei.» «Me?» disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrare io? Ma questa volta insieme colla voce venne fuori l'uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con una cera fra l'attonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno della mano, che voleva dire: a noi, andiamo, tanto si pena? E precedendo i due curati, andò all'uscio, l'aperse, e gl'introdusse. Il cardinale lasciò andar la mano dell'innominato, col quale intanto aveva concertato il da farsi; si staccò alquanto, e chiamò a sè con un cenno il curato della chiesa. Gli disse succintamente di che si trattava; e se saprebbe trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello a prender Lucia: una donna di cuore e valente, da sapersi ben governare in una spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più adattate, a rincorare, a tranquillare quella poveretta, a cui, dopo tante angosce e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell'animo una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva il caso, e partì. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al quale impose che facesse tosto approntare la lettiga e i lettighieri, e bardar due mule da cavalcare. Partito anche il cappellano, si volse a don Abbondio. Questi, che già gli stava presso per tenersi lontano da quell'altro signore, e che intanto lanciava un'occhiatina di sotto in su ora all'uno ora all'altro, almanaccando tuttavia tra sè che cosa mai potesse essere tutta quella manifattura, si trasse innanzi un passo, fece un inchino, e disse: «mi hanno significato che vostra signoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbian pigliato equivoco.» «Non è equivoco altrimenti,» rispose Federigo: «ho una lieta nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi andrete ora con lui, e con una donna che il signor curato di qui è andato cercando, andrete, dico, a prendere quella vostra creatura, e l'accompagnerete qui.» Don Abbondio fece il possibile per celare la noia, che dico?, l'affanno e l'amaritudine che gli recava una tale proposta, o comando; e non essendo più a tempo a sciogliere e a discomporre una brutta smorfia già formata sul suo volto, la nascose, chinandolo profondamente, in segno di accettazione obediente. E non lo levò che per fare un altro profondo inchino all'innominato, con una sguardata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis. Gli domandò poi il cardinale che parenti avesse Lucia. «Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre,» rispose don Abbondio. «Si trova ella a casa?» «Monsignor sì.» «Giacchè,» riprese Federigo, «quella povera giovane non potrà esser così tosto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di vedere al più presto la madre: però, se il signor curato di qui non torna prima ch'io vada alla chiesa, io prego voi che gli vogliate dire che trovi un baroccio o una cavalcatura, e spedisca un uomo di giudizio a cercare quella madre, per condurla qui.» «E se andassi io?» disse don Abbondio. «No, no, voi: v'ho già pregato d'altro,» rispose il cardinale. «Diceva io,» replicò don Abbondio, «per disporre quella povera madre. E una donna molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere pel suo verso, per non farle male in luogo di bene.» «E per questo vi prego che il signor curato sia avvertito da voi di scegliere un uomo di proposito: voi farete miglior opera altrove,» rispose il cardinale. E avrebbe voluto dire: quella povera giovane ha ben altro bisogno di veder tosto una faccia conosciuta e fidata, in quel castello, dopo tante ore di spasimo, e in una terribile oscurità dell'avvenire. Ma questa non era ragione da dirsi così chiaramente dinanzi a quel terzo. Parve però strano al cardinale che don Abbondio non l'avesse intesa per aria, anzi pensata da sè; e così fuor di luogo gli parve la proferta e l'insistenza, che pensò dovervi essere altro sotto. Gli guardò in cera, e vi scorse agevolmente la paura di viaggiare con quell'uomo tremendo, di essergli ospite, anche per pochi istanti. Volendo quindi dissipare affatto quell'ombre codarde, e non gli piacendo di tirare in disparte il curato e di parlottargli in segreto, mentre il suo novello amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di fare ciò che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all'innominato medesimo; e dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quegli non era più uomo da averne paura. Si avvicinò dunque all'innominato, e con quell'aria di spontanea confidenza che si trova in una nuova e potente affezione come in una antica intrinsichezza, «non crediate,» gli disse, «ch'io mi contenti di questa visita per oggi. Voi tornerete, n'è vero?, in compagnia di questo dabbene ecclesiatico?» «S'io tornerò?» rispose l'innominato: «quando voi mi rifiutaste, io mi rimarrei ostinato alla vostra porta, come il mendico. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di udirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!» Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: «farete dunque il favore al parroco di questo paese e a me di pranzar con noi. Vi aspetto. Intanto, io vado a pregare, e a render grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia.» Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veggia uno accarezzare sicuramente un suo cagnaccio grosso, ispido, cogli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice nè approva; guarda il cane e non ardisce accostarsegli per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per vezzo; non ardisce allontanarsi, per non parere un dappoco; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia! Al cardinale, che s'era mosso per uscire, tenendo sempre per mano e traendo seco l'innominato, diè di nuovo nell'occhio il pover uomo, che rimaneva indietro, goffo, mortificato, con tanto di muso. E pensando che forse quel cruccio gli potesse anche venire dal parergli d'esser trascurato e come lasciato in un canto, massimamente a rincontro di un facinoroso così accolto, così careggiato, se gli volse in passando, ristette un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: «signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questi… questi perierat, et inventus est.» «Oh quanto me ne consolo !» disse don Abbondio, facendo una gran riverenza ad entrambi in comune. L'arcivescovo andò innanzi, sospinse le imposte, le quali furono tosto spalancate per di fuori da due famigliari, che vi stavano ai lati: e la mirabile coppia apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro quei due volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma egualmente profonda: una tenerezza riconoscente, una umile gioia su le forme venerabili di Federigo; su quelle dell'innominato una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore, una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura. E si seppe di poi che a più d'uno dei risguardanti era allor sovvenuto quel d'Isaia: il lupo e l'agnello andranno ad un pascolo; il leone e il bue strameggeranno insieme. Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò. Quando furono al mezzo della stanza, entrò dall'altra parte l'aiutante di camera del cardinale, e gli si accostò a riferire che aveva eseguiti gli ordini comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule erano in pronto, e si aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli disse che, al giugner di questo, avvertisse di farlo parlare con don Abbondio; e tutto poi fosse agli ordini di questo e dell'innominato, al quale strinse di nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: «v'aspetto.» Si volse a salutar col capo don Abbondio, e si avviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli tenne dietro, tra in frotta e in processione: i due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza. Stava l'innominato tutto raccolto in sè, pensoso, impaziente che venisse il momento di andare a tor di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso così diverso da quello che lo fosse il giorno antecedente: e il suo volto esprimeva un'agitazione concentrata, che all'occhio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualche cosa di peggio. Lo traguardava, lo sogguardava, avrebbe voluto appiccare un discorso amichevole: – ma che cosa ho da dirgli? – pensava: – di nuovo, mi consolo? Mi consolo di che? che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel complimento! Eh eh eh! comunque io volti le parole, il mi consolo non vorrebbe dir altro. E se sarà poi vero che sia diventato galantuomo: così in un subito! Delle dimostrazioni se ne fa tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca d'andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me l'avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, mi ha da sentire la signora Perpetua, d'avermi cacciato qui per forza, quando non v'era necessità, fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi d'intorno accorrevano, anche più da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest'altro; e imbarcarmi in un negozio di questa sorte. Oh povero me! Pure qualche cosa bisognerà dire a costui. – E aveva trovato di dirgli: non mi sarei mai aspettato questa fortuna d'incontrarmi in una così rispettabile compagnia; e stava per aprire la bocca, quando entrò l'aiutante di camera col curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga; e poi si volse a don Abbondio per ricevere da lui l'altra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come potè in quella confusione di mente; e accostatosi poi all'aiutante gli disse: «mi dia almeno una bestia quieta; perchè, dico il vero, sono un povero cavalcatore.» «Si figuri,» rispose l'aiutante, con un mezzo sogghigno: «è la mula del segretario, che è un letterato.» «Basta…» replicò don Abbondio, e continuò pensando: – il cielo me la mandi buona. – Il signore s'era incamminato vogliosamente al primo annunzio: giunto in su la soglia, s'accorse di don Abbondio ch'era rimasto indietro. Lo stette ad aspettare; e quando questi arrivò frettoloso in aria di chieder perdono, lo inchinò, e lo fece passare innanzi, con un atto cortese ed umile; il che racconciò alquanto lo stomaco al povero tribolato. Ma appena posto piede nel cortiletto, vide un'altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l'innominato andar verso l'angolo, prender per la canna con una mano la sua carabina, poi per la cigna coll'altra, e con un movimento spedito, come se facesse l'esercizio, porsela ad armacollo. – Ohi! ohi! ohi! – pensò don Abbondio: – che vuoi fame di quell'ordigno, costui? Bel cilicio, bella disciplina da convertito! E se gli monta qualche bizzarria? Oh che spedizione! oh che spedizione! – Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la mente al suo compagno, non si può dire che cosa non avrebbe fatto per rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio si guardava bene di fare un atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria. Giunti all'uscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine: l'innominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere. «Vizii non ne ha?» disse all'aiutante di camera don Abbondio, con un piede sospeso nella staffa, e l'altro piantato ancora in terra. «Vada pur su di buon animo: è un agnello,» rispose quegli. Don Abbondio, aggrappandosi alla sella, sorretto dall'aiutante, su, su, su, è a cavallo. La lettiga che stava dinanzi qualche passo, portata pur da due mule, si mosse ad una voce del lettighiero; e il convoglio partì. Si doveva passare davanti alla chiesa zeppa di popolo, per una piazzetta zeppa anch'essa d'altro popolo paesano e avveniticcio che non aveva potuto capire in quella. Già la gran novella era corsa; e all'apparire del convoglio, all'apparire di quell'uomo oggetto ancor poche ore prima di terrore e d'esecrazione, ora di lieta maraviglia, si levò nella folla un mormorìo quasi d'applauso; e facendo largo, si faceva pur ressa per vederlo da vicino. La lettiga passò, l'innominato passò; e dinanzi alla porta spalancata della chiesa, si trasse il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta fin su la chioma della mula, fra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la benedica! Don Abbondio cavò pure il suo cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma udendo il concerto solenne dei suoi confratelli che cantavano alla distesa, sentì una invidia, una mesta tenerezza, un tale assalto di pietà al cuore, che durò fatica a tener le lagrime. Fuori poi dell'abitato, nell'aperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto deserti della via, un velo più scuro si stese sui suoi pensieri. Altro oggetto non aveva su cui riposar fidatamente lo sguardo, che il lettighiero, il quale, appartenendo alla famiglia del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene, e con questo non aveva aria d'imbelle. Di tempo in tempo comparivano viandanti, anche a frotte, che accorrevano a vedere il cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma s'andava verso quella valle tremenda, dove non s'incontrerebbe che sudditi dell'amico: e che sudditi! Coll'amico avrebbe desiderato ora più che mai di entrare in discorso, così per tastarlo sempre più, come per tenerlo in buona; ma a vederlo così preoccupato gliene andava via la voglia. Dovette dunque parlare seco stesso: ed ecco una parte di ciò che il pover uomo si disse in quel tragitto: che, a scrivere il tutto, ci sarebbe da fame un libro. – È un gran dire che tanto i santi come i birboni debbano aver l'argento vivo addosso, e non si contentino di dimenarsi, di affannarsi loro, ma vogliano tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni debbano proprio venire a trovar me, che non cerco nessuno, tirarmi pei capelli nei loro affari, me che non domando altro che d'esser lasciato vivere! Quel ribaldo matto di don Rodrigo ! Che cosa gli mancherebbe per esser l'uomo il più beato del mondo, se avesse appena un tantino di giudizio? Egli ricco, egli giovane, egli rispettato, egli corteggiato: ha male di troppo bene, e bisogna che vada accattando guai per sè e pel prossimo. Potrebbe fare il mestier di Michelaccio; signor no: vuol fare il mestiere di molestar le femine, il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo: potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuole andare a casa del diavolo a piè zoppo. E costui?… – E qui lo guardava, come avesse sospetto che quel costui udisse i suoi pensieri. – Costui! dopo aver messo sottosopra il mondo colle sceleratezze, adesso lo mette sottosopra colla conversione… se sarà vero. Intanto la sperienza tocca a me di farla!… Tanto che, quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che facciano sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, come ho fatto io? Signor no: s'ha da squartare, ammazzare, fare il diavolo… oh povero me!… e poi uno scompiglio anche per far penitenza. La penitenza, quando si ha buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tanto apparato, senza dar tanto incomodo al prossimo. E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quello che gli dice costui, come se lo avesse veduto far miracoli; e di lancio pigliare una risoluzione, darvi dentro colle mani e co' piedi, presto di qua, presto di là; a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una caparra di niente, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giucare un uomo a pari o caffo. Un vescovo santo, com'egli è, dei curati dovrebbe tenerne conto come della pupilla degli occhi suoi. Un tantino di flemma, un tantino di prudenza, un tantino di carità, pare a me che possa stare anche con la santità… E se fosse tutto una mostra? Chi può conoscere tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca di andar con lui, a casa sua! Ci può esser qualche diavolo sotto: oh povero me! è meglio non pensarci. Che imbroglio è questo di Lucia? Si vede che v'era un'intesa con don Rodrigo: che gente! e purchè la sia proprio così: ma come l'ha avuta nell'unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore; e a me, che fanno trottare a questo modo, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i fatti d'altri; ma quando uno ci ha da metter la pelle, ha anche ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza! Benchè, poteva ben condurla con sè addirittura. E poi, se è così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c'era di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anch'ella debb'essere scampata d'un gran punto: sa il cielo che cosa ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina… Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui come la pensa. Chi lo può capire? Ecco lì; ora pare sant'Antonio nel deserto, ora pare Oloferne in persona. Oh povero me! povero me! Basta; il cielo è in obbligo di aiutarmi, perchè non mi ci son messo io di mio capriccio. – In fatti sul volto dell'innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un'ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando a ogni tratto una luce arrabbiata e un tristo rezzo. L'animo, ancor tutto inebriato delle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito nella novella vita, si elevava a quelle idee di misericordia, di perdono e d'amore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con ansia a cercare quali fossero le iniquità riparabili, che cosa si potesse troncare a mezzo, quali rimedii più spediti e più sicuri, come sviluppar tanti nodi, che fare di tanti complici: era una scurità a pensarvi. A quella stessa spedizione, che era la più facile e così vicina al termine, andava con una voglia mista d'angoscia, pel pensiero che intanto quella creatura pativa, Dio sapeva quanto, e che egli, il quale pure ardeva di liberarla, era egli che la teneva intanto a patire. A ogni bivio il lettighiero si volgeva per avere indirizzo della via: l'innominato la segnava colla mano, e insieme accennava che affrettasse. Si entra nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa, della quale aveva inteso raccontar tante nere, orribili storie, esservi dentro: quei famosi uomini, il fiore della braverìa d'Italia, quegli uomini senza paura e senza misericordia, vederli in carne ed ossa, incontrarne uno o due o tre a ogni volta di canto. Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi abbronzati! certi mustacchi irsuti! certi occhiacci, che a don Abbondio sembrava volesser dire: fargli la festa a quel prete? Tanto che, in un punto di somma costernazione, scappò a pensare: – gli avessi maritati! di peggio non mi poteva accadere. – Intanto s'andava innanzi, per un sentiero ghiaioso, lungo il torrente: al di là quel prospetto di balze erme e ferrigne; al di qua quella popolazione da far parere desiderabile ogni deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge. Si passa davanti la Richelieu; bravacci in su l'uscio, inchini al signore, occhiate al suo compagno e alla lettiga. Coloro non sapevano che si pensare: già la partenza dell'innominato soletto alla mattina aveva dello straordinario; il ritorno non lo era meno. Era una preda ch'egli conduceva? E come l'aveva fatta da per sè? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva essere quella livrea? Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perchè questo era l'ordine ch'egli dava loro coll'occhio e colla cera. Si fa la salita, si è in cima. I bravi che sono in su la spianata e in su la porta si ritirano di qua e di là, per lasciare il passo: l'innominato fa loro segno che non si muovano più; sprona e passa davanti alla lettiga, accenna al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da quello in un secondo; va verso una porticina, fa stare indietro con un gesto un bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: «tu là, e nessuno più presso.» Smonta, e colle redini in mano va alla lettiga, s'accosta alla donna, che aveva tirata la cortina, e le dice sotto voce: «consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano d'amici. Dio ve ne rimeriterà.» Poi ordina al lettighiero che apra, e faccia scender la donna. Poi s'avvicina a don Abbondio, e con un sembiante così sereno come questi non gliel'aveva ancor visto nè credeva ch'egli lo potesse avere, con dipintavi su la gioia dell'opera buona che finalmente stava per compiere, gli porse la mano a scendere, e gli disse pur sottovoce: «signor curato, io non le chieggo scusa del disturbo ch'ella ha a sofferire per cagion mia: ella lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poveretta!» Quel volto e quelle parole rimisero il cuore in corpo a don Abbondio; il quale, tratto un sospiro che da un'ora gli s'aggirava dentro, senza mai trovar l'uscita, rispose, se con voce sommessa non lo domandate: «mi burla, vossignoria? Ma, ma, ma, ma…!» E accettata la mano che gli veniva così cortesemente offerta, sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. L'innominato prese le redini anche di quella, e insieme colle altre le consegnò al lettighiero, ingiugnendogli che stesse lì fuori aspettando. Tolse una chiave di tasca, aperse la porticina, fece entrare il curato e la donna, entrò anch'egli, si mosse dinanzi a loro, andò alla scaletta; e tutti e tre salirono in silenzio. Lucia s'era risentita da poco tempo; e di quel tempo una parte aveva penato a sdormentarsi affatto, a sceverare le torbide visioni del sonno dalle memorie e dalle immagini di quella realtà troppo simigliante ad una funesta visione d'infermo. La vecchia le si era tosto fatta accanto, e con quella voce forzatamente umile le aveva detto: «ah! avete dormito? Avreste potuto dormire in letto: ve l'ho pur detto tante volte ier sera.» E non ricevendo risposta, aveva continuato pur con un tuono di supplicazione stizzosa: «mangiate una volta: abbiate giudizio. Uh come siete brutta! Avete bisogno di mangiare. E poi se, quando torna, la piglia con me!» «No, no; voglio andar via, voglio andare da mia madre. Il padrone me l'ha promesso, ha detto: domattina. Dov'è il padrone?» «È partito; ma ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che volete.» «Ha detto così? ha detto così? Ebbene; io voglio andar da mia madre; subito, subito.» Ed ecco s'ode un romor di pedate nella stanza vicina; poi un picchio all'uscio. La vecchia accorre, domanda: «chi è?» «Apri,» risponde sommessamente la nota voce. Quella tira il paletto; l'innominato, spignendo leggermente le imposte, fa un po' di spiraglio, ordina alla vecchia di venir fuori, e intromette tosto don Abbondio colla buona donna. Socchiude poi di nuovo le imposte, vi si ferma dietro e fa andare la vecchia in una parte lontana del castellaccio; come aveva già rimandata l'altra donna che stava fuori a guardia. Tutto questo movimento, quell'istante di aspetto, il primo apparire di persone nuove cagionarono un soprassalto di agitazione a Lucia, alla quale, se lo stato presente era intollerabile, ogni mutazione però era una contingenza di spavento. Guardò, vide un prete, una donna; si rincorò alquanto; guarda più fiso; è egli o non è? Riconosce don Abbondio, e rimane con gli occhi fissi come incantata. La donna, venutale presso, si chinò sopra di lei, e mirandola pietosamente, prendendole ambe le mani come per carezzarla e per sollevarla ad un tempo, le disse: «oh poveretta! venite, venite con noi.» «Chi siete?» domandò Lucia; ma, senza udir la risposta, si volse ancora a don Abbondio che stava in piede, due passi discosto, con una cera anch'egli tutta compassionevole; lo affisò di nuovo, e sclamò: «lei! E lei? Il signor curato? Dove siamo?… Oh povera me! son fuori del sentimento!» «No, no,» rispose don Abbondio: «son io da vero: fatevi animo. Vedete? siam qui per condurvi via. Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a cavallo…» Lucia, come riacquistate in un tratto tutte le sue forze, si rizzò precipitosamente in piede; poi fissò ancora lo sguardo su quei due volti, e disse: «è dunque la Madonna che vi ha mandati.» «Io credo ben di sì,» disse la buona donna. «Ma possiamo andar via, possiamo andar via da vero?» riprese Lucia, abbassando la voce, e con un piglio timido e sospettoso. «E tutta quella gente…?» continuò colle labbra contratte e tremanti di spavento e d'orrore: «e quel signore…! quell'uomo…! Mi aveva ben promesso…» «È qui anch'egli in persona venuto apposta con noi,» disse don Abbondio: «è qui fuori che aspetta. Andiamo presto; non lo facciamo aspettare un par suo.» Allora quegli di cui si parlava sospinse le imposte, si mostrò, e si trasse avanti. Lucia che poco prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo, non desiderava che lui, ora, dopo aver vedute facce e udite voci amiche, non potè guardarsi da un subitaneo ribrezzo; trasalì, ritenne il fiato, si strinse alla buona donna, e nascose il volto nel seno di quella. Egli, prima alla vista di quell'aspetto sul quale già la sera antecedente non aveva potuto tener fermo lo sguardo, di quell'aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal patire prolungato e dall'inedia, era restato a mezzo il passo; al veder poi quell'atto di terrore, chinò gli occhi, stette ancora un istante immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, «è vero,» sclamò: «perdonatemi!» «Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono; sentite che vi chiede perdono?» diceva la buona donna all'orecchio di Lucia. «Si può dir di più? Via, su quella testa; non fate la bambina: che possiamo andar presto,» le diceva don Abbondio. Lucia levò il capo, guardò all'innominato e vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello sguardo, presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza, di pietà, disse: «oh il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia!» «E a voi, a mille doppii, il bene che mi fanno codeste vostre parole.» Così detto, si volse, andò verso la porta, e uscì il primo. Lucia tutta rianimata, colla donna che le dava braccio, gli tenne dietro; don Abbondio in coda. Scesero la scaletta, furono alla porticina che riusciva nel cortile. L'innominato ne spalancò le imposte, andò alla lettiga, aperse lo sportello, e con una certa gentilezza quasi timida (due nuove cose in lui) sorreggendo il braccio di Lucia, l'aiutò ad entrarvi, poi la buona donna. Prese quindi dalle mani del lettighiero le redini delle due cavalcature, e diede pur braccio a don Abbondio che s'era accostato alla sua. «Oh che degnazione!» disse questi; e montò assai più lestamente che non avesse fatto la prima volta. Il convoglio si mosse tosto che l'innominato fu anch'egli salito. La sua fronte si era rilevata; lo sguardo aveva ripresa la solita espressione d'impero. Gli scherani che si trovavano sulla via scorgevano bene sul suo volto i segni d'un forte pensiero, di una sollecitudine straordinaria; ma non capivano nè potevan capire più in là. Non vi si sapeva ancor nulla della gran mutazione di quell'uomo; e per congettura, certo, nessun di coloro vi sarebbe arrivato. La buona donna aveva tostò tirate le cortine su le finestrelle degli sportelli: pigliate poi affettuosamente le mani di Lucia s'era data a confortarla con parole di pietà, di congratulazione e di tenerezza. E veggendo come, oltre la fatica di tanto travaglio sofferto, la confusione e l'oscurità degli avvenimenti impediva alla poveretta di sentire la contentezza della sua liberazione, le disse quanto poteva trovar di più atto a rimetterla nella memoria, a distrigare, a ravviare, per dir così, i suoi poveri pensieri. Le nominò il paese dond'ella era, e verso cui s'andava. «Sì?» disse Lucia, che sapeva come era poco discosto dal suo. «Ah Madonna santissima, vi ringrazio! Mia madre! mia madre!» «La manderemo tosto a cercare,» disse la buona donna, la quale non sapeva che la cosa era già fatta. «Sì, sì; che Dio ve ne renderà merito… E voi, chi siete? Come siete venuta…» «Mi ha mandata il nostro curato,» disse la buona donna: «perchè questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!) ed è venuto al nostro paese, per parlare al signor cardinale arcivescovo, che l'abbiamo lì a far la visita, quel caro uomo del Signore; e s'è pentito de' suoi peccatacci, e vuol mutar vita; e ha detto al cardinale che aveva fatta rubare una povera innocente, che siete voi, per intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non mi ha significato chi possa essere.» Lucia levò gli occhi al cielo. «Lo saprete forse voi,» continuò la buona donna. «Basta; dunque il signor cardinale ha pensato che, trattandosi d'una giovane, ci voleva una donna per venire in compagnia, e ha detto al curato che ne cercasse una; e il curato è venuto da me, per sua bontà…» «Oh il Signore vi ricompensi della vostra carità!» «Figuratevi, la mia povera giovane! E mi ha detto il signor curato che vi facessi coraggio, e cercassi di sollevarvi subito, e farvi intendere come il Signore vi ha salvata miracolosamente…» «Ah sì, proprio miracolosamente; per intercessione della Madonna.» «Dunque, che stiate di buon animo, e perdonare a chi v'ha fatto del male, ed esser contenta che Dio gli abbia usata misericordia, anzi pregare per lui; che, oltre che ne acquisterete merito, vi sentirete anche allargare il cuore.» Lucia rispose con uno sguardo che esprimeva l'assenso così chiaramente come lo avrebber fatto le parole, e con una dolcezza che le parole non avrebbero saputa rendere. «Brava giovane!» riprese la donna. «E trovandosi al nostro paese anche il vostro curato, (che ce n'è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme quattro ufìzii generali) ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui in compagnia; benchè è stato di poco aiuto: che già io aveva inteso dire ch'egli era un uomo da poco; ma in questa occasione ho dovuto vedere che è proprio impacciato come un pulcin nella stoppa.» «E questo…» chiese Lucia, «questo che è diventato buono… chi è?» «Come! Non lo sapete?» disse la buona donna, e lo nominò. «Oh misericordia del Signore!» sclamò Lucia. Quel nome, quante volte lo aveva udito ripetere con orrore in più d'una storia, in cui compariva sempre come in altre storie quello dell'orco! Ed ora, al pensiero d'essere stata nella colui terribile forza, e d'essere sotto la sua guardia pietosa, al pensiero d'un così scuro pericolo, e d'una così improvvisa redenzione, a considerare di chi era quel volto che le era apparso burbero, poi commosso, poi umiliato, rimaneva come estatica, dicendo solo tratto tratto: «oh misericordia!» «L'è una gran misericordia da vero!» diceva la buona donna. «Ha da esser un gran sollievo per mezzo mondo, tutto all'intorno. A pensare quanta gente teneva in ispavento; e ora, come mi ha detto il nostro curato… e poi, solo a guardargli in faccia; è diventato un santo! E poi si vedono subito le opere.» Dire che questa buona donna non sentisse molta curiosità di conoscere un po' più distintamente la grande avventura nella quale si trovava a fare una parte, non sarebbe la verità. Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d'una pietà rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità dell'incarico che le era stato affidato, non pensò pure a farle una domanda indiscreta nè oziosa: tutte le sue parole in quel tragitto furono di conforto e di premura per la povera giovane. «Dio sa da quanto non avete mangiato!» «Non me ne ricordo più… Da un pezzo.» «Poverina! Avete bisogno di ristorarvi.» «Sì,» rispose Lucia con voce fioca. «A casa mia, grazie a Dio, troveremo subito qualche cosa. Fatevi animo, che ormai c'è poco.» Lucia si lasciava poi cader languida sul fondo della lettiga, come assopita; e allora la buona donna la lasciava in riposo. Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l'andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessare di quella pauraccia, s'era egli sentito da prima tutto scarico, ma ben tosto cominciarono a dare in fuora cento altri fastidii; come laddove è stato sradicato un grand'albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma in breve si copre tutto d'erbacce. Era diventato più sensitivo a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto nei pensieri dell'avvenire non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi. Sentiva ora, molto più che nell'andata, l'incomodo di quel modo di viaggiare, al quale non era molto esercitato; e massimamente nella discesa dal castello al fondo della valle. Il lettighiero, obedendo ad un cenno dell'innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due cavalcature tenevan dietro fìl filo a passo pari; di che avveniva che, a certi luoghi più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per di dietro, tracollava sul dinanzi, e per reggersi, doveva appuntellarsi colla mano all'arcione; e non osava però chiedere che s'andasse più adagio, e dall'altra parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese al più presto. Oltracciò, dove la via era sur un rialto, sur un ciglione, la mula, secondo il costume de' pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sul margine; e don Abbondio vedeva sotto di sè, quasi a perpendicolo, un salto, o come egli pensava, un precipizio. – Anche tu, – diceva in cuor suo alla bestia, – hai quel maladetto genio d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero! – E tirava la briglia dall'altra parte; ma inutilmente. Sicchè, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacer d'altrui. Gli scherani non gli davan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il padrone. – Ma, – rifletteva però, – se la notizia di questa gran conversione si sparge qua dentro intanto che ci siamo ancora, chi sa come la intenderanno costoro? Chi sa che cosa nasce! Che andassero ad immaginarsi che sia venuto io a fare il missionario! Guardi il cielo! Mi martirizzano! – L'aggrondatura dell'innominato non gli dava molestia. – Per tenere a segno quelle facce lì, – pensava, – non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch'io; ma perchè ha da toccare a me di trovarmi fra tutti costoro!– Basta; si venne al piede della discesa, e si uscì finalmente anche della valle. La fronte dell'innominato si andò spianando. Don Abbondio anch'egli prese una faccia più naturale, sprigionò alquanto la testa d'in fra le spalle, sgranchiò le braccia e le gambe, si mise a stare un po' più in sulla vita, che faceva un tutt'altro vedere, mandò più larghi respiri, e con animo più riposato si volse a considerare altri lontani pericoli. – Che cosa dirà quel bestione di don Rodrigo? Rimaner con tanto di naso a questo modo, col danno e colle beffe, figuriamoci se la gli ha a parere amara. Ora è quando fa il diavolo affatto. Sta a vedere che se la piglia anche con me, perchè mi son trovato dentro in questa cerimonia. Se ha avuto cuore fin d'allora di mandare quei due demonii a farmi una figura di quella sorte sulla strada, adesso poi, sa il cielo! Con sua signoria illustrissima non la può pigliare, che è un pezzo grosso troppo più di lui; lì bisognerà rodere il freno. Intanto il veleno lo avrà in corpo, e sopra qualcheduno lo vorrà sfogare. Come finiscono queste faccende? I colpi cascano sempre all'ingiù; gli stracci vanno all'aria. Lucia, di ragione sua signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell'altro poveraccio mal condotto è fuor del tiro, e ha già avuto la sua: ecco che lo straccio son diventato io. La sarebbe barbara, dopo tanti incomodi, dopo tanta agitazione, e senza acquistarne merito, che dovessi patirne le pene io. Che cosa farà adesso sua signoria illustrissima, per difendermi, dopo d'avermi messo in ballo? Mi può egli stare che quel dannato non mi faccia un'azione peggio della prima? E poi, ha tanti affari in capo! mette mano a fante cose! Come si può attendere a tutto? Lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima. Quei che fanno il bene lo fanno all'ingrosso: quando hanno provata quella soddisfazione, ne hanno abbastanza, e non si voglion seccare a tener dietro a tutte le conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, vi mettono più diligenza, vi stanno dietro fino alla fine, non si danno mai requie, perchè hanno quel canchero che li rode. Ho da andare a dire io che sono venuto qui per comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe ch'io volessi tenere dalla parte dell'iniquità. Oh santo cielo! Dalla parte dell'iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il meglio sarà raccontare a Perpetua la cosa com'è; e lascia poi fare a Perpetua a mandarla attorno. Purchè a monsignore non venga il grillo di far qualche publicità, qualche scena inutile, e mettermici dentro anche me. A buon conto, appena siamo arrivati, se è uscito di chiesa, vado a fargli un inchino in fretta in fretta, se no lascio le mie scuse; e tiro a casa mia. Lucia è bene appoggiata; di me non v'è bisogno; e dopo tanti disagi posso pretendere anch'io d'andarmi a riposare. E poi… che non venisse anche curiosità a monsignore di sapere tutta la storia, e mi toccasse di render conto dell'affare del matrimonio! Non ci mancherebbe altro. E se viene in visita anche alla mia parrocchia?… Oh, sarà quel che sarà; non voglio tribolarmi innanzi tratto: ne ho abbastanza de' guai. Per ora vo a chiudermi in casa. Fin che monsignore si trova da queste parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie. E poi… E poi? Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male! - La comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano ancor terminate; passò per mezzo la folla medesima non meno commossa della prima volta; e poi si divise. I due cavalieri voltarono sur una piazzetta di fianco, in fondo a cui era la casa del paroco; la lettiga andò innanzi verso quella della buona donna. Don Abbondio si mantenne la parola: appena scavalcato fece i più sviscerati complimenti all'innominato, e lo pregò che volesse scusarlo presso monsignore; ch'egli doveva tornare alla parrocchia addirittura, per affari urgenti. Andò a cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che aveva lasciato in un angolo del salotto, e s'incamminò. L'innominato stette ad aspettare che il cardinale tornasse di chiesa. La buona donna, fatta adagiar Lucia sul miglior sedile, nel miglior luogo della sua cucina, si affaccendava ad ammanirle un po' di refezione, ricusando con una certa rustichezza cordiale i ringraziamenti e le scuse reiterate di lei. Presto, presto, rinnovando ramoscelli secchi sotto un laveggio che aveva rimesso a fuoco, e dove notava un buon cappone, fe' levare il bollore al brodo, e riempiutane una scodella già guernita di fette di pane, potè finalmente presentarla a Lucia. E al vedere la poveretta riconfortarsi ad ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce seco stessa che la cosa fosse accaduta in un giorno in cui, come ella diceva, non c'era il gatto sul focolare. «Tutti s'ingegnano oggi a metter tovaglia,» aggiugneva: «fuor che quei poveretti che stentano ad aver pane di veccia e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualche cosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualche cosa che abbiamo al sole, si campa. Sicchè mangiate di buon cuore intrattanto; che presto il cappone sarà a segno, e potrete sostentarvi un po' meglio.» E ripresa la scodelletta, tornò ad accudire al desinare e a preparare la tavola per la famiglia. Lucia ristorata alquanto di forze e sempre più rinvenuta di spirito andava intanto rassettandosi, per una abitudine, per un istinto di pulitezza e di verecondia: rannodava e ricomponeva sulla testa le trecce allentate e scompigliate, raccomodava il fazzoletto sul seno e intorno al collo. In far questo, le sue dita s'intralciarono nella corona che v'era appesa; lo sguardo vi corse; si fe' nella mente un tumulto istantaneo; la ricordanza del voto, oppressa fino allora e soffocata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d'improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena sollevate, furono sopraffatte di nuovo in una volta: e se quell'animo non fosse stato così preparato da una vita d'innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione ch'ella provò in quel momento sarebbe stata disperazione. Dopo un subuglio di quei pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: – oh povera me, che cosa ho mai fatto! – Ma non appena le ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le risovvennero tutte le circostanze del voto, l'angoscia intollerabile, la disperazione di ogni umano soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta. E dopo d'avere ottenuta la grazia, pentirsi della promessa, le parve una ingratitudine sacrilega, una perfidia inverso Dio e la Vergine; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare nè anche nella preghiera; e si affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo. Si tolse riverentemente la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo con una supplicazione, accorata che le fosse concessa la forza di adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e le occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismuovere il suo animo, tormentarlo troppo. La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritomo, quella lontananza che fino allora le era stata così amara, le parve ora una disposizione della Providenza che avesse fatti andare insieme i due avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovare nell'uno ragione di consolarsi dell'altro. E dietro a quel pensiero, si andava pur figurando che quella Providenza medesima, per compir l'opera, saprebbe ben trovar modo di far che Renzo si rassegnasse anch'egli, non pensasse più… Ma appena una tale immaginazione fu entrata nella sua mente, vi mise tutto sossopra. La poveretta, sentendo che il cuore voleva di nuovo pentirsi, tornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale si rilevò, se ci si fa buona questa espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto. In questo s'ode appressare uno scalpitamento e un gridìo festoso. Era la famigliuola che veniva dalla chiesa. Due ragazzette e un fanciullo entrano a salti; si fermano un istante a dare un'occhiata curiosa a Lucia, poi corrono alla mamma, e le s'aggruppano intorno: quale domanda il nome dell'ospite sconosciuta, e come e perchè; quale vuol raccontare le maraviglie vedute: la buona donna risponde a tutto e a tutti con un «quieti, quieti.» Entra poi con passo più moderato, ma con una premura cordiale dipinta sul volto, il padrone di casa. Era, se non l'abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e di un tratto di paese all'intorno; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d'una volta il Leggendario de' Santi, e i Reali di Francia, e passava tra i suoi paesani per uomo di talento e di scienza: lode però che egli rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva fallata la vocazione; e che se fosse andato agli studii, invece di tanti altri…! Con questo, la miglior pasta del mondo. Essendosi trovato presente quando sua moglie era stata richiesta dal curato d'intraprendere quel viaggio caritatevole, non solo vi aveva data la sua approvazione, ma avrebbe aggiunte le sue persuasioni, se ve ne fosse stato bisogno. Ed ora che la funzione, la pompa, il concorso, e sopra tutto la predica del cardinale avevano, come si dice, esaltati tutti i suoi buoni sentimenti, tornava a casa con una aspettazione, con un desiderio ansioso di sapere come la cosa fosse riuscita, e di trovare la povera innocente salvata. «Guardate un po',» gli disse al suo entrare la buona donna, accennando Lucia; la quale arrossando, si levò, e cominciava a balbettar qualche scusa. Ma egli, andatole presso, la interruppe facendole una gran festa attorno, e sclamando: «ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa. Come son contento di vedervi qui! Era ben sicuro che sareste arrivate a buon porto; perchè non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo, senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui. Povera giovane! Ma è però una gran cosa aver ricevuto un miracolo!» Nè si creda ch'egli fosse il solo a così qualificare quell'avvenimento, perchè aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutto il contorno non se ne parlò con altri tèrmini fin che ve ne durò la memoria. E a dir vero, cogli accessorii che vi si appiccarono in seguito non gli poteva convenire altro nome. Accostatosi poi passo passo alla moglie che staccava il laveggio dalla catena da fuoco, le disse pian piano: «è andato bene ogni cosa?» «Benone: ti conterò poi.» «Sì, sì; con comodo.» Imbandita quindi tosto la tavola, la padrona andò a prender Lucia, ve l'accompagnò, la fece sedere; e spiccata un'ala di quel cappone, gliela mise dinanzi; poi sedè ella pure e il marito, esortando entrambi l'ospite abbattuta e vergognosa a farsi animo e a mangiare. Il sarto cominciò fra i primi bocconi a discorrere con grand'enfasi, in mezzo agli interrompimenti dei ragazzi che mangiavano in piedi intorno alla tavola, e che in verità avevano vedute troppe cose straordinarie per fare alla lunga la sola parte di ascoltatori. Egli descriveva le cerimonie solenni, poi saltava a parlare della conversione miracolosa. Ma ciò che gli aveva fatto più impressione, e su cui tornava più spesso era la predica del cardinale. «A vederlo lì dinanzi all'altare,» diceva egli, «un signore di quella sorte, come un curato…» «E quella cosa d'oro che aveva in testa…» diceva una ragazzetta. «Taci lì. A pensare, dico, che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, nè anche in Milano, a pensare che sappia adattarsi a dir su quelle cose in modo che tutti capiscono…» «Ho ben capito anch'io,» disse l'altra chiacchierina. «Taci lì: che cosa vuoi tu aver capito tu?» «Ho capito che spiegava il Vangelo in cambio del signor curato.» «Taci lì. Non dico di chi sa qualche cosa; che allora uno è obbligato ad intendere; ma anche i più duri d'ingegno, i più ignoranti, tenevano dietro al sentimento. Andate adesso a domandar loro se saprebbero ripetere le parole ch'egli diceva su: sì; non ne raccapezzerebbero una; ma il sentimento lo hanno qui. E senza mai nominare quel signore, come si capiva che voleva parlare di lui! E poi, per capire, sarebbe bastato osservare quando aveva le lagrime agli occhi. E allora tutta la chiesa a piangere…» «È proprio vero,» scappò su il fanciullo: «ma perchè mo piangevano tutti a quel modo, come figliuoli?» «Taci lì. E sì che c'è dei cuori duri in questo paese. E ha fatto proprio vedere che, ancor che ci sia la carestia, bisogna ringraziare il Signore, ed esser contenti: far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti. Perchè la disgrazia non è mica patire, ed esser poveri; la disgrazia è far del male. E non son mica belle parole; perchè si sa che anch'egli vive da pover uomo, e si cava il pane di bocca per darlo agli affamati; quandochè potrebbe godersi il buon tempo meglio di chiunque sia. Ah! allora un uomo dà soddisfazione a sentirlo discorrere: non mica come tanti altri, fate quel che dico e non fate quel che fo. E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro, che non sono quel che si dice signori, se hanno di più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce.» Qui interruppe il discorso da sè, come soprappreso da un pensiero. Stette un momento; poi compose un piatto delle vivande che erano sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliuolo, e preso questo pei quattro capi, disse alla sua ragazzetta maggiore: «piglia qua tu.» Le die' nell'altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: «va qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per fare un po' di allegria coi suoi fantolini. Ma con buona creanza, ve'; che non paia che tu le faccia la carità. E non dir niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere.» Lucia fe' gli occhi rossi, e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice; come già dai discorsi di prima aveva ricevuto tal sollievo che un sermone espressamente consolatorio non sarebbe stato abile a procurarle. L'animo attratto da quelle descrizioni, da quelle fantasie di pompa, da quelle commozioni di pietà e di maraviglia, preso dall'entusiasmo medesimo del narratore, si staccava dai pensieri dolorosi di sè; e pur ritornandovi, si trovava più forte contro di essi. Il pensiero stesso del gran sagrificio, non già che avesse perduta la sua amaritudine, ma insieme con essa teneva non so che d'una gioia austera e solenne. Poco stante entrò il curato del paese, e disse d'esser mandato dal cardinale a prender novelle di Lucia, ad avvertirla che monsignore la voleva vedere in quel giorno; poi rendette in nome di lui molte grazie ai coniugi. Tutti e tre, compresi e commossi, non trovavano parole per corrispondere a tali uficii d'un tal personaggio. «E vostra madre non è ancora arrivata?» disse il curato a Lucia. «Mia madre!» sclamò questa. Udendo poscia da lui come egli l'aveva mandata a prendere, d'ordine e per pensata dell'arcivescovo, si tirò il grembiale su gli occhi, e diede in un gran pianto, che continuò a scorrere qualche pezza dopo che il curato fu partito. Quando poi gli affetti tumultuosi, che le si erano suscitati a quell'annunzio, cominciarono a dar luogo a pensieri più posati, la poveretta si ricordò che quel contento allora imminente di riveder la madre, un contento così insperato poche ore prima, ella lo aveva pure espressamente implorato in quell'ore medesime, e posto quasi come una condizione al voto. Fatemi tornar salva con mia madre, aveva ella detto; e queste parole le ricomparvero ora distinte nella memoria. Si confermò più che mai nel proposito di mantenere la promessa, e si fece di nuovo e più amaramente coscienza del rincrescimento, del repetìo, che ne aveva sentito un istante. Agnese in fatti, quando si parlò di lei, non era discosta che un breve tratto di via. È facile pensare come la povera donna fosse rimasta a quell'invito così inaspettato, e a quell'annunzio necessariamente monco e confuso d'un pericolo cessato, ma spaventoso, di un caso scuro che il messo non sapeva nè circostanziare, nè spiegare, e per cui ella non aveva un appicco di spiegazione nelle sue idee antecedenti. Dopo essersi cacciate le mani nei capegli, dopo aver gridato più volte: «ah Signore! ah Madonna!», dopo aver fatte al messo varie inchieste a cui questi non aveva di che soddisfare, ella s'era messa in fretta e in furia nel baroccio, continuando per via a sclamare e ad interrogare senza profitto. Ma a un certo punto aveva incontrato don Abbondio che veniva passo innanzi passo, e innanzi ai passi mettendo il bastone. Dopo un «oh!» d'ambe le parti, egli s'era fermato, ella aveva fatto fermare, ed era smontata; e s'eran tratti in disparte in un castagneto che quivi era di costa al cammino. Don Abbondio le aveva dato ragguaglio di ciò che aveva potuto sapere e dovuto vedere. La cosa non era chiara; ma almeno Agnese fu assicurata che Lucia era in salvo; e respirò. Di poi egli aveva voluto entrare in un altro ragionamento, e darle una lunga istruzione sul come governarsi coll'arcivescovo, se questi, com'era probabile, avesse voluto veder lei e la figlia; e sopra tutto che non conveniva far parola del matrimonio… Ma Agnese accorgendosi ch'egli non parlava che pel suo proprio interesse, lo aveva piantato, senza promettergli, anzi senza proporsi nulla; chè aveva altro da pensare. E s'era rimessa in cammino. Finalmente il baroccio arriva e si ferma alla casa del sarto. Lucia si leva precipitosamente; Agnese scende, e salta dentro in furia: sono nelle braccia l'una dell'altra. La buona donna, che sola si trovava presente, fa coraggio ad entrambe, le acquieta, si rallegra con loro, e poi, sempre discreta, le lascia sole, dicendo che andava a mettere insieme un letto per loro; che già aveva modo, ma che in ogni caso, tanto ella quanto suo marito, avrebbero più tosto voluto dormire per terra che lasciarle andare a cercare un ricovero altrove per quella notte. Passato quel primo sfogo d'abbracciamenti e di singhiozzi, Agnese volle sapere i casi di Lucia, e questa si fece dolorosamente a narrarli. Ma, come il lettore sa, ella era una storia che nessuno conosceva tutta intiera; e per Lucia stessa v'era delle parti oscure, inestricabili affatto. E principalmente quella fatale combinazione dell'essersi la terribile carrozza trovata lì sulla strada, appunto quando Lucia vi passava per un caso straordinario: su di che la madre e la figlia si perdevano in congetture, senza mai dar nel segno, anzi senza neppure andarvi presso. Quanto all'autor principale della trama, sì l'una che l'altra non potevano di meno di non pensare che fosse don Rodrigo. «Ah anima nera! ah tizzone d'inferno!» sclamava Agnese: «ma verrà la sua ora. Domeneddio gli renderà il merito secondo le opere; e allora proverà anch'egli…» «No, no, mamma; no!» interruppe Lucia: «non gli augurate di patire, non lo augurate a nessuno! Se sapeste che cosa sia patire! Se aveste provato! No, no! preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, come ha fatto a quest'altro povero signore, che era peggio di lui, e adesso è un santo.» Il ribrezzo che Lucia provava nel tornare sopra memorie così recenti e così crudeli la fece più d'una volta restare a mezzo; più di una volta ella disse che l'animo non le bastava a continuare, e dopo molte lagrime ripigliò a stento la parola. Ma un sentimento diverso la tenne sospesa a un certo passo della narrazione; al passo del voto. Il timore di esser dalla madre ripresa d'imprudente e di precipitosa; o che questa, come aveva fatto nell'affare del matrimonio, mettesse in campo qualche sua regola larga di coscienza, e volesse farla prevalere; o che, povera donna, dicesse la cosa a qualcheduno in confidenza, se non altro per aver lume e consiglio, e la facesse così divenir publica, del che a pensarvi solamente Lucia sentiva una vergogna intollerabile; anche una vergogna presente, una repugnanza inesplicabile a parlare d'una tal materia, tutte queste cose insieme fecero che ella tacque assolutamente quella circostanza importante, proponendo in cuor suo di aprirsene prima col padre Cristoforo. Ma come rimase allorchè, domandando di lui, s'udì rispondere che non v'era più, che era stato mandato in un paese lontano lontano, in un paese che aveva un certo nome! «E Renzo?» disse Agnese. «È in salvo, n'è vero?» disse precipitosamente Lucia. «Questo è sicuro, perchè tutti lo dicono; si tien per certo che sia andato su quel di Bergamo; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: ed egli finora non ha mai mandato nuova di sè. Che non abbia ancora trovato il verso.» «Ah, s'egli è in salvo, sia ringraziato il Signore!» disse Lucia; e cercava altra materia di discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata: la comparsa del cardinale arcivescovo. Questi, tornato dalla chiesa, dove lo abbiamo lasciato, inteso dall'innominato il felice riducimento di Lucia, s'era posto a tavola, facendo seder quello alla sua destra, in mezzo ad una corona di preti, che non potevano saziarsi di lanciare occhiate a quell'aspetto così ammansato senza debolezza, così umiliato senza abbassamento, e di paragonarlo coll'idea che da lungo tempo s'eran fatta del personaggio. Levate le mense, que' due s'eran ritirati di nuovo insieme. Dopo un colloquio che durò assai più del primo, l'innominato era partito di nuovo pel suo castello, su quella stessa mula che ve l'aveva portato il mattino; e il cardinale, fatto chiamare il paroco, gli aveva detto che desiderava d'esser guidato alla casa dov'era ricoverata Lucia. «Oh! monsignore,» aveva risposto il paroco: «lasci, lasci, che manderò io subito ad avvertire che venga qui la giovane, la madre, se è arrivata, anche gli ospiti, se monsignore li vuole, tutti quelli che desidera vostra signoria illustrissima.» «Desidero d'andar io a trovarli,» aveva replicato Federigo. «Non fa bisogno che vostra signoria illustrissima s'incomodi: mando io tosto a chiamarli: è cosa subito fatta,» aveva insistito il paroco guastamestieri (buon uomo del rimanente), non intendendo che il cardinale voleva con quella visita rendere onore alla sventura, all'innocenza, all'ospitalità e al suo proprio ministero in un tempo. Ma, avendo il superiore espresso di nuovo il medesimo desiderio, l'inferiore s'inchinò e si mosse. Quando i due personaggi furon veduti spuntar nella via, ognun che v'era andò verso loro; e in pochi istanti vi trasse gente da ogni parte, e fece loro due ale di folla ai lati, e un codazzo dietro. Il curato badava a dire: «via, indietro, ritiratevi; ma! ma!» Federigo diceva al curato: «lasciate, lasciate;» e procedeva, ora levando la mano a benedire la gente, ora abbassandola ad accarezzare i ragazzi che gli venivano tra' piedi. Così giunsero alla casa, e v'entrarono: la folla rimase assiepata al di fuori. Ma nella folla si trovava anche il sarto, il quale aveva tenuto dietro come gli altri, cogli occhi fissi e colla bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe. Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con che strepito, gridando e rigridando: «lasciate passare chi ha da passare;» ed entrò. Agnese e Lucia udirono un ronzìo crescente nella via; mentre pensavano che cosa potess'essere, videro l'uscio spalancarsi, e comparire il porporato col paroco. «È quella?» chiese il primo al secondo; e ad un cenno affermativo, andò verso Lucia, che era rimasta lì colla madre, entrambe immobili e mute dalla sorpresa e dalla vergogna. Ma il tuono di quella voce, l'aspetto, il contegno, e sopra tutto le parole di Federigo le ebbero tosto rianimate. «Povera giovane,» cominciò egli: «Dio ha permesso che foste posta a una gran prova; ma vi ha ben fatto vedere che non aveva levato l'occhio da voi, che non vi aveva dimenticata. Vi ha rimessa in salvo; e si è servito di voi per una grande opera, per fare una gran misericordia ad uno, e per sollevar molti nello stesso tempo.» Qui comparve nella stanza la padrona, la quale al romore s'era pur fatta alla finestra di sopra, e avendo potuto vedere chi le entrava in casa, era venuta giù a precipizio, dopo essersi rassettata alquanto: e quasi ad un tratto entrò il sarto da un altro uscio. Vedendo il colloquio impegnato, andarono a riunirsi in un canto, dove rimasero con gran rispetto. Il cardinale, salutatili cortesemente, continuò a parlare colle donne, mischiando ai conforti qualche domanda, se mai nelle risposte potesse trovare alcuna congiuntura di far del bene a chi aveva tanto patito. «Bisognerebbe che tutti i preti fossero come vossignoria, che tenessero un po' dalla parte dei poveri, e non aiutassero a metterli in imbroglio, per cavarsene loro,» disse Agnese, animata dal contegno così familiare e amorevole di Federigo, e stizzita del pensiero che il signor don Abbondio, dopo d'avere sempre sagrificati gli altri, pretendesse poi anche d'impedir loro un picciolo sfogo, un lamento con chi era al di sopra di lui, quando, per un caso raro, n'era venuta l'occasione. «Dite pur tutto quel che pensate,» disse il cardinale: «parlate liberamente.» «Voglio dire che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la cosa non sarebbe andata così.» Ma facendole il cardinale nuove istanze perchè si spiegasse meglio, ella cominciò a trovarsi impacciata a dover raccontare una storia nella quale anch'ella aveva una parte che non si curava di far sapere, massime ad un tal uomo. Pure trovò modo di aggiustarla con un picciolo stralcio; raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non tacque del pretesto dei Superiori ch'egli aveva messo in campo (ah, Agnese!); e saltò all'attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati avvertiti, avevano potuto scappare. «Ma sì,» soggiunse e conchiuse: «scappare per incapparci di nuovo. Se in quello scambio il signor curato ci avesse detto sinceramente la cosa, e avesse subito maritati i miei poveri giovani, noi ce ne andavamo subito via tutti insieme, in segreto, lontano, in luogo che nè anche l'aria non lo avrebbe saputo. Così si è perduto tempo; ed è nato quel che è nato.» «Il signor curato mi darà conto di questo fatto,» disse il cardinale. «Signor no, signor no,» ripigliò Agnese: «non ho parlato per questo: non lo sgridi, perchè già quel che è stato è stato, e poi non serve a nulla; è un uomo così di natura: tornando il caso, farebbe lo stesso.» Ma Lucia scontenta di quel modo di raccontare la storia, soggiunse: «anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era la volontà del Signore che la cosa dovesse riuscire.» «Che male avete potuto far voi, povera giovane?» chiese Federigo. Lucia, a malgrado degli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita, raccontò alla sua volta la storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e conchiuse dicendo: «abbiam fatto male; e Dio ci ha castigati.» «Pigliate dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon animo,» disse Federigo: «perchè, chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e pensa ad accusar sè medesimo?» Chiese allora dove fosse il promesso sposo, e udendo da Agnese (Lucia stava zitta, col capo chino e con gli occhi bassi) com'era fuoruscito, ne sentì e ne mostrò maraviglia e dispiacere; e ne chiese il perchè. Agnese barbugliò quel poco che sapeva della storia di Renzo. «Ho inteso parlare di quest'uomo,» disse il cardinale: «ma come un uomo che si trovò involto in affari di quella sorta poteva egli essere in trattato di matrimonio con questa giovane?» «Era un giovane dabbene,» disse Lucia, arrossando, ma con la voce ferma. «Era un giovane quieto anche troppo,» soggiunse Agnese: «e questo lo può domandare a chi che sia, anche al signor curato. Chi sa che garbuglio avranno fatto laggiù, che cabale? I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni.» «È vero pur troppo,» disse il cardinale: «m'informerò di lui senza dubbio:» e fattosi dire il nome e il casato del giovane, lo mise in nota. Aggiunse poi che contava di portarsi al loro paese fra pochi giorni, che allora Lucia potrebbe venirvi senza timore, e che intanto egli penserebbe a provederla d'un ricovero sicuro, fin che ogni cosa fosse aggiustata per lo meglio. Si volse quindi ai padroni di casa, che si fecero tosto innanzi. Rinnovò le grazie che già aveva ad essi rendute per mezzo del paroco, e li richiese se sarebbero stati contenti di ricettare per quei pochi giorni le ospiti che Dio aveva loro mandate. «Oh! signor sì,» rispose la donna, con un tuono di voce e con un sembiante che significava assai più di quella asciutta risposta, strozzata dalla vergogna. Ma il marito tutto concitato dalla presenza d'un tale interrogante, dalla voglia di farsi onore in una occasione di tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse la bocca, tese a tutta forza l'arco dell'intelletto, cercò, frugò, sentì al di dentro un cozzo d'idee monche, e di mezze parole: ma il momento pressava; il cardinale accennava già di avere interpretato il silenzio: il pover uomo aperse la bocca, e disse: «si figuri!» Altro in quel punto non gli volle venire. Di che non solo rimase avvilito in sul momento; ma sempre poi quel ricordo importuno gli guastava la compiacenza del grande onore ricevuto. E quante volte, tornandovi sopra, e rimettendosi col pensiero in quella circostanza, gli vennero, quasi per dispetto in mente parole che tutte sarebbero state meglio di quell'insulso si figuri! Ma del senno di poi ne son piene le fosse. Il cardinale partì, dicendo: «la benedizione del Signore sia sopra questa casa.» Domandò poi quella sera al curato come si sarebbe potuto in modo convenevole compensare quell'uomo, che non doveva essere ricco, della ospitalità costosa, massimamente in quei tempi. Il curato rispose che per verità, nè i guadagni della professione, nè le rendite di certi camperelli che il buon sarto aveva del suo non sarebbero bastate in quell'anno a porlo in istato di esser liberale altrui; ma che, avendo fatti avanzi negli anni antecedenti, si trovava dei più agiati del contorno, e poteva far qualche cortesia senza sconcio, come certo la farebbe di cuore; e che del resto si sarebbe recato ad offesa che gli venisse proposto un compenso di danari. «Avrà probabilmente,» disse il cardinale, «crediti verso gente inabile a pagare.» «Pensi, monsignore illustrissimo: questa povera gente paga col soprappiù del ricolto: l'anno scorso non v'ebbe soprappiù; in questo tutti si rimangono indietro del necessario.» «Or bene,» ripigliò Federigo: «prendo io sopra di me tutti quei debiti; e voi mi farete piacere di aver da lui la nota delle partite, e di saldarle.» «Sarà una somma ragionevole.» «Tanto meglio: e avrete pur troppo di quelli ancor più miserabili, più spogliati, che non hanno debito perchè non trovano credenza.» «Eh pur troppo! Si fa quel che si può; ma come bastare, in tempi di questa sorta?» «Fate che egli li vesta a mio conto, e pagatelo bene. Veramente, in quest'anno, mi par rubato tutto ciò che non va in pane; ma questo è un caso particolare.» Non vogliamo però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar brevemente come la terminasse l'innominato. Questa volta la fama della sua conversione lo aveva preceduto nella valle, vi s'era tosto diffusa, e aveva messo per tutto uno sbalordimento, un'ansietà, un cruccio, un susurro. Ai primi bravi o servi (era tutt'uno) che incontrò egli fe' cenno che lo seguissero; e così di mano in mano. Tutti venivan dietro con una sospensione nuova e colla soggezione solita: tanto che, con un seguito sempre crescente, egli pervenne al castello. Fe' cenno a quei che si trovavano sulla porta, che venisser dietro pure cogli altri; entrò nel primo cortile, andò verso il mezzo, e quivi, stando tuttavia in arcione, mise un suo grido tonante: era il segno usato al quale accorrevano tutti quei suoi che l'avessero inteso. In un momento tutti quei ch'erano sparsi pel castellaccio venner dietro alla voce, e si univano ai già ragunati, guatando tutti al padrone. «Andate ad aspettarmi nella sala grande,» diss'egli, e dall'alto della sua cavalcatura li guardava partire. Ne scese di poi tosto, la trasse egli stesso alle stalle, e andò dove era aspettato. Al suo apparire, cessò subito un gran bisbiglio che v'era; tutti si ristrinsero in un lato, lasciando vôto per lui un grande spazio della sala: potevano essere una trentina. L'innominato levò la mano, come per mantenere il silenzio che già la sua presenza aveva fatto, levò la testa che sopravanzava tutte quelle della brigata, e disse: «ascoltate tutti, e nessuno parli, s'io non lo domando. Figliuoli! la strada per la quale siamo andati finora mena al fondo dell'inferno. Non è un rimprovero ch'io voglia farvi, io che sono dinanzi a tutti, il peggiore di tutti; ma udite ciò che v'ho da dire. Dio misericordioso mi ha chiamato a mutar vita; e io la muterò, l'ho già mutata: così faccia Egli con tutti voi. Sappiate dunque, e tenete per fermo che io son risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa legge. Levo ad ognun di voi gli ordini scelerati che tenete da me; voi m'intendete; anzi vi comando di non far nulla di ciò che v'era comandato. E tenete per fermo egualmente che nessuno da qui innanzi potrà far male colla mia protezione, al mio servigio. Chi vuol restare con questi patti sarà per me come un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno in cui non avessi mangiato, per satollare l'ultimo di voi coll'ultimo pane che mi rimanesse in casa. Chi non vuole, gli sarà dato quel che gli si viene di salario, e un donativo di più: potrà andarsene; ma non porti più il piede qui: quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia aperte. Pensateci questa notte: domattina vi domanderò ad uno ad uno a darmi la risposta; e allora vi darò ordini nuovi. Per ora ritiratevi, ognuno al suo posto. E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon pensiero.» Qui egli tacque, e tutto tacque. Per quanto varii e tumultuosi fossero i pensieri che sorbollivano in quei cervellacci, non ne apparve al di fuori nessun segno. Erano avvezzi a prender la voce del lor signore come la manifestazione d'una volontà colla quale non v'era da piatire: e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dinotava punto ch'ella fosse indebolita. A nessuno di loro passò manco per la mente che, per esser lui convertito, si potesse prendergli animo addosso, replicargli come ad un altr'uomo. Vedevano in lui un santo, ma un di que' santi che si dipingono colla testa alta e colla spada in pugno. Oltre il timore, avevano anche per lui (principalmente i nati sotto la sua padronanza, ed erano una gran parte) un'affezione come di uomini ligi; avevano poi tutti una benevolenza di ammirazione; e alla sua presenza sentivano una specie di quella, dirò pur così, verecondia, che anche gli animi più zotici e più petulanti provano dinanzi ad una superiorità che hanno già riconosciuta. Le cose poi che allora avevano udite da quella bocca erano bensì odiose ai loro orecchi, ma non false nè affatto estranee ai loro intelletti: se mille volte se n'erano fatti beffe, non era già perchè le discredessero; ma per prevenire colle beffe la paura che ne sarebbe lor venuta a pensarvi seriamente. Ed ora, a vedere l'effetto di quella paura in un animo come quello del lor padrone, chi più, chi manco, non ve ne fu uno che non gli se ne appiccasse, almeno per qualche tempo. Si aggiunga a tutto ciò che quelli fra loro i quali avevano i primi risaputa la gran novella fuori della valle, avevano insieme veduta, e avevano pur riferita la gioia, la baldanza della popolazione, il nuovo favore per l'innominato, la venerazione succeduta improvvisamente all'antico odio, all'antico terrore. Talchè nell'uomo che avevano sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, anche quando eglino stessi erano in gran parte la sua forza, vedevano ora la maraviglia, l'idolo d'una moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri in un modo ben diverso di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre capo. Stavano adunque sbalorditi, incerti l'uno dell'altro, e ognuno di sè. Chi si rodeva, chi faceva disegni del dove sarebbe andato a cercar ricovero e impiego, chi si esaminava se avrebbe potuto adattarsi a diventar galantuomo; quale anche, smosso da quelle parole, se ne sentiva una certa inclinazione; quale, senza risolver nulla, proponeva di prometter tutto a buon conto, di rimanere intanto a mangiare quel pane offerto così di buon cuore, e allora così scarso, e di acquistar tempo: nessuno fiatò. E quando l'innominato, al fine delle sue parole, levò di nuovo quella mano imperiosa ad accennare, che se ne andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, presero tutti insieme la via dell'uscio. Egli uscì dietro a loro, è piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno si avviasse al suo posto. Salito poscia a prendere una sua lanterna, percorse di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutti gli accessi, e quando vide ogni cosa quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perchè aveva sonno. Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre stato accattatore, non se n'era mai trovato addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel'avevano tolto la notte antecedente, non che fossero acchetati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L'ordine, la specie di governo stabilito là entro da lui in tanti anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento di avventatezza e di perseveranza, ora lo aveva egli medesimo messo in forse con poche parole; la devozione illimitata di que' suoi, quella loro dispostezza a tutto, quella fede scheranesca su cui egli era avvezzo da tanto tempo a riposare, l'aveva ora concussa egli medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un gran volume d'imbrogli; s'era messa la confusione e l'incertezza in casa; eppure aveva sonno. Andò dunque nella sua stanza, s'accostò a quel letto in cui la notte antecedente aveva trovati tanti triboli; e s'inginocchiò dinanzi alla sponda, colla intenzione di pregare. Trovò in fatti in un cantuccio riposto e profondo della mente le orazioni ch'era stato ammaestrato a recitare da fanciullo; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste quivi tanto tempo ravvolte insieme, venivano l'una dopo l'altra come sgomitolandosi. Provava egli in questo un misto di sentimenti indefinibile: una certa dolcezza in quel ritorno materiale alle abitudini dell'innocenza; un inasprimento di dolore al pensiero dell'abisso ch'egli aveva posto tra quel tempo e questo; un ardore di giugnere, con opere di espiazione, ad una coscienza nuova, ad uno stato il più vicino alla innocenza, a cui non poteva tornare; una riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che ve lo poteva condurre, e gli aveva già dati tanti segni di volerlo. Levatosi poi, si corcò, e prese sonno immediatamente. Così terminò quella giornata tanto celebre ancora quando scriveva il nostro anonimo: e adesso, s'egli non era, non se ne saprebbe nulla, almeno dei particolari; giacchè il Ripamonti e il Rivola, citati sopra da noi, non dicono se non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con Federigo, mutò mirabilmente vita, e per sempre. E quanti sono che hanno letto i libri di quei due? Meno ancora di quelli che leggeranno il nostro. E chi sa se nella valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e abilità di trovarla, sarà rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto? Son nate tante cose da quel tempo in poi! Il dì seguente, nel paesello di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non si parlava che di lei, dell'innominato, dell'arcivescovo e di un altro tale, che, quantunque assai vago d'andar per le bocche degli uomini, ne avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri di meno: vogliam dire il signor don Rodrigo. Non già che prima d'allora non si dicesse de' fatti suoi; ma eran discorsi staccati, segreti: bisognava che due si conoscessero ben bene fra loro, per aprirsi su di un tal tema. E ancora, non vi mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci; perchè gli uomini, parlando in generale, quando l'indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in sè quella che sentono, ma ne sentono meno in effetto. Ma ora, chi si sarebbe tenuto d'inchiedere e di ragionare d'un fatto così strepitoso, in cui s'era veduta la mano del cielo, e dove facevan buona figura due tali personaggi? l'uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava unito a tanta autorità, l'altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si fosse umiliata, che la braverìa fosse venuta, per così dire, a render l'armi e a dimettersi. A tai paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po' picciolo. Allora si capiva da tutti che cosa fosse tormentar l'innocenza per poterla disonorare, perseguitarla con una insistenza così impudente, con sì atroce violenza, con sì abominevoli insidie. Si faceva, a quella occasione, una rivista di tante altre prodezze di quel signore; e su di tutto, la dicevano come la sentivano, imbaldanziti ognuno dal trovarsi d'accordo con tutti. Era un susurro, un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti quei bravi ch'egli aveva d'intorno. Una buona parte di questa animavversione publica toccava ancora ai suoi amici e cortigiani. Si diceva quel che stava bene del signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui fatti di quel tiranno; ma questo pure si diceva dalla lunga; perchè il podestà aveva i birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli pari suoi, non si usava tanto riguardo: eran mostrati a dito, e guardati di traverso; talchè, per qualche tempo, stimaron bene di non lasciarsi vedere in piazza. Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall'avviso che attendeva di dì in dì, di momento in momento, stette rintanato nel suo palazzotto, solo co' suoi bravi, a masticar veleno, due giorni; il terzo, partì per Milano. Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della gente, forse, poichè le cose erano andate tant'oltre, egli sarebbe rimasto apposta per affrontarlo, per cercare anzi occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno dei più arditi; ma chi lo cacciò, fu la voce sicura, che il cardinale veniva anche da quelle parti. Il conte zio, il quale di tutta quella storia non sapeva se non quanto gliene era stato detto da Attilio, avrebbe certamente preteso che, in una congiuntura simile, don Rodrigo facesse presso il cardinale la prima comparsa, ne ottenesse in publico le più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ne fosse in via. Lo avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto per minuto; perchè era una occasione importante di mostrare in che stima fosse tenuto il casato da una potestà primaria. Per cavarsi d'una sì odiosa stretta, don Rodrigo, levatosi un mattino prima del sole, si mise in una carrozza, col Attilio e con altri bravi al di fuori, dinanzi e di dietro; e, lasciato ordine che il resto della famiglia venisse poi in seguito, si partì come un fuggitivo, come (ci sia un po' lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando e giurando di tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette. Intanto, il cardinale veniva visitando, una per giorno, le parrocchie poste nel territorio di Lecco. Il giorno ch'egli doveva arrivare a quella di Lucia, già una gran parte degli abitanti s'eran portati sulla strada, a fargli incontro. All'entrata della terra, proprio accanto alla casetta delle nostre due donne, era un arco trionfale, costrutto di stili per ritto e di pali per traverso, rivestito di paglia e di musco, e fregiato con frasche verdi di brusco e d'agrifoglio, distinte di bacche rosseggianti; la facciata della chiesa era addobbata di tappezzerie; al davanzale d'ogni finestra pendevano coltri e lenzuola distese, fasce di bambini disposte a drappelloni; tutto quel poco necessario, che fosse atto a far, bene o male, figura di superfluo. In sul vespero (ch'era l'ora in cui Federigo faceva di arrivare alle chiese da visitarsi), quei che erano rimasti a casa, vecchi, donne e fanciulli il più, s'avviarono anch'essi ad incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, uggioso in mezzo a tanta festa, e pel fracasso che lo imbalordiva, e pel brulicare della gente innanzi e indietro, che, com'egli diceva in sè stesso, gli annaspava la vista, e pel tribolo segreto che le donne avessero potuto cicalare, e dovesse toccargli di render conto del matrimonio. Ed ecco apparire il cardinale, o per dir meglio, la turba in mezzo a cui egli si trovava nella sua lettiga, col suo seguito attorno; perchè di tutto questo non si vedeva altro, che un segno in aria, al di sopra di tutte le teste, un pezzo della croce portata dal cappellano montato sopra una mula. La gente che andava con don Abbondio, s'affrettò scompigliatamente a raggiugner quell'altra: egli, dopo aver detto, tre e quattro volte, «adagio; in fila; che cosa fate?» si volse indispettito; e borbottando tuttavia, «è una babilonia, è una babilonia,» andò a porsi in chiesa, intanto ch'ell'era sgombra; e stette quivi ad aspettare. Il cardinale veniva innanzi, dando benedizioni colla mano, e ricevendone dalle bocche della gente, che quei del seguito avevan che fare assai a tenere un po' indietro. Come paesani di Lucia, avrebbero voluto quei terrieri fare all'arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era facile; perchè, già per antico uso, per tutto dov'egli arrivasse, tutti facevano il più che potevano. Già sul bel principio del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, l'affollamento, l'impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della sua vita; e alcuni gentiluomini, che gli eran più accosto, avevan cacciate le spade, per atterrire e rispingere la folla. Tanto v'era in quei costumi di incomposto e di violento, che, anche nel far dimostrazioni di benevolenza ad un vescovo in chiesa, e nel regolarle, si dovesse andar presso all'ammazzare. E quella difesa non sarebbe forse bastata, se due preti, che stavan bene di corpo e d'animo, non lo avessero levato in sulle braccia, e portato di peso, dalla porta del tempio, fino appiè dell'altar maggiore. D'allora in poi, in tante visite episcopali ch'egli ebbe a fare, quel primo entrare nella chiesa si può senza scherzo contarlo fra le sue pastorali fatiche, e qualche altra volta, fra i pericoli passati da lui. Entrò anche in questa come potè; andò all'altare e di quivi, orato alquanto, fece, secondo la sua consuetudine, quattro parole agli astanti, del suo amore per loro, del desiderio della loro salvezza, e del come dovessero disporsi alle funzioni del domani. Ritirato poi nella casa del paroco, tra molte cose ch'ebbe a conferire con lui, lo interrogò delle qualità e della condotta di Renzo. Don Abbondio disse che era un giovane un po' vivo, un po' testardo, un po' collerico. Ma, a più speciali e precise domande, dovette rispondere ch'era un galantuomo, e che anch'egli non sapeva intendere come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle diavolerie che s'eran dette attorno. «Quanto alla giovane,» riprese il cardinale, «par egli anche a voi ch'ella possa ora venire sicuramente a porsi in casa sua?» «Per ora,» riprese don Abbondio, «può venire e stare, dico per ora, come vuole; ma,» soggiunse poi con un sospiro, «bisognerebbe che vostra signoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino.» «Il Signore è sempre vicino,» disse il cardinale: «del resto, penserò io a metterla in sicuro.» E diede tosto ordine che il domani per tempo si spedisse la lettiga, con un accompagnamento, a prender le due donne. Don Abbondio uscì tutto contento che il cardinale gli avesse parlato dei due giovani, senza domandargli conto del suo rifiuto di maritarli. – Dunque non sa niente, – diceva tra sè: – Agnese ha taciuto: miracolo! S'hanno a vedere ancora; ma le daremo un'altra istruzione, le daremo. – E non sapeva egli, il pover'uomo, che Federigo non era entrato in quell'argomento, appunto perchè intendeva di parlargliene a lungo, in tempo più libero; e, prima di dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le sue ragioni. Ma i pensieri del buon prelato pel collocamento di Lucia erano divenuti inutili: dopo ch'egli l'aveva lasciata, eran nate delle cose, che veniamo a raccontare. Le due donne, in quei pochi giorni ch'ebbero a passare nella casuccia ospitale del sarto, avevano ripigliato, per quanto si poteva, ognuna il suo antico e consueto tenore di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e, come aveva fatto nel monastero, agucchiava, agucchiava, ritirata in una stanzetta, lontano dagli occhi della gente. Agnese andava un po' fuori, un po' rattoppava anch'essa in compagnia della figlia. I loro colloquii erano tanto più tristi quanto più affettuosi: entrambe erano preparate ad una separazione; giacchè la pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del lupo: e quando, quale sarebbe il termine di questa separazione? L'avvenire era scuro, inestricabile; per una di loro massimamente. Agnese pur pure vi andava facendo dentro le sue congetture liete: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro, dovrebbe presto fare aver nuove di sè; e, se aveva trovato da lavorare e da stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava in proposito di mantener la fede a Lucia; perchè non si potrebbe andare a star con lui? E di tali speranze andava spesso intrattenendo la figlia, per la quale non saprei dire se fosse maggior dolore l'udire, o pena il rispondere. Il suo gran segreto lo aveva sempre tenuto in sè; e, inquietata bensì dal dispiacere di fare una soppiatteria ad una sì buona madre, ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna e dai varii timori che abbiam detto di sopra, andava d'oggi in domani, senza parlare. I suoi disegni erano ben diversi da quelli della madre, o per dir meglio non ne aveva; s'era abbandonata del tutto alla Providenza. Cercava ella dunque di lasciar cadere o di stornare quel discorso; o diceva, in termini generali, di non aver più speranza, nè desiderio di cosa di questo mondo, fuorchè di poter presto riunirsi con sua madre; il più delle volte, le lagrime venivano opportunamente a sostituirsi alle parole. «Sai tu perchè ti par così?» diceva Agnese: «perchè hai tanto patito, e non ti par vero che la possa voltarsi in bene. Ma lascia fare al Signore; e se… Lascia che venga un raggio, solamente un raggio; e allora mi saprai dire se non pensi più a niente.» Lucia baciava la madre, e piangeva. Del resto tra loro e i loro ospiti era nata subito una grande amicizia: e dove nascerebbe ella, se non fra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri son buona gente? Agnese massimamente faceva di gran chiacchiere colla padrona. Il sarto poi dava loro un po' di svagamento con delle storie e con dei discorsi morali: e, al desinare sopra tutto, aveva sempre qualche bella cosa da raccontare, di Buovo d'Antona o dei Padri del deserto. A poche miglia di quel paesello, villeggiava una coppia d'alto affare; don Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito, nella penna dell'anonimo. Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari di ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per via dei nostri giudizii, colle nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Colle idee donna Prassede si governava come dicono doversi far cogli amici: ne aveva poche; ma a quelle poche era affezionata assai. Fra le poche, ve n'era per disgrazia molte storte; e non erano quelle ch'ella amasse il meno. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prendere per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di creder leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in nube, che chi fa più del suo dovere possa andare in là del suo diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che v'era di reale, o di vedervi ciò che non v'era; e molte altre cose simili, che possono accadere e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta. All'udire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che a quella occasione si diceva della giovane, venne in curiosità di vederla; e mandò una carrozza con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia. Questa si ristringeva nelle spalle e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l'imbasciata, che trovasse via di scusarla. Finchè s'era trattato di gente minuta che cercava di venire a far conoscenza colla giovane del miracolo, il sarto le aveva renduto volentieri un tale servigio; ma in questo caso, la renitenza gli pareva una specie di ribellione. Fe' tanti visi, tante esclamazioni, disse tante cose: e che non si usava così, e che l'era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere: tanto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti «sicuro, sicuro.» Giunte dinanzi alla signora, ella fe' loro molte accoglienze e molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo, cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da prima aveva loro incusso quella signoresca presenza; anzi vi trovarono una certa attrattiva. E brevemente, donna Prassede, udendo che il cardinale s'era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta da desiderio di secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, si esibì di prender la giovane in casa, dove non le sarebbe imposto altro servigio che d'attendere a lavori d'ago, o di ferri, o di fuso. E soggiunse che penserebbe essa a darne parte a monsignore. Oltre il bene ovvio ed immediato che vi era in un'opera tale, donna Prassede ve ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di addirizzare un cervello, di mettere sulla buona strada chi ne aveva molto bisogno. Perchè, fin da quando aveva inteso la prima volta parlar di Lucia, s'era subito persuasa che, in una giovane la quale aveva potuto promettersi a un furfantone, a un facinoroso, a uno scampaforca in somma, un po' di magagna, qualche pecca nascosta vi doveva essere. Dimmi con chi tratti, e ti dirò chi sei. La visita di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come si dice, ella non paresse a donna Prassede una buona giovane; ma v'era cento cose da dire. Quella testolina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o rispondere a spizzico, come per forza, potevano indicar verecondia; ma dinotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testolina aveva le sue idee. E quell'arrossare a ogni tratto, e quel mandare indietro i sospiri… Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevano niente. Teneva essa per fermo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo, per la sua amicizia con quel furfante, e un avviso per farnela staccare affatto; e posto ciò, si proponeva di cooperare ad un così buon fine. Giacchè, come ella diceva spesso agli altri e a sè stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma cadeva sovente in un terribile equivoco, di pigliar per cielo il suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto si guardò bene di fare il minimo cenno. Era una delle sue massime questa, che, per condurre felicemente a termine un buon disegno, la prima cosa, nella maggior parte dei casi, è di non lasciarlo scorgere. La madre e la figlia si guardarono in viso. Posta la dolorosa necessità di dividersi, la proferta parve ad entrambe accettevolissima, quando altro non fosse stato, per la vicinanza di quella villa col loro paesello: per cui, alla peggio de' peggi, si ravvicinerebbero e potrebber trovarsi insieme, alla prossima villeggiatura. Visto, l'una negli occhi dell'altra, l'assentimento, si volsero entrambe a donna Prassede con quel ringraziare che accetta. Ella rinnovò le cortesie e le promesse, e disse che farebbe lor tosto avere una lettera da presentare a monsignore. Partite le donne, la lettera se la fece fare da don Ferrante, di cui, essendo egli letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario, nelle occasioni d'importanza. Trattandosi d'una di questa sorta, don Ferrante fece gli estremi sforzi d'ingegno; e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l'ortografia; che era una delle molte cose che aveva studiate, e delle poche, sulle quali avesse egli il comando in casa. Donna Prassede copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto. Questo fu due o tre giorni innanzi che il cardinale mandasse la lettiga, per ricondurre le donne a casa loro. Arrivate, ch'egli non era ancora andato in chiesa, smontarono alla casa parrocchiale. Vi era ordine d'introdurle immediatamente: il cappellano, che fu il primo a vederle, lo eseguì, trattenendole soltanto quanto era necessario per far loro, in fretta in fretta, un po' di scuola sul cerimoniale da usarsi con monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse nascostamente da lui. Era, pel pover'uomo, un cruccio continuo il vedere il poco ordine che regnava intorno al cardinale, in quel particolare: «tutto,» diceva cogli altri della famiglia, «per la troppa bontà di quel benedett'uomo; per quella gran famigliarità.» E raccontava di aver perfino udito egli più d'una volta coi propri orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no. Stava in quel punto il cardinale a discorrere con don Abbondio, sopra faccende della parrocchia: dimodochè questi non ebbe campo di dare anch'egli, come avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel passar loro accanto, mentre usciva, ed elle venivano innanzi, potè far d'occhio, per dar loro ad intendere come era contento di loro, e che continuassero, da brave, a tacere. Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall'altra, Agnese cavò di seno la lettera, e la porse al cardinale, dicendo: «è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto vostra signoria illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si hanno da conoscer tutti. Quando avrà letto, vedrà.» «Bene,» disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso dai fiori di don Ferrante. Conosceva quella casa, quanto bastasse per esser certo, che Lucia vi era invitata a buona intenzione, e che vi sarebbe sicura dalle insidie e dalla violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa di donna Prassede, non ne abbiamo notizia positiva. Probabilmente, non era quella la persona che egli avrebbe scelta ad un tal uopo; ma, come abbiam detto o fatto intendere altrove, non era suo costume di disfar le cose fatte da cui apparteneva, per rifarle meglio. «Pigliate in pace anche questa separazione e l'incertezza in cui vi trovate,» soggiunse egli poi; «confidate che sia per finir presto, e che Dio voglia guidare le cose a quel termine, a cui pare ch'Egli le avesse addirizzate; ma tenete per sicuro che, quello ch'Egli vorrà che sia, sarà il meglio per voi.» Diede a Lucia in particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto ad entrambe; le benedisse, e le lasciò andare. All'uscir nella via, elle si trovarono addosso uno sciame d'amici e d'amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le condusse a casa, come in trionfo. Era fra tutte quelle donne una gara di congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte sclamavano di dispiacere, udendo che Lucia se ne andrebbe il domani. Gli uomini gareggiavano nell'offrire servigi; ognuno voleva star quella notte a guardia della casetta. Sul qual fatto, il nostro anonimo stimò bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? fate di non averne bisogno. Tante accoglienze confondevano e imbalordivano Lucia; ma, in sostanza, le fecero bene, distraendola un poco dai pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo, anche in mezzo al frastuono, le si suscitavano, in su quell'uscio, in quelle stanzette, alla vista d'ogni oggetto. Al tocco della campana, che annunziava vicino il cominciar delle funzioni, tutti si mossero verso la chiesa, e fu, per le ritornate, un'altra passeggiata trionfale. Terminate le funzioni, don Abbondio, che era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa pel desinare, fu avvertito che il cardinale voleva parlar con lui. Andò tosto alla camera dell'alto ospite, il quale, lasciatolo venir presso: «signor curato,» cominciò; e quelle parole furon porte in modo, da dover capire, ch'erano il principio d'un discorso lungo e serio: «signor curato; perchè non avete voi unita in matrimonio codesta Lucia col suo promesso sposo?» – Hanno votato il sacco stamattina coloro, – pensò don Abbondio; e rispose barbugliando: «monsignore illustrissimo avrà bene inteso parlare degli scompigli che son nati in quell'affare: è stato tutto una confusione tale, da non potere, nè anche al giorno d'oggi, vederci dentro chiaro: come anche vostra signoria illustrissima può argomentare da questo, che la giovane è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovane, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.» «Domando,» ripigliò il cardinale, «se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando ne eravate richiesto, nel giorno convenuto; e il perchè.» «Veramente… se vostra signoria illustrissima sapesse… che intimazioni… che precetti terribili ho avuti di non parlare…» E restò, senza conchiudere, in un certo atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione voler saperne di più. «Ma!» disse il cardinale, con voce e con volto gravi oltre il costume: «è il vostro vescovo che, per suo dovere, e per vostra giustificazione, vuole intender da voi il perchè non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era vostro obbligo di fare.» «Monsignore,» disse don Abbondio, facendosi piccin piccino, «non ho già voluto dire… Ma mi è sembrato che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimescolare… Però, però, dico, so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero paroco. Perchè, vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può essere da per tutto; e io resto qui esposto… Pure, quando ella comanda così, dirò, dirò tutto.» «Dite: io non vorrei altro, che trovarvi senza colpa.» Allora don Abbondio si fece a raccontare la dolorosa storia; ma soppresse il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta. «E non avete avuto altro motivo?» chiese il cardinale, udito bene il tutto. «Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,» rispose don Abbondio: «sotto pena della vita, m'hanno intimato di non fare quel matrimonio.» «E vi par codesta una ragione bastante, per omettere un dovere preciso?» «Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita…» «E quando vi siete presentato alla Chiesa,» disse, con accento ancor più grave, Federigo, «per ricevere codesto ministero, v'ha ella fatto cauto della vita? V'ha ella detto che i doveri annessi al ministero fossero franchi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O vi ha detto che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non vi ha espressamente detto il contrario? Non vi ha avvertito che, vi mandava come un agnello fra i lupi? Non sapevate voi che c'era dei violenti, a cui potrebbe spiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quegli da cui teniamo la dottrina e l'esempio, ad imitazione di Cui, ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra ad esercitarne l'uficio, pose Egli per condizione, d'aver salva la vita? E per salvarla, per serbarla, dico, qualche giorno di più in sulla terra, a spese della carità e del dovere, faceva egli mestieri l'unzione santa, l'imposizione delle mani, la grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, ad insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch'esso le sue leggi, che prescrivono il bene, che prescrivono il male; ha il suo vangelo anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol che si dica che l'amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è obedito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebb'ella, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?» Don Abbondio teneva il capo basso: il suo spirito stava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualche cosa bisognava rispondere, disse, con una tal sommissione impersuasa: «monsignore, avrò il torto. Quando la vita non s'ha da contare, non so che dire. Ma quando s'ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragione, anche a voler fare il bravo, non saprei che cosa ci si potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può nè vincerla nè pattarla.» «E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? quale è la buona nuova che annunziate ai poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza colla forza? Certo, non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare i potenti; che a questo non vi fu dato nè missione, nè modo. Ma ben vi sarà domandato se avrete posti in opera i mezzi che erano in voi, di far ciò che vi era prescritto, anche quando eglino avessero la temerità d'inibirvelo.» – Anche questi santi son curiosi, – pensava intanto don Abbondio: – in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d'un povero sacerdote. – E, quanto a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, ad ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o una apologia, qualche cosa in somma. «Torno a dire, monsignore,» rispose egli dunque, «che avrò io il torto… Il coraggio, uno non se lo può dare.» «E perchè dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero, che v'impone di stare in guerra colle passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate posto, il coraggio vi è necessario, per adempiere alle vostre obbligazioni, c'è Quegli che ve lo darà infallibilmente, quando glielo domandiate? Credete voi che tutti que' milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che tenessero naturalmente a vile la vita? tanti giovanetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi ch'ella fosse già presso alla fine, tante donzelle, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perchè il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah, se per tanti anni d'uficio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete posto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l'amore è intrepido. Or bene, se voi gli amavate, quelli che son commessi alla vostra cura spirituale, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati, insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne vi ha fatto tremar per voi, così la carità vi avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perchè era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza, per vincerlo, per discacciarlo, perchè era una tentazione: ma il timore santo e nobile per altrui, pei vostri figliuoli, quello lo avrete ascoltato, quello non vi avrà dato pace, quello vi avrà incitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per istornare il pericolo che lor sovrastava… Che cosa v'ha inspirato il timore, l'amore? Che cosa avete fatto per loro? Che cosa avete pensato?» E tacque in atto d'aspettazione. A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s'era ingegnato di risponder qualche cosa a delle meno precise, restò senza batter parola. E per verità, anche noi, con questo manoscritto dinanzi, con una penna in mano, non avendo da contrastare, che con le frasi, nè altro da temere, che le critiche dei nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire; troviamo un non so che di strano in questo metter fuori, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di sollecitudine operosa per gli altri, di sagrificio illimitato di sè. Ma, pensando che quelle cose erano dette da uno, che poi le faceva, tiriamo innanzi arditamente. «Voi non rispondete?» ripigliò il cardinale. «Ah, se aveste fatto, dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; comunque poi le cose fossero andate, avreste ora che rispondere. Vedete dunque voi stesso che abbiate fatto. Avete obedita l'iniquità, non curando ciò che il dover prescriveva. L'avete obedita puntualmente: si era mostrata a voi, per significarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si desse all'arme, voleva il segreto, per maturare a suo agio i suoi disegni d'insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e tacevate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero che abbiate mendicati dei pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il motivo.» E stette alquanto, pure attendendo una risposta. – Anche questa gli hanno rapportata le cicalone – pensava don Abbondio; ma in voce non faceva segno di aver nulla da dire; per lo che il cardinale continuò, «se è vero adunque, che abbiate detto a quei poveretti ciò che non era, per tenerli nell'ignoranza, nell'oscurità, in cui l'iniquità li voleva… Dunque lo debbo credere; dunque non mi resta che di arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me. Vedete a che vi ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la adducevate come una giustificazione) quella sollecitudine per la vita del tempo. Vi ha condotto… ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono… vi ha condotto ad ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli.» – Ecco come vanno le cose, – diceva ancora in sè don Abbondio: – a quel satanasso, – e pensava all'innominato, – le braccia al collo; e a me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto romore in capo. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti mi abbiano a dare addosso; anche i santi. – E ad alta voce, disse: «ho fallato; capisco che ho fallato; ma che cosa aveva da fare in un frangente di quella sorte?» «E ancor lo chiedete? E non ve l'ho io detto? E doveva io dirvelo? Amare, figliuolo; amare e pregare. Allora avreste sentito che l'iniquità può aver bensì delle minacce da fare, dei colpi da dare, ma non dei comandamenti; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l'uomo voleva separare; avreste prestato a quegli innocenti infelici il ministero che avevan ragione di ripetere da voi: delle conseguenze sarebbe stato mallevadore Iddio, perchè si sarebbe seguito il suo ordine: seguendone un altro, ne siete entrato voi mallevadore: e di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano, forse che non era aperta alcuna via di scampo, quando aveste voluto guardarvi appena intorno, pensarci, cercare? Adesso, voi potete sapere che quei vostri poveretti, quando fossero stati maritati, avrebbero essi pensato al loro scampo, erano disposti a fuggire dalla faccia del potente, si avevano già disegnato il luogo di rifugio. Ma anche senza questo, non vi sovvenne dunque che avevate pure un superiore? Il quale, come mai avrebbe questa autorità di riprendervi dell'aver mancato al vostro uficio, se non tenesse obbligo di aiutarvi ad adempierlo? Perchè non avete voi pensato ad informare il vostro vescovo dell'impedimento che una infame violenza poneva all'esercizio del vostro ministero?» – I pareri di Perpetua! – pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a quei discorsi, ciò che stava più vivamente dinanzi era l'immagine di que' bravi, e il pensiero, che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l'altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E sebbene quella dignità presente, quell'aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl'incutessero una tema; era però una tema che non lo soggiogava affatto, nè impediva al pensiero di ricalcitrare: perchè v'era in quel pensiero, che alla fin fine il cardinale non adoperava, nè schioppo, nè spada, nè bravi. «Come non avete pensato,» proseguiva questi, «che, se a quegli innocenti insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, io pur c'era, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste addirizzati, addirizzati dei derelitti ad un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E quanto a voi, io, sarei divenuto sollecito per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch'io non avessi come, dove, porre in sicuro la vostra vita? Ma quell'uomo che fu tanto ardito, credete voi che non avrebbe nulla rimesso dell'ardire, quando avesse saputo che le sue trame erano note fuor di qui, note a me, ch'io vegliava, ed era risoluto d'usare a vostra difesa tutti i mezzi posti in mia mano? Non sapevate che, se l'uomo promette, troppo spesso, più che non sia per attenere, minaccia anche, non di rado, più che non s'attenti poi di commettere? Non sapevate che l'iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma ben anche sulla credulità e sullo spavento altrui?» – Proprio le ragioni di Perpetua, – pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che quel riscontro singolare della sua serva e di Federigo Borromeo, a giudicar lo stesso di ciò che egli avrebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui. «Ma voi,» proseguì e conchiuse il cardinale, «non avete veduto, nè voluto vedere, che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia paruto tale, da metter per esso in non cale ogni altra cosa?» «Gli è perchè le ho vedute io quelle facce,» scappò a rispondere don Abbondio; «le ho sentite io quelle parole. Vostra signoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser nei panni d'un povero prete, ed essersi trovato al punto.» Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; si accorse d'essersi lasciato troppo vincere dal dispetto, e disse seco stesso: – ora vien la gragnuola. – Ma levando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, in vedere l'aspetto di quell'uomo, che non gli riusciva mai d'indovinare nè di comprendere, in vederlo passare, da quella gravità autorevole e castigatrice, ad una gravità compunta e pensosa. «Pur troppo!» disse Federigo, «tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che noi faremmo, nel caso stesso, quello che abbiamo fatto in casi simigliami! Ma guai, s'io avessi da pigliar la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento. Pure, è certo che, con le dottrine, io debbo dare altrui l'esempio, non rendermi simile al fariseo, che impone altrui importabili pesi, i quali egli non vuol pur toccare col dito. Or bene, figliuolo e fratello; poichè gli errori di quei che presiedono sono spesso più noti altrui che non a loro; se voi sapete che io abbia, per pusillanimità, per rispetto qualunque, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinchè, dove ha mancato l'esempio, sovvenga almeno la confessione. Rimostratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perchè sentirete più vivamente, che non son mie, che sono di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria, per far ciò che prescrivono.» – Oh che sant'uomo! ma che tribolatore! – pensava don Abbondio: – anche sopra di sè: purchè frughi, rimescoli, critichi, inquisisca; anche sopra di sè. – Disse poi, ad alta voce: «oh monsignore! mi burla? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima!». E in cuor suo soggiunse: – anche troppo.– «Io non vi domandava una lode, che mi fa tremare,» disse Federigo; «perchè Dio conosce i miei mancamenti, e quel ch'io stesso ne conosco, basta a confondermi. Ma avrei voluto, vorrei, che ci confondessimo insieme dinanzi a Lui, per confidare insieme. Vorrei, per amor di voi, che sentiste come la vostra condotta sia stata, come il vostro linguaggio sia opposto alla legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.» «Tutto si rovescia addosso a me,» disse don Abbondio: «ma queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d'essermisi introdotte in casa a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.» «Lo hanno detto, figliuolo: ma questo mi accuora, questo mi atterra, che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che diate accusa altrui di ciò che dovrebb'esser parte della vostra confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero eglino cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa?; pensato ad insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui?; a sorprenderlo, se egli non si fosse rimpiattato? E a questi voi date carico? E vi sdegnate perchè, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbiano detta una parola di sfogo, al loro, al vostro pastore? Che il richiamo dell'oppresso, la querela dell'afflitto sieno odiosi al mondo, esso è tale; ma noi! Ma che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava egli conto che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova ragione di amar queste persone, (e già tante ragioni ne avete) che v'abbiano porta occasione di udire la voce sincera del vostro pastore, che vi abbian dato un mezzo di conoscer meglio e di scontare in parte il gran debito che avete con loro? Ah! se vi avessero provocato, offeso, tormentato; vi direi, (e dovrei io dirvelo?) di amarli, per ciò appunto. Amateli, perchè hanno patito, perchè patiscono, perchè son vostri, perchè son deboli, perchè avete bisogno d'un perdono, ad ottenervi il quale, pensate di che forza possa essere la loro preghiera.» Don Abbondio taceva, ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso: taceva come chi ha più cose da pensare, che non da dire. Le parole ch'egli udiva, erano conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica pure nella sua mente, e non contrastata. Il male altrui, dalla considerazione del quale lo aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora una impressione nuova. E, se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (chè quella stessa paura era sempre lì a far l'uficio d'avvocato difensore); pur ne sentiva; sentiva un dispiacere di sè, una pietà degli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si fa lecito questo paragone, come il lucignolo umido e ammaccato d'una candela, che presentato alla fiamma d'una gran torcia, da principio fumica, schizza, scoppietta, non ne vuoi sapere; ma alla fine s'accende e, bene o male, arde. Si sarebbe altamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia, si mostrava abbastanza commosso, perchè il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto. «Ora,» proseguì egli, «l'uno fuggiasco dalla sua casa, l'altra in procinto di abbandonarla, entrambi con troppa cagione di starne lontano, senza probabilità di riunirsi mai qui, quando pure Dio abbia disegnato di riunirli; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del bene; nè la corta nostra antiveggenza può congetturarne alcuna nell'avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state in agguato, pregatelo che le faccia nascere.» «Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero,» rispose don Abbondio, con una voce che mostrava di venir dal cuore. «Ah sì, figliuolo, sì!» sclamò Federigo; e con una dignità piena d'affetto conchiuse: «sa il cielo come avrei desiderato di tener con voi tutt'altri discorsi. Entrambi abbiamo già molto vissuto: sa il cielo se m'è stato duro di dover contristar con rampogne codesta vostra canizie; quanto avrei amato meglio di racconsolarmi con esso voi, delle nostre cure comuni, dei nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale già siam giunti sì presso. Faccia Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non vogliate ch'Egli mi chiegga conto, in quel giorno, dell'avervi mantenuto in un ufìcio, al quale siete così infelicemente venuto meno. Riscattiamo il tempo: la mezza notte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori, miseri, vôti; perchè Gli piaccia riempirli di quella carità, che ammenda il passato, che assicura l'avvenire, che teme e confida, piange e s'allegra, con sapienza; che diventa, in ogni caso, la virtù di cui abbiamo bisogno.» Così detto, si mosse; e don Abbondio gli tenne dietro. Qui l'anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di quei due personaggi, nè Lucia il solo argomento de' loro abboccamenti; ma ch'egli s'è ristretto a questo, per non andar troppo divagando dal soggetto principale del racconto. E che, per lo stesso motivo, non farà menzione di altre cose notabili, dette e fatte da Federigo in tutto il corso della visita, nè delle sue larghezze, nè dei dissidii composti, dei vecchi rancori tra persone, famiglie, terre intere, spenti o (il che era pur troppo più frequente) sopiti, nè di qualche bravacci o tirannelli, mansuefatti, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle quali v'aveva sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi, dove quell'uomo eccellente facesse qualche soggiorno. Segue poi a dire, come, il mattino seguente, venne donna Prassede, secondo il concertato, a prender Lucia, e a complimentare il cardinale; che gliela lodò, e raccomandò caldamente. Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che lagrime, e uscì della sua casetta, disse per la seconda volta addio al suo paese, con quel senso di doppia amaritudine, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e che non può esserlo più. Ma il commiato dalla madre non era l'ultimo; perchè donna Prassede aveva annunziato che si soggiornerebbe ancor qualche giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana di quivi; e Agnese promise alla figlia di andar colà, a dare e a ricevere un più doloroso addio. Il cardinale era anch'egli sulle mosse, per portarsi ad un'altra parrocchia, quando capitò, e chiese di parlargli, il curato di quella in cui era il castello dell'innominato. Intromesso, presentò un gruppo e una lettera di quel signore, la quale pregava Federigo di fare accettare alla madre di Lucia un cento scudi d'oro che erano nel gruppo, per servir di dote alla giovane, o per quell'uso che ad entrambe sarebbe paruto migliore; lo pregava insieme di dir loro che, se mai, quando che fosse, avessero creduto ch'egli potesse render loro qualche servigio, la povera giovane sapeva pur troppo dove egli abitasse; e per lui, quella sarebbe una delle venture più desiderate. Il cardinale fe' tosto chiamare Agnese, le espose la commissione, che questa intese con maraviglia e soddisfazione pari; e le presentò il rotolo, ch'ella, senza molte cerimonie, si lasciò porre in mano. «Dio gliene renda merito, a quel signore,» diss'ella: «e vossignoria illustrissima lo ringrazii tanto tanto. E non dica niente a nessuno, perchè questo è un certo paese… Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a chiacchierare di queste cose; ma… mi capisce.» Andò a casa, cheta cheta; si chiuse in camera, svolse il gruppo, e, quantunque preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchio e suoi, tanti di quei ruspi, de' quali non aveva forse mai veduto più d'un per volta, e anche di rado; li noverò, penò alquanto d'ora a rimetterli insieme, e a farli star di costa tutti e cento, che ad ogni tratto facevano pancia e sguizzavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotoletto alla meglio, lo pose in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene, attorno attorno, con una cordicella, lo andò a ficcare in un angolo del suo pagliericcio. Pel rimanente di quel giorno, non fe' altro che mulinare, far disegni nell'avvenire, e sospirare intanto il domani. Postasi a letto, stette buon tempo desta, col pensiero in compagnia di quei cento che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno. All'alba, si levò, e si mise tosto in cammino alla volta della villa dove si trovava Lucia. Questa, dalla sua parte, quantunque non le si fosse scemata in nulla quella gran renitenza a parlare del voto, pure era risoluta di farsi forza, e di aprirsene colla madre, in quel colloquio, che per lungo tempo doveva chiamarsi l'ultimo. Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme in un tuono sommesso di voce, come se vi fosse stato presente qualcheduno, a cui ella non volesse farsi intendere, cominciò: «t'ho da dire una gran cosa;» e seguitò raccontando della inaspettata ventura. «Iddio lo benedica quel signore,» disse Lucia: «così avrete da star bene voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro.» «Come!» rispose Agnese: «non vedi quante cose possiam fare, con tanti danari? Senti; io non ho altri che te, che voi due, posso dire; perchè Renzo, da che ti cominciò a parlare, l'ho sempre risguardato come un mio figliuolo. Il tutto sta, che non gli sia accaduta qualche disgrazia, a vedere che non dà segno di vita: ma eh! ha mo da andar tutto male? Speriamo di no, speriamo. Per me, avrei avuto caro di lasciar l'ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi stare, in grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare di averlo vicino, colui, m'è diventato amaro il mio paese: e con voi altri io sto da per tutto. Ero disposta, fin d'allora, a venir con voi altri, anche in capo del mondo; e sono sempre stata in proposito; ma, senza danari, come si fa? Capisci adesso? Quei quattro, che quel poveretto aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto risparmio, è venuta la giustizia, e ha fatto netto; ma, in compenso, il Signore ha mandato la fortuna a noi. Dunque, quando avrà trovato il bandolo di far sapere se è vivo, e dov'è, e che intenzioni ha, ti vengo a pigliare io a Milano, io ti vengo a pigliare. Altre volte ci avrei pensato su, ma le disgrazie fanno diventar disinvolti e sperti, fino a Monza vi sono andata, e so che cosa è viaggiare. Prendo con me un uomo di proposito, un parente, come sarebbe a dire, Alessio di Maggianico: chè, a voler dir proprio in paese, un uomo di proposito non c'è mica: vengo insieme con lui: già la spesa la facciamo noi, e… capisci?…» Ma scorgendo che, invece di animarsi, Lucia s'andava accorando, e non mostrava che una tenerezza senza consolazione, lasciò il discorso a mezzo, e disse «ma che cosa hai? non ti pare?» «Povera mamma!» sclamò Lucia gettandole un braccio attorno al collo, e chinandole sul seno la faccia piangente. «Che c'è?» dimandò di nuovo ansiosamente la madre. «Avrei dovuto dirvelo prima,» disse Lucia, alzando e ricomponendo il volto; «ma non ho mai avuto cuore: compatitemi.» «Ma di' su, dunque» «Io non posso più esser moglie di quel poveretto!» «Come? come?» Lucia, col capo basso, col petto anelante, lagrimando senza piangere, come chi racconta cosa che, quand'anche fosse sventura, non e mutabile, rivelò il voto; e insieme, giugnendo le mani, chiese di nuovo perdonanza alla madre, d'aver taciuto fino allora; la pregò di non parlar di un tal fatto con anima vivente, e di darle aiuto, di facilitarle la via, ad adempiere ciò che aveva promesso. Agnese era rimasta stupefatta e costernata. Voleva sdegnarsi del silenzio tenuto con lei; ma i gravi pensieri del caso soffocavano quel cruccio personale: voleva rimproverare il fatto; ma le pareva che sarebbe un pigliarsela col cielo: tanto più che Lucia tornava a dipingere, più vivamente che mai, quella notte, la desolazione così nera, e la salute così insperata, tra le quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne. E intanto, all'ascoltatrice veniva anche in mente questo e quell'esempio, che aveva uditi raccontar più volte, ch'ella stessa aveva raccontati alla figlia, di castighi strani e terribili, venuti per la violazione di qualche voto. Stata così alcun poco attonita, disse: «e adesso, che cosa farai?» «Adesso,» rispose Lucia, «tocca al Signore di pensarci; al Signore e alla Madonna. Mi sono posta nelle loro mani: non mi hanno abbandonata finora: non mi abbandoneranno adesso che… La grazia che domando per me al Signore, la sola grazia, dopo l'anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la concederà, sì, me la concederà. Quel giorno… in quella carrozza… ah Vergine santissima!… quegli uomini!… chi mi avrebbe detto che mi menavano da quello, che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?» «Ma non parlarne subito a tua madre!» disse Agnese con un certo corruccio smorzato di amorevolezza e di pietà. «Compatitemi; non aveva cuore… e a che serviva di affliggervi qualche tempo prima?» «E Renzo?» disse Agnese, scrollando il capo. «Ah!» sclamò Lucia, trasalendo subitamente, «io non ci ho più da pensare a quel poveretto. Già Iddio non aveva destinato… Vedete come pare che ci abbia voluti proprio tener separati. E chi sa…? ma no, no: il Signore lo avrà preservato dai pericoli, e lo farà esser fortunato anche meglio, senza di me.» «Ma intanto,» ripigliò Agnese, «se non fosse che tu ti sei legata per sempre, a tutto il resto, quando a Renzo non sia accaduta disgrazia, con quei danari io aveva trovato rimedio.» «Ma quei danari,» replicò Lucia, «ci sarebbero venuti, se io non avessi passata quella notte?…È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà.» E la parola morì nel pianto. A quell'argomento inaspettato, Agnese ristette pensosa. Dopo qualche momento, Lucia, comprimendo i singulti, ripigliò: «ora che la cosa è fatta, bisogna adattarcisi di buon cuore; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare, prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi… bisogna bene che quel poveretto lo sappia. Pensateci voi, fatemi anche questa carità; che voi ci potete pensare. Quando voi saprete dov'egli sia, fategli scrivere, trovate un uomo… appunto vostro cugino Alessio, ch'è un uomo prudente e caritatevole, e ci ha sempre voluto bene, e non ciarlerà attorno: fategli scrivere da lui la cosa com'è, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio ha voluto così, e che metta il cuore in pace, e ch'io non posso mai mai esser di nessuno. E fargli capir la cosa con buona grazia, spiegargli che ho promesso, che ho proprio fatto voto… Quando saprà che ho promesso alla Madonna… è sempre stato dabbene… E voi, la prima volta che avrete sue nuove, fatemi scrivere, fatemi sapere che è sano; e poi… non mi fate più saper niente.» Agnese, tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si farebbe come ella desiderava. «Vorrei dirvi un'altra cosa,» ripigliò questa: «quel poveretto, se non avesse avuta la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accaduto quel che gli è accaduto. E attorno pel mondo: gli hanno rotto il suo avviamento, gli hanno portato via la sua roba, quei risparmii che aveva fatti, poveretto, sapete perchè… E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma!, giacchè il Signore ci ha mandato tanto bene, e quel poveretto, è proprio vero che lo riguardavate come vostro…sì come un figliuolo, oh! fate metà per uno; chè, sicuro, Iddio non ci mancherà. Cercate di aver l'occasione d'un uomo fidato, e mandateglieli, chè sa il cielo come ne ha bisogno!» «Ebbene? che cosa credi?» rispose Agnese «lo farò mo davvero. Povero giovane! Perchè pensi tu che io fossi così contenta di quei danari? Ma… ! io era proprio venuta qui tutta contenta, io. Basta, io glieli manderò, povero giovane! Ma anch'egli… so quel che dico, certo che i danari fanno piacere a chi ne ha bisogno; ma questi non saran quelli che lo facciano ingrassare.» Lucia rendette grazie alla madre, di quella pronta e liberale condiscendenza, con una gratitudine, con un affetto, da far giudicare a chi l'avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora a parte con Renzo, forse più che ella stessa non credesse. «E senza di te, che farò io povera donna?» disse Agnese, piangendo alla sua volta. «E io senza di voi, mia povera mamma? e in casa di forastieri? e laggiù in quel Milano… ! Ma il Signore sarà con tutte e due; e poi ci farà tornare insieme. Fra otto o nove mesi, ci rivedremo qui; e di qui allora, e anche prima, spero, Egli avrà aggiustate le cose, per consolarci. Lasciamo fare a Lui. La domanderò sempre sempre alla Madonna questa grazia Se avessi qualche altra cosa da offerirle, lo farei, ma è tanto misericordiosa, che me la otterrà in dono.» Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di conforto, di repetìo, e di rassegnazione, di domanda, e di assicurazione del segreto, e con molte lagrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le donne si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi all'autunno vegnente, il più tardi; come se l'attenere stesse in loro, e come pure si fa sempre in simiglianti casi. Intanto cominciò a passar molto tempo, senza che Agnese potesse risaper nulla di Renzo. Lettere nè imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti quelli del paese, o del contorno, ch'ella ne potè domandare, nessuno ne sapeva punto più di lei. Nè era essa la sola che facesse invano una tale ricerca: il cardinal Federigo, che non aveva detto per cerimonia alle povere donne, di voler pigliare informazioni del pover'uomo, aveva in fatti scritto tosto, per averne. Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuta risposta, in cui gli si diceva, non potersi trovar ricapito dell'indicato soggetto, che veramente egli aveva fatto qualche soggiorno nel tal paese, dove non aveva dato nulla da dire, ma, una mattina, ne era scomparso all'improvviso; che un suo parente, il quale lo aveva albergato quivi, non sapeva che egli fosse divenuto, e non poteva se non ripetere certe voci in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovane arrolato pel Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume; che non si mancherebbe di stare alle vedette, se mai venisse fuora qualche notizia più fondata, per farne tosto parte a sua signoria illustrissima e reverendissima. Più tardi, quelle ed altre voci si diffusero anche nel territorio di Lecco, e vennero per conseguenza agli orecchi d'Agnese. La povera donna faceva il possibile, per appurare quale fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, pure al giorno d'oggi, basta da per sè ad attestar tante cose. Talvolta, appena glien'era stata contata una, veniva un altro e le diceva che non era vero niente; ma per dargliene in compenso un'altra, egualmente strana o sinistra. Tutte ciarle egualmente; ecco il fatto. Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez di Cordova, aveva fatto un gran risentimento col signor residente di Venezia in Milano, perchè un brigante, un ladrone publico, un promotore di saccheggio e di ammazzamento, il famigerato Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa, per iscampare a forza, fosse accolto e ricettato nel territorio bergamasco. Il residente aveva risposto che non sapeva niente; scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella spiegazione che fosse del caso. A Venezia si aveva per massima di secondare e di coltivare l'inclinazione degli operai di seta milanesi a traspiantarsi nel territorio bergamasco, e quindi di far che vi trovassero molti vantaggi e, sopra tutto, quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza. Siccome però, fra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese, e che farebbe saviamente a mettersi in qualche altra fabbrica, mutando anche nome, per qualche tempo. Bortolo intese il latino, non istette ad obiettare, spiegò la cosa al cugino, lo tolse con sè in un calessetto, lo condusse ad un altro nuovo filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto nome di Antonio Rivolta, al padrone, ch'era pur natìo dello stato di Milano, e suo antico conoscente. Questi, quantunque i tempi fossero scarsi, non si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato, come onesto e abile, da un galantuomo intelligente. Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell'acquisto; salvo che, in sul principio, gli era sembrato che il giovane dovesse essere un po' stordito di natura, perchè, quando si chiamava: Antonio!, le più volte non rispondeva. Poco dopo, si ordinò da Venezia, in istile pacato, al capitano di Bergamo, che pigliasse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e segnatamente nel tal paese, si trovasse il tale soggetto. Il capitano, fatte le sue diligenze, al modo che aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa, la quale fu trasmessa al residente in Milano, che la trasmettesse a don Gonzalo Fernandez de Cordova. Non mancavano poi curiosi, che volessero sapere da Bortolo, perchè quel giovane non c'era più, e dove fosse andato. Alla prima inchiesta quegli rispondeva: «ma! è scomparso.» Per mandare in pace i più insistenti, senza dar loro sospetto di quel che n'era davvero, aveva trovato di regalar loro, a chi l'una, a chi l'altra delle notizie da noi riferite di sopra: però, come cose incerte, che aveva anch'egli intese raccontare, senza averne un ragguaglio positivo. Ma quando la domanda gli venne fatta per commissione del cardinale, senza nominarlo, e con un certo apparato d'importanza e di mistero, lasciando intendere ch'egli era in nome di un gran personaggio; tanto più Bortolo s'ingelosì, e giudicò necessario di attenersi al suo metodo di rispondere; anzi, trattandosi d'un gran personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate ad una ad una, in quelle diverse occorrenze. Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorta, la avesse proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse della irriverenza usata e delle male parole dette da colui al suo re moro incatenato per la gola, volesse fare una sua vendetta; o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggente, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano con Annibale. Don Gonzalo aveva troppe e troppo grandi cose in testa, per pigliarsi briga dei fatti di Renzo; e se parve che se ne pigliasse, ciò venne da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo, nè allora nè mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, appiccato a quelle troppe e troppo grandi cose. Già più d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c'è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicchè non abbiamo mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all'intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d'averne qualche notizia più particolare. Sono cose che chi sa di storia le ha da sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiamo supporre che quest'opera non possa esser letta, se non da ignoranti; così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi ne avesse bisogno. Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato, in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d'un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhétel, era entrato al possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: chè la fretta appunto ce l'aveva fatto lasciar nella penna. Il ministero spagnuolo, che voleva ad ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da quei due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d'una ragione (perchè le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s'era dichiarato sostenitore di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo, che era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quegli che faceva più fuoco, perchè questa si intraprendesse: e intanto, interpretando le intenzioni e precorrendo gli ordini del ministero suddetto, aveva conchiuso col duca di Savoia, un trattato d'invasione e di partigione del Monferrato; e ne aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, persuadendogli molto agevole l'acquisto di Casale, che era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell'imperatore; il quale, tra per gli uficii altrui, tra per suoi proprii motivi, aveva intanto negata l'investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: egli poi, intese le parti, li rimetterebbe a chi di ragione. Al che il Nevers non s'era voluto piegare. Aveva egli pure amici d'importanza: il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e il papa. Ma il primo, impegnato allora nell'assedio della Roccella, e in una guerra coll'Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de' Medici, contraria, per certe sue ragioni, alla casa di Nevers, non poteva dare che speranze. I veneziani non volevano muoversi, nè manco dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato in Italia; e, aiutando sotto mano il duca come potevano, colla corte di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte, sulle esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Urbano VIII raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversarii, faceva progetti d'accordo; di metter gente in campo non ne voleva udir novella. Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l'impresa concertata. Carlo Emanuele era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva posto, di gran voglia, l'assedio a Casale; ma non vi trovava tutta quella soddisfazione che se n'era promessa: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte non lo serviva, a gran pezza, di tutti i mezzi ch'egli chiedeva; l'alleato lo serviva troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, ne andava prendendo di quella assegnata al re di Spagna. Di che don Gonzalo arrovellava quanto si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po' di romore, che quel duca, così attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati, come prode nell'armi, si volgesse alla Francia, doveva chiuder l'occhio, rodere il freno e far buon viso. L'assedio poi andava male, in lungo, talvolta all'indietro, e pel contegno saldo, avvertito, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, pei molti spropositi che faceva. Su di che noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla una bellissima cosa, se fu cagione, che in quella impresa sieno restati morti, smozzicati, storpiati qualche uomini di meno, e, ceteris paribus, anche soltanto un po' men danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti, gli sopravvenne la nuova della sedizione di Milano, per lo che egli ci accorse in persona. Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, dei fatti veri e supposti che avevano dato cagione alla presa di lui; e gli si seppe anche dire che questo tale s'era rifuggito sul territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l'attenzione di don Gonzalo. Era egli informato da tutt'altra parte, come a Venezia s'era preso grand'animo, per la sommossa di Milano; come, da principio, vi s'era creduto ch'egli ne sarebbe costretto di levar le tende d'attorno a Casale; e come vi si teneva tuttavia ch'egli ne stesse a capo basso e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell'avvenimento era giunta la notizia, sospirata da que' signori e temuta da lui, della resa della Roccella. E sentendo dispiacere assai, e come uomo e come politico, che que' signori avessero un tal concetto dei fatti suoi, spiava ogni opportunità di farneli ricredere, e di persuaderli, per via d'induzione, che non aveva rimesso in nulla dell'antica baldanza; giacchè il dire esplicitamente, non ho paura, è come non dir niente. Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme nella sua faccia e nel suo contegno, come egli stesse di dentro, (notate tutto; che questa è politica di quella vecchia fina) don Gonzalo, dopo d'aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quella passata che sapete intorno a Renzo; come sapete anche quel che ne venne in seguito. Dopo di che, non s'occupò altro d'un affare così minuto e, quanto a lui, terminato; e quando poi, buon tempo dopo, gli pervenne la risposta, al campo sopra Casale, dov'era tornato, e dove aveva tutt'altro per la mente, alzò e dimenò la testa, come uh baco da seta che cerchi la foglia; badò un istante, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non vi rimaneva più che un'ombra; si risovvenne della cosa, ebbe un'idea fugace e in nebbia del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più. Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s'era fatto vedere in nube, doveva presupporre tutt'altro che una così benigna non curanza, stette un pezzo senz'altro pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio, che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar sue nuove alle donne, e di averne in ricambio; ma v'era due grandi difficoltà. L'una, che sarebbe stato mestieri anche a lui di confidarsi ad un segretario, perchè il poveretto non sapeva scrivere, nè anche leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu mica un vanto, una sparata, come si dice; ma era il vero che lo stampato lo sapeva leggere, con un po' di tempo: lo scritto è un'altra cosa. Gli conveniva dunque mettere un terzo a parte dei suoi interessi, d'un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a quei tempi non si trovava così facilmente; massime in un paese, dove non si avesse nessuna antica conoscenza. L'altra difficoltà era d'avere anche un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di ricapitarla; tutte cose anche queste, difficili a riscontrarsi in un uomo solo. Finalmente, a forza di cercare e di tastare, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, stimò bene di far chiudere la lettera diretta ad Agnese in una sopraccarta coll'indirizzo al padre Cristoforo, e con due righe anche per lui. Lo scrivano prese anche l'assunto di far ricapitare il plico; lo consegnò ad uno che doveva passare non lontano da Pescarenico; questi lo lasciò, con molte raccomandazioni, in un albergo della via, al punto il più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato ad un convento, vi pervenne; ma che ne avvenisse di poi non s'è mai saputo. Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un'altra lettera, a un di presso come la prima, e acchiuderla in un'altra ad un suo conoscente di Lecco, o parente che fosse. Si cercò un altro portatore, si trovò; questa volta la lettera arrivò a cui era indiritta. Agnese trottò a Maggianico, se la fe' leggere e spiegare da quell'Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, ch'egli mise in iscritto; si trovò mezzo d'inviarla ad Antonio Rivolta nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non così speditamente come noi lo raccontiamo. Renzo ebbe la risposta, e col tempo mandò la replica. In somma, si avviò fra le due parti un carteggio, nè rapido nè regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato. Ma, per avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un po' come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perchè, in questo particolare, credo ci sia poco o nulla di mutato. Il forese che non sa scrivere, e che si trova al punto di avere a scrivere, si rivolge ad uno che conosca quell'arte, pigliandolo, per quanto può, fra quelli della sua condizione, perchè degli altri si perita o si fida poco; lo informa, con più o meno ordine e perspicuità, degli antecedenti; e gli espone nello stesso modo i concetti da descriversi. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cangiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, tira come può, dalla lingua parlata alla scritta il concetto che ha ricevuto, lo corregge a suo modo, lo migliora, carica la mano, oppure smorza, omette anche, secondochè gli pare tornar meglio alla cosa: perchè, non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere stromento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare a suo modo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non vien sempre fatto di dire tutto quello che vorrebbe; talvolta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a noi, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così conchiusa perviene alle mani del corrispondente, che egualmente non ha pratica dell'abbicì, egli la porta ad un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela dichiara. Nascono delle quistioni sul modo di intendere; perchè l'interessato, fondandosi sulla cognizione dei fatti antecedenti, pretende che certe parole vogliano dire una cosa; il lettore, stando alla pratica ch'egli ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la quale, fatta al modo della proposta, va poi soggetta ad una interpretazione simile. Che se, per giunta, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso, se vi si ha a trattare di affari segreti, i quali non si vorrebbe lasciare intendere ad un terzo, caso che la lettera andasse in sinistro; se, per questo riguardo, vi si mette anche l'intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono ad intendersi fra loro come altre volte due scolastici che da quattr'ore disputassero sulla entelechia: per non prender similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto. Ora, il caso dei nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto. La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie. Da prima, oltre un racconto della fuga, più conciso d'assai, ma anche più malcomposto di quello che abbiam dato noi, un ragguaglio delle circostanze attuali di lui; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno furono ben lontani di ricavare un concetto lucido e intero: avviso segreto, cangiamento di nome, essere sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sè non troppo famigliari ai loro intelletti, e nella lettera, dette anche un po' in cifra. V'era poi delle dimande affannose, appassionate, sui casi di Lucia, con dei cenni scuri e dolenti, intorno alle voci che n'erano venute fino a Renzo. V'erano finalmente speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell'avvenire, e intanto promesse e preghiere di mantener la fede data, di non perdere la pazienza nè il coraggio, di aspettar tempo. Passato un po' di questo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire alle mani di Renzo una risposta, coi cinquanta scudi, assegnatigli da Lucia. Al veder tant'oro, egli non sapeva che si pensare; e, coll'animo agitato da una maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a compiacenza, corse in cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d'un così strano mistero. Nella lettera, il segretario d'Agnese, dopo qualche lamento sulla poca perspicuità della proposta, veniva a descrivere in un modo per lo meno altrettanto lamentevole, la tremenda storia di quella persona (così diceva); e qui rendeva ragione dei cinquanta scudi; poi scendeva a parlare del voto, ma per via di perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e spieganti, il consiglio di mettere il cuore in pace, e di non pensarci più. Renzo, poco mancò che non se la pigliasse col lettore interprete: tremava, inorridiva, s'infuriava, di quel che aveva inteso, e di quel che non aveva potuto intendere. Tre e quattro volte si fece rileggere il doloroso scritto, ora intendendo meglio, ora divenendogli buio ciò che gli era paruto chiaro da prima. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario desse subito mano alla penna, e rispondesse. Dopo le espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore, pei casi di Lucia: «scrivete,» proseguiva dettando, «che il cuore in pace io non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non sono pareri da dare a un figliuolo par mio; e che i danari io non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovane; che già la giovane ha da esser mia; e che io non so di promessa; e che ho ben sempre inteso dire che la Madonna c'entra, per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l'ho inteso mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a far casa qui; e che, se adesso sono un po' imbrogliato, l'è una burrasca che passerà presto.» E cose simili. Agnese ricevè poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio continuò, al modo che abbiam detto. Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che egli si dimenticasse di lei; o, per dir proprio la cosa appuntino, ch'egli pensasse a dimenticarla. Dalla sua parte, ella faceva, cento volte il giorno, una risoluzione simile riguardo a lui; e adoperava anche ogni mezzo, per mandarla ad effetto. Stava indefessamente al lavoro, cercava di attaccarvi tutto l'animo: quando l'immagine di Renzo le si presentava, ed ella a dire o a cantare orazioni colla mente. Ma quell'immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più, così alla scoperta; s'intrometteva di soppiatto dietro alle altre, in modo che la mente non s'accorgesse d'averla ricevuta, se non dopo qualche tempo ch'ella v'era. Il pensiero di Lucia stava sovente colla madre: come non vi sarebbe stato?; e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poveretta si lasciava andar qualche volta a fantasticare nella oscurità del suo avvenire, anche lì egli compariva, per dire, se non altro: io, a buon conto, non vi sarò. Pure, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarvi manco, e manco intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia vi riusciva fino ad un certo segno. Vi sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma v'era donna Prassede, la quale tutta impegnata dal canto suo a torle dall'animo colui, non aveva trovato migliore spediente che di parlargliene spesso. «Ebbene?» le diceva: «non pensiamo più a colui?» «Io non penso a nessuno,» rispondeva Lucia. Donna Prassede non si lasciava appagare da una risposta simile; replicava che volevano esser fatti e non parole, si stendeva sul costume delle giovani, le quali, diceva ella, «quando hanno posto il cuore a uno scapestrato, (ed è lì che hanno proprio il pendìo) non ne lo vogliono più staccare. Un partito onesto, ragionevole, d'un galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte; son subito rassegnate; ma uno scavezzacollo, è piaga incurabile.» E allora cominciava il panegirico del povero assente, del ribaldo venuto a Milano, per metterlo a bottino e a macello; e voleva far confessare a Lucia le bricconerie che colui aveva fatte, anche al suo paese. Lucia, colla voce tremante di vergogna, di dolore, e di quella indegnazione che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, asseverava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto dire di sè, altro che bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente un qualunque di là, per domandare il suo testimonio. Anche sulle avventure di Milano, nelle quali ella non poteva venire ai particolari, lo difendeva, appunto colla conoscenza che aveva di lui e de' suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero e, a dir proprio la formola colla quale ella spiegava a sè stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da queste apologie donna Prassede traeva nuovi argomenti, per convincer Lucia che il suo cuore era tuttavia perduto dietro a colui. E per verità, in quei momenti, non saprei ben dire come la cosa fosse. L'indegno ritratto che la vecchia faceva del poveretto, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai nella mente della giovane l'idea che vi s'era formata in una così lunga consuetudine; le memorie soffocate a forza, si svolgevano in folla; l'avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima e di simpatia; l'odio cieco e violento faceva sorgere più forte la pietà: e con questi affetti, chi sa quanto vi potesse essere o non essere di quell'altro che dietro ad essi s'introduce così facilmente negli animi; figuriamoci che cosa farà in quelli, donde si tratti di cacciarlo per forza. Comunque sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; chè bentosto le parole si risolvevano in pianto. Se donna Prassede fosse stata mossa a trattarla a quel modo da un qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lagrime l'avrebbero vinta e fatta tacere; ma, parlando a fin di bene, toccava innanzi, senza lasciarsi smuovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben rattenere l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere per quella volta, dai rinfacciamenti e dalle bravate veniva alle esortazioni, ai consigli, conditi anche di qualche lode, per temperar così l'agro col dolce, e ottener meglio l'effetto, operando sull'animo in tutti i versi. Certo, di quelle batoste, (che avevano sempre a un dipresso lo stesso principio, mezzo e fine) non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l'acerba sermonatrice, la quale poi nel resto la trattava umanissimamente, e anche in questo, mostrava una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una sollevazione di pensieri e d'affetti, tale, che ci voleva non poco tempo e molto travaglio, per tornare a quella qualunque calma di prima. Buon per lei, ch'ella non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene, sicchè le batoste non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della famiglia, tutti cervelli che avevano bisogno, più o meno, d'essere raddirizzati e guidati, oltre tutte le altre occasioni che le si offrivano, o ch'ella sapeva trovare, di prestar lo stesso uficio, per buon cuore, a molti verso cui non era obbligata a niente, aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davano assai più da pensare, che se vi fossero state. Tre erano monache, due maritate; di che donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere; impresa vasta e complicata, e tanto più ardua, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, due badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, urbane fino a un certo segno, ma attive, sempre veglianti: era in ognuno di quei luoghi una attenzione continua a scansare la sua sollecitudine, a chiuder l'adito ai suoi pareri, ad eludere le sue inchieste, a far ch'ella fosse al buio, quanto si poteva, d'ogni faccenda. Non parlo dei contrasti, delle difficoltà ch'ella incontrava nel maneggio di altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza. Dove il suo zelo poteva esercitarsi e giucar liberamente, era in casa: ogni persona quivi era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, salvo don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare. Uomo di studio, egli non amava nè di comandare nè di obedire. Che, in tutte le cose della casa, la signora moglie fosse la padrona, in buon'ora; ma egli servo, no. E se, richiesto, le prestava all'occorrenza l'uficio della penna, egli è perchè vi aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò ch'ella voleva fargli scrivere. «La s'ingegni,» diceva in quei casi; «faccia da sè, giacchè la cosa le par tanto chiara.» Donna Prassede, dopo d'aver tentato per qualche tempo invano di tirarlo dal lasciar fare al fare, s'era ristretta a brontolar sovente contro di lui, a nominarlo uno schifapensieri, un uomo di suo capo, un letterato; titolo nel quale, insieme col dispetto, entrava anche un po' di compiacenza. Don Ferrante passava di molte ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali egli era più o meno versato. Nell'astrologia, era tenuto a buon diritto per più che un dilettante; perchè non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche e quel vocabolario comune, d'influssi, di aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito, e come in cattedra, delle dodici case del cielo, dei circoli massimi, dei gradi lucidi e tenebrosi, di esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, dei principii in somma più certi e più reconditi della scienza. Ed erano forse vent'anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell'Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però sofferire quel non voler mai arrendersi ai moderni, anche dove hanno evidentemente ragione. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni fallite, per dimostrare che la colpa non era della scienza, ma di chi non l'aveva saputa applicare. Della filosofia antica aveva appreso quanto poteva bastare, e ne andava continuamente apprendendo di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però quei sistemi, per quanto sieno belli, non si può tenerli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotele, il quale, soleva egli dire, non è nè antico nè moderno; è il filosofo, senza più. Teneva anche varie opere de' più savii e sottili seguaci di lui, fra i moderni: quelle de' suoi impugnatori non aveva mai volute leggerle, per non gettare il tempo, diceva; nè comperarle, per non gettare i danari. Solo, in via d'eccezione, dava luogo nella sua biblioteca a quei celebri ventidue libri De subtilitate, e a qualche altra opera anti-peripatetica del Cardano, in grazia del costui valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim geniturarum, meritava d'essere ascoltato anche quando spropositava; e che il gran difetto di quell'uomo era stato d'aver troppo ingegno; e che nessuno può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se si fosse tenuto nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio dei dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, pure a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d'una volta ebbe a dire, con gran modestia, che l'essenza, gli universali, l'anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere. Della filosofia naturale si era fatto più un passatempo che uno studio; le opere stesse di Aristotele su questa materia, le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questo, colle notizie raccolte incidentemente dai trattati di filosofìa generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali, d'Alberto Magno, a qualche altra opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una brigata di colte persone, ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e le abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senz'ardere: come la remora, quel pesciatello, abbia la forza e l'abilità di arrestare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada divengano perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si pascoli d'aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, coll'andare dei secoli, si formi il cristallo; ed altri dei più maravigliosi segreti della natura. In quelli della magia e della stregoneria si era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di ben altra importanza, e si hanno più alla mano, da poterli verifìcare. Non occorre dire che, in un tale studio, egli non aveva mai avuta altra mira che d'istruirsi e di conoscere appunto le pessime arti dei maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, colla scorta principalmente del gran Martino Delrio (l'uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professodel maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e delle infinite specie che, pur troppo, dice ancora l'anonimo, si veggono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi. Non meno vaste e fondate erano le sue cognizioni in fatto di storia, massime universale: nella quale erano suoi autori, il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più riputati in somma. Ma che è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che va e va, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida. V'era dunque nei suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti di picciol sesto e di secondo grido, campeggiavano, il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini. Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e d'un bel tratto, in questa materia; due che, fino ad un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a quale dei due convenisse unicamente quel grado: l'uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; birbo sì, diceva don Ferrante, ma profondo l'altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva egli pure, ma acuto. Ma, poco innanzi appunto al tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto in luce il libro che terminò la quistione del primato, prendendo la mano anche sulle opere di quel due matadori, diceva don Ferrante;il libro in cui si trovano racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù per poterle praticare; quel libro scarso di mole, ma tutto d'oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione, di quell'uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più grandi letterati lo esaltavano a gara, e i più grandi personaggi facevano a rubarselo; di quell'uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifici encomii; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, don Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V, l'altro le guerre del re cattolico in Italia, l'uno e l'altro invano; di quell'uomo, che Luigi XIII re di Francia, per suggerimento del cardinale di Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì lo stesso uficio; in lode di cui, per tacere d'altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV, potè in un diploma, con molti altri titoli, annoverare «la certezza della fama che egli ottiene in Italia, di primo scrittore de' nostri tempi.» Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ve n'era in cui meritava e godeva titolo di professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vera padronanza, ma, richiesto sovente ad intervenire in affari d'onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tale materia: Paris del Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei, l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e all'uopo sapeva citare a memoria, tutti i passi così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria. L'autore però degli autori, nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d'una volta, a dar giudizio sopra casi d'onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i Discorsi Cavallereschi di quell'insigne scrittore, pronosticò egli, senza esitazione, che quest'opera avrebbe rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe rimasta, insieme colle altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l'anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata. Da questo passa egli poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare, se veramente il lettore abbia una gran voglia di andare innanzi con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi coll'anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente egli non s'è tanto disteso, che ad intento di sfoggiar dottrina, e di mostrare che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perdere la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci nel cammino della storia: tanto più che ne abbiamo un buon tratto da percorrere, senza incontrare alcuno dei nostri personaggi, e un più lungo ancora, prima di trovar quelli ai di cui successi certamente il lettore s'interessa di più, se a qualche cosa s'interessa in tutto questo. Fino all'autunno del seguente anno 1629, rimasero essi tutti quanti, qual di grado, quale per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiamo lasciati, senza che ad alcuno accadesse, nè che alcun altro potesse far cosa degna d'essere riferita. Venne quell'autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme; ma un grande avvenimento publico fe' tornar fallito quel conto: e fu questo certamente uno de' suoi più piccioli effetti. Seguirono poi altri grandi avvenimenti, che però non apportarono cangiamento notabile nella sorte dei nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, sradicando alberi, arruffando tetti, strappando comignoli di torri, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche le festuche nascoste fra l'erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta attorno involte nella sua rapina. Ora, perchè i fatti privati, che ci restano da raccontare, riescan chiari, ci conviene, anche qui, assolutamente premettere un racconto tal quale di quei publici, facendoci anche un po' più da alto. Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del susseguente, parve che l'abbondanza fosse tornata in Milano, come per incantesimo. Le botteghe del pane fornite a dovizia; il prezzo, quale negli anni più ubertosi; le farine a proporzione. Coloro che in quei due giorni s'erano adoperati ad urlare o a far qualche cosa di più, avevano ora (salvo alcuni pochi stati presi) di che applaudirsi: e non crediate che se ne rimanessero, cessato appena quel primo spavento delle catture. Sulle piazze, ai canti, nelle taverne, era un tripudio palese, un congratularsi e un vantarsi a mezza bocca, dell'aver trovato il verso di ridurre il pane a buon mercato. In mezzo però alla festa e alla baldanza, v'era (e come non vi sarebbe stata?) una inquietudine, un presentimento, che la cosa non avesse a durare. Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevano fatto in quell'altra fattizia e passeggiera abbondanza procurata dalla prima tariffa di Antonio Ferrer; chi aveva qualche po' di quattrini d'avanzo, gl'investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, de' botticelli, de' laveggi. Così, gareggiando a godere del vantaggio presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sè, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea. Ed ecco che, ai 15 di novembre, Antonio Ferrer, De orden de Su Excelencia, diè fuori una grida, colla quale, a chiunque avesse grani o farine in casa, veniva inibito di comperar degli uni, nè dell'altre, punto nè poco, e ad ogni altro di comperar pane, per più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali, all'arbitrio di Sua Eccellenza; intimazione agli anziani (una specie di sergenti publici), insinuazione ad ogni persona, di denunziare i trasgressori; ordine ai giudici, di far ricerche nelle case che potessero venir loro indicate; insieme però, nuovo comandamento ai fornai di tener le botteghe ben fornite di pane, sotto pena, in caso di mancamento, di cinque anni di galera, et maggiore, all'arbitrio di S.E. Chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, dee avere una bella immaginazione; e certo, se tutte quelle che venivan fuori in quel tempo sortivano effetto, il ducato di Milano doveva avere almen tanta gente in mare quanta ne possa avere ora la gran Bretagna. Ad ogni modo, ordinando ai fornai di far tanto pane, bisognava anche dar qualche ordine, perchè la materia del pane non mancasse loro. S'era trovato (come sempre nei tempi di carestia rinasce uno studio di ridurre in pane materie alimentose solite a consumarsi sotto altra forma) s'era, dico, trovato di far entrare il riso nel composto del pane detto di mistura. Ai 23 di novembre, grida che sequestra, agli ordini del vicario e dei dodici di provisione la metà del riso vestito (risone lo dicevano qui e lo dicono tuttavia) che ognuno possegga; pena, a chiunque ne disponga, senza la permissione di quei signori, la perdita della derrata, e una multa di tre scudi per moggio. È, come ognun vede, la più onesta. Ma questo riso bisognava pagarlo, e un prezzo troppo sproporzionato da quello del pane. Il carico di supplire all'enorme disguaglio era stato imposto alla città; ma il Consiglio dei decurioni, che lo aveva assunto per essa, deliberò, lo stesso giorno 23 novembre, di rimostrare al governatore l'impossibilità di sostener più a lungo un tale impegno. E il governatore, con grida dei 7 dicembre, fissò il prezzo del riso suddetto a lire dodici il moggio: a chi ne richiedesse un prezzo maggiore, come a chi ricusasse di vendere, intimò la perdita della derrata e una multa di altrettanto valore, et maggior pena pecuniaria et ancora corporale, sino alla galera, all'arbitrio di S.E., secondo la qualità de' casi et delle persone. Al riso brillato era già stato stabilito il prezzo prima della sommossa; come probabilmente la tariffa o, per usare quella denominazione celeberrima negli annali moderni, il maximum del frumento e delle altre biade più comuni sarà stato fissato con altre gride, che non ci è incontrato di vedere. Mantenuto così il pane e la farina a buon mercato in Milano, ne veniva di conseguenza che da fuori ci accorresse gente a processione, a provedersene. Don Gonzalo, per ovviare a questo, com'egli dice, inconveniente, proibì, con un'altra grida dei 15 dicembre, di portar fuori della città pane, oltre il valore di soldi venti; pena la perdita del pane medesimo, e scudi venticinque, et in caso di inhabilità, di due tratti di corda in publico, et maggior pena ancora, secondo il solito, all'arbitrio di S.E. Ai 22 dello stesso mese, (e non si vede perchè così tardi) emanò un ordine somigliante, per le farine e pei grani. La moltitudine aveva voluto procacciar l'abbondanza col saccheggio e coll'incendio; la podestà legale voleva mantenerla colla galera e colla corda. I mezzi erano convenienti fra loro; ma che avessero a fare col fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti. È poi facile anche il vedere, e non inutile l'osservare come fra quegli strani provedimenti vi sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell'antecedente, e tutti del primo, di quello che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo che sarebbe risultato dalla condizione reale delle cose. Alla moltitudine un tale provedimento è sempre paruto, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all'equità, altrettanto semplice e agevole a porsi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nelle angustie e nei dolori della carestia, essa lo desideri, lo implori, e, se può, lo imponga. A misura poi che le conseguenze danno in fuori, conviene che coloro a cui tocca vadano al riparo di ciascheduna, con una legge la quale proibisca agli uomini di fare quello a che erano portati dalla antecedente. Ci si permetta di osservar qui di passaggio un riscontro singolare. In un paese e in un'epoca vicini a noi, nell'epoca la più clamorosa e la più notabile della storia moderna, ebbero luogo, in circostanze simili, simili provedimenti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza, con la sola differenza di proporzione, e a un dipresso nel medesimo ordine); ebbero luogo, ad onta della ragione dei tempi tanto mutata, e delle cognizioni sopravvenute in Europa, e in quel paese forse più che altrove; e ciò principalmente perchè la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, potè far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevano la legge. Così, tornando a noi, due erano stati, al far dei conti, i frutti principali della sommossa: guasto e perdita effettiva di vettovaglie, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, senza misura, e per così dire, allegro, a diffalco di quella povera massa di grani, che pur doveva bastare fino al nuovo ricolto. A questi effetti generali si aggiunga il supplizio di quattro popolani impiccati come capi del tumulto, due dinanzi al forno delle grucce, due a capo della via dov'era la casa del vicario di provisione. Del resto, le relazioni storiche di que' tempi sono fatte così a caso, che non vi si trova pur la notizia del come e del quando cessasse quella tariffa violenta. Se, in mancanza di notizie positive, è lecito propor congetture, noi incliniamo a credere ch'ella sia stata tolta poco prima o poco dopo il 24 di dicembre, che fu il giorno di quella esecuzione. E quanto alle gride, dopo l'ultima che abbiamo citata dei 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia d'annona; sieno esse perite, o sieno sfuggite alle nostre ricerche; o sia finalmente che l'autorità, disanimata, se non ammaestrata dalla inefficacia di que' suoi rimedii, e sopraffatta dalle cose, le abbia abbandonate al loro corso. Troviamo bensì nelle relazioni di più d'uno storico (inclinati, come erano, più a descrivere grandi avvenimenti, che a notarne le cagioni e il progresso) il ritratto del paese, e della città principalmente, nell'inverno avanzato e nella primavera, quando la cagione del male, la sproporzione cioè tra le derrate e il bisogno, non tolta, anzi accresciuta dai rimedii che ne sospesero temporariamente gli effetti, nè tolta pure da una introduzione sufficiente di derrate estere, alla quale ostavano l'insufficienza dei mezzi publici e privati, la penuria dei paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza e i vincoli del commercio, e le leggi stesse tendenti a produrre e mantenere un buon mercato violento, quando, dico, la cagione vera della carestia, o per dir meglio, la carestia stessa operava senza ritegno e con tutta la sua forza. Ed ecco la copia di quel ritratto doloroso. A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le vie, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di dolori. I mendichi di antica professione, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a contender l'elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l'avevano ricevuta. Garzoni e fattori mandati via da bottegai e da mercanti che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; bottegai e mercanti stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai d'ogni manifattura, e d'ogni arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più bisognevoli come delle più voluttuarie, vaganti di porta in porta, di via in via, appoggiati ai canti, accosciati in sulle lastre, lungo le case e le chiese; limosinando lamentabilmente, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancora domata, sparuti, spossati, rabbrividanti pel digiuno e pel verno nei panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora segno d'una antica agiatezza; come nella scioperaggine e nell'avvilimento, compariva non so quale indizio di abitudini operose e franche. Rimescolati nella deplorabile turba, e non picciola parte di essa, servi licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o pur da facoltosi e da grandi, divenuti inabili, in un tale anno, a trattenere quella solita pompa di seguito. E per ognuno, a così dire, di questi diversi indigenti, un numero di altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: figliuoli, donne, vecchi parenti, aggruppati coi loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all'accatto. V'erano pure, e si discernevano ai ciuffi scarmigliati, ai brani di vesti sfarzose, o anche a un certochè nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano sui volti, tanto più rilevato e distinto, quanto più sono strane, molti di quella genìa dei bravi che, perduto, per la condizione comune, quel loro pane scelerato, ne andavano cercando per misericordia. Domati dalla fame, non gareggiando cogli altri che di supplicazioni, ristretti nella persona, si strascinavano per la città che avevano tanto tempo passeggiata a capo alto, con piglio sospettoso e feroce, rivestiti di assise sfoggiate e bizzarre, guerniti di ricche armi, piumati, acconci, profumati; e tendevano umilmente la mano, che tante volte avevan levata insolente a minacciare, o traditrice a ferire. Ma il più spesso, il più lurido, il più sformato brulicame era de' contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini tra le braccia o affardellati in su le spalle, con ragazzi tratti per mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le case loro dalla soldatesca, stanziata o di passaggio, ne erano fuggiti disperatamente; e fra questi ve ne aveva che mostravano, a maggiore incitamento di compassione, e come per distinzione di miseria, i lividi e gli sfregi dei colpi toccati, difendendo quelle loro poche ultime scorte, o scappando pure, da una sfrenatezza cieca e brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma cacciati da quei due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze più esorbitanti che mai, per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, erano venuti, venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo di dovizia e di pia munificenza. Si potevano distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all'andare dubitoso e all'aria nuova, a una cera di stupore iracondo del trovare un tal colmo, un tal ribocco, una tanta rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e di attirare a sè gli sguardi e i soccorsi. Gli altri, che da più o men tempo giravano e abitavano le vie della città, stiracchiando la vita coi sussidii conseguiti o toccati come in sorte, in una tanta disparità tra il sussidio e il bisogno, portavano espressa nei sembianti e negli atti una più cupa e torpida costernazione. Varii d'abiti o di cenci e pur d'aspetto, in mezzo al comune stravolgimento: facce scialbe del basso paese, abbronzate del piano di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari, tutte scarne e consunte, con occhi incavati, con un affisare tra il torvo e l'insensato, rabbaruffate le chiome, lunghe le barbe e orride: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi e sui petti ossuti, che apparivano dallo stracciume scomposto. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigoria abbattuta, l'aspetto d'una natura più presto conquisa, d'un languore e d'uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nelle età più deboli. Qua e là, per le vie e pei crocicchi, rasente i muri, sotto le gronde, qualche strato di paglia e di stoppie peste e trite, miste di immondo ciarpame. E una tale schifezza era pur dono e studio di carità, erano giacigli apprestati a qualcheduno di quei tapini, per posarvi il capo la notte. Tratto tratto vi si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stracchezza o l'inedia avevan vinta la lena e tronche le gambe: talvolta quel tristo letto portava un cadavere: talvolta l'esinanito stramazzava all'improvviso, e rimaneva cadavere, in sul selciato della via. Presso a qualcheduno di quei prostrati, si vedeva pure curvato qualche o passeggiero o vicino, attirato da una subita compassione. In qualche luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso da una mano ricca di mezzi ed esercitata a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo. Aveva egli fatto scelta di sei preti, nei quali una carità volonterosa e tenace fosse accompagnata e servita da una complessione robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna assegnato una terza parte della città da percorrere, con dietro facchini carichi di varii cibi, di altri più sottili e più pronti ristorativi e di vestimenti. Ogni mattina, le tre coppie si mettevano per le vie da diverse bande, si accostavano a quei che incontrassero abbandonati per terra, e davano a ciascuno quell'aiuto di che fosse capace. Taluno già agonizzante e non più atto a ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione. A cui il cibo potesse ancora esser rimedio dispensavano minestre, uova, pane, vino; ad altri estenuati da più antico digiuno porgevano consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se facesse bisogno, con cordiali e con aceto potente. Insieme, scompartivano vestimenti alle nudità più sconce e più dolorose. Nè qui finiva la loro assistenza: il buon pastore aveva voluto che, almeno dov'ella poteva arrivare, recasse un sollievo efficace e non momentaneo. I poveretti, a cui quel primo ristoro avesse rendute forze bastanti per reggersi e per camminare, venivano dai ministri medesimi, sovvenuti di qualche danaro, affinchè il bisogno rinascente e la mancanza d'altro soccorso non li ritornasse ben tosto nello stato di prima; agli altri cercavano ricovero e mantenimento, in qualche casa delle più vicine. Se ve n'era alcuna di benestanti, ivi l'ospizio per lo più veniva accordato per carità, e alle raccomandazioni del cardinale; in altre, dove al buon volere mancassero i mezzi, richiedevano quei preti che il poveretto fosse ricevuto a dozzina, pattuivano il prezzo, e ne sborsavano tosto una parte a conto. Davano poi, di questi così albergati, nota ai parochi, che li visitassero; e tornavano essi medesimi a visitarli. Non occorre pur dire che Federigo non ristringeva le sue cure a questa estremità di patimenti, nè l'aveva aspettata per commuoversi. Quella carità ardente e versatile doveva tutto sentire, in tutto adoperarsi, accorrere dove non aveva potuto antivenire, prendere, per dir così, tante forme, in quante si diversificava il bisogno. In fatti, ragunando tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il risparmio, mettendo mano a risparmii destinati ad altre liberalità, divenute ora d'una importanza troppo secondaria, aveva egli cercato ogni via di far danari, per impiegarli tutti in alleggiamento della penuria. Aveva fatte grandi compre di grani, e questi spediti una buona parte ai luoghi più penuriosi della diocesi; e, come il soccorso era lunge da pareggiare il bisogno, vi spedì pure copia di sale «con che,» dice, raccontando la cosa, il Ripamonti«l'erbe del prato e le cortecce degli alberi si convertono in vitto umano.» Grani pure e danari aveva scompartiti ai parochi della città; egli stesso la percorreva per quartieri, dispensando elemosine; sovveniva in segreto molte famiglie indigenti; nel palazzo arcivescovile si coceva giornalmente una gran quantità di riso; e, al dire d'uno scrittore contemporaneo (il medico Alessandro Tadino, in un suo Ragguaglio che avremo frequentemente occasione di citare in seguito), due mila scodelle ne erano quivi distribuite ogni mattina. Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi, quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi, (giacchè Federigo ricusava per costume di farsi dispensatore delle liberalità altrui); questi, insieme colle liberalità di altre mani private, se non così feconde, pur numerose; insieme colle sovvenzioni che il Consiglio dei decurioni aveva assegnate a quella derelizione, commettendone la dispensa al tribunale di provisione, riuscivano, rispetto al bisogno, scarsi e inadeguati. Mentre ad alcuni montanari e valligiani vicini a morir di fame, veniva, coi soccorsi del cardinale, prolungata la vita, altri giungevano all'estremo termine dell'inopia; i primi, consunto il misurato soccorso, vi ritornavano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come meno angustiate, da una carità costretta a scegliere, le angustie divenivano mortali; per ogni dove si periva, da ogni dove si accorreva alla città. Qui, due migliaia, poniamo, di affamati più validi ed esperti a superare la concorrenza e a farsi largo, avevano acquistata una minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più altre migliaia rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati, quando, tra i rimasti addietro, v'erano sovente le mogli, i figli, i padri loro? E frattanto che, in tre punti della città, alcuni di quei più derelitti e tratti a fine venivano levati di terra, rianimati, ricoverati, e proveduti per qualche tempo, in cento altre parti, altri cadevano, languivano o anche spiravano, senza provedimento, senza refrigerio. Tutto il giorno, s'udiva per le vie un ronzìo confuso d'implorazioni lamentose; la notte, un susurro di gemiti, rotto a quando a quando da ululi scoppiati all'improvviso, da alte e lunghe voci di gemito, da accenti profondi d'invocazione, che terminavano in istrida acute. È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele, non desse mai in fuora un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il menomo cenno. Eppure, fra coloro che vivevano e morivano a quel modo, v'era un buon numero d'uomini educati a tutt'altro che a tollerare; v'era pure, a centinaia, di que' medesimi che, il dì di san Martino, s'erano tanto fatti sentire. Nè è da credere che l'esempio di quei quattro disgraziati, che ne avevan portata la pena per tutti, fosse quello che ora li tenesse tutti a segno: qual forza poteva avere, non la presenza, ma la memoria dei supplizii, sugli animi di una moltitudine vagabonda e riunita, che si vedeva come condannata ad un lento supplizio, che già lo pativa? Ma così fatti siamo in generale noi uomini, che ci rivoltiamo indegnati e furiosi contra i mali mezzani, e ci prostriamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile. Il vôto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile turba, veniva ogni giorno riempiuto, e al di là: era un concorso incessante, prima dalle ville circonvicine, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto, da questa pure partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, tolto loro, per dir così, il campo dai nuovi concorrenti d'accatto, uscivano ad un'ultima disperata prova di chieder sovvenimento altrove, dove che fosse, dove almeno non fosse così densa e così pressante la folla e l'emulazione del chiedere. Si scontravano nell'opposto viaggio questi e quei pellegrini, spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano avviati. Ma proseguivano il cammino intrapreso, se non più per la speranza di mutar sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non rivedere i luoghi dove avevano disperato. Se non che taluno, consunte dall'inedia le ultime forze vitali, cadeva in sulla via, e quivi spirato rimaneva, mostra ancor più funesta ai suoi fratelli di condizione, oggetto d'orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri. «Vidi io,» scrive il Ripamonti, «nella strada d'intorno alle mura, il cadavere giacente d'una donna… Le usciva di bocca dell'erba mezzo rosicchiata, e le labbra contaminate facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso… Aveva un fardelletto in ispalla, e appeso colle fasce al petto un bambino, che col vagito chiedeva la poppa… Ed erano sopravvenute persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, ne lo portavano, adempiendo così intanto il primo uficio materno.» Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria, spettacolo ordinario dei tempi ordinarii, era in questi affatto cessato. I cenci e la miseria avevano pressochè tutto invaso; e ciò che se ne distingueva, non era più che un'apparenza di mediocrità frugale. Si vedevano i nobili camminare in abito positivo e modesto, o anche logoro e disadatto; alcuni, perchè le cagioni comuni della miseria avevano mutata a quel segno anche la loro fortuna, o dato il tracollo a fortune già sconcertate; gli altri, o che temessero di provocare col fasto la publica disperazione, o si vergognassero d'insultare alla publica calamità. Quei prepotenti esosi e riveriti, soliti andare in volta con un codazzo oltraggioso di bravi, andavano ora quasi che soli, a capo chino, con visi che parevano offrire e chieder pace. Altri che, anche nella prosperità, erano stati di pensieri più umani e di portamenti più civili, apparivano pur confusi, costernati, e come sopraffatti dalla vista continua d'una calamità, che eccedeva, non solo la possibilità del soccorso, ma, direi quasi, le forze della commiserazione. Chi aveva di che soccorrere, doveva però fare un tristo discernimento tra fame e fame, tra estremità ed estremità. E appena si vedeva una mano pietosa scendere nella mano d'un infelice, nasceva all'intorno una gara d'altri infelici; coloro a cui rimaneva più di vigore, si facevano innanzi a chiedere con più istanza; gli estenuati, i vecchi, i fanciulli, levavano le palme scarne; le madri alzavano da lontano e protendevano i bambini piangenti, mal ravvolti nelle fasce cenciose, e ripiegati per languore nelle loro mani. Così passò l'inverno e la primavera: e già da qualche tempo il tribunale della sanità andava rimostrando a quello della provisione il pericolo di contagio, che sovrastava alla città da una tanta miseria condensata e diffusa in essa; e proponeva che i mendichi vagabondi venissero raccolti in diversi ospizii. Mentre si ventila questo partito, mentre si approva, mentre si divisano i mezzi, i modi, i luoghi, per mandarlo ad effetto, i cadaveri spesseggiano nelle vie, ogni dì più; a misura di questo, cresce tutta l'altra congerie di fastidio, di pietà, di pericolo. Nel tribunale di provisione vien posto, come più facile e più speditivo, un altro partito, di ragunare tutti i mendicanti, validi e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, e di alimentarli quivi e curarli a publiche spese; e così vien risoluto, in onta della Sanità, la quale obiettava che, in una tanta riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si voleva ovviare. Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse alle mani di qualcheduno che non lo conoscesse, nè di veduta nè per descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della città, a sinistra della porta detta orientale, discosto dal bastione lo spazio della fossa, d'una strada di circonvallazione, e d'un fossato che corre attorno al recinto medesimo. I due lati maggiori tirano a un dipresso cinquecento passi andanti; gli altri due forse quindici meno; tutti, dalla parte che guarda al di fuori, sono divisi in istanzette a un sol piano; per di dentro, gira intorno a tre di essi un portico continuo, in volta, sostenuto da picciole e magre colonne. Le stanzette erano dugent'ottantotto, una più, una meno: ai nostri giorni, una grande apertura fatta nel mezzo, e una picciola, in un canto del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate via non so quante. Al tempo della nostra storia, non v'erano che due aditi, l'uno nel mezzo del lato che risponde al muro della città, l'altro di rimpetto, nell'opposto. Nel centro dello spazio interiore, che è tutto sgombro, sorgeva, e sorge tuttavia, un tempietto ottangolare. La prima destinazione di tutto l'edificio, cominciato nell'anno 1489, coi danari d'un lascito privato, continuato poi con quelli del publico e d'altri testatori e donatori, fu, come l'accenna il nome stesso, di ricoverarvi all'occorrenza gli ammalati della peste; la quale, già molto prima di quell'epoca, era solita, e lo fu per molto tempo di poi, a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in questo, ora in quel paese d'Europa, prendendone talvolta una gran parte, o anche scorrendola tutta, per così dire, da un capo all'altro. Nel momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che a deposito delle mercanzie soggette a contumacia. Ora, per apprestarlo alla nuova destinazione, si sorpassarono gli ordini consueti; e, fatte in fretta in fretta le purghe, e gli esperimenti prescritti, tutte le mercanzie furono rilasciate in un tratto. Si fece stender della paglia in tutte le stanzette, si fecero scorte di viveri, quali e quanti si potè; e s'invitarono, con publico editto, tutti i pezzenti ad entrar quivi a ricovero. Molti vi concorsero volonterosamente; tutti quelli che giacevano infermi per le vie e per le piazze, vi vennero trasportati; in pochi giorni ve n'ebbe, tra gli uni e gli altri, più di tre mila. Ma più, e d'assai, erano coloro che restavano addietro. O che ognun di loro aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in picciola brigata ad usufruttare l'accatto della città, o fosse quella natural ripugnanza alla clausura, o quella diffidenza dei poveri per tutto ciò che vien loro proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre proporzionata all'ignoranza comune di chi la sente e di chi la inspira, al numero dei poveri e alla stortura degli ordini), o il sapere di fatto quale fosse in realtà il beneficio offerto, o fosse tutto questo insieme, o che che altro, fatto sta che la più parte, non tenendo conto dell'invito, continuavano a strascinarsi tapinando per la città. Visto ciò, fu stimato bene passare dall'invito alla forza. Si mandarono in ronda birri, che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero legati i renitenti; per ognuno dei quali fu assegnato a coloro il premio di soldi dieci: tanto è vero che, anche nelle più grandi strettezze, i danari del publico si trovano sempre, per impiegarli a sproposito. E quantunque, come era stata congettura, anzi intento espresso della provisione, un certo numero di accattoni sfrattasse dalla città, per andare a vivere o a morire altrove, in libertà almeno; pure la caccia fu tale, che, in breve, il numero dei ricoverati, tra ospiti e prigioni, arrivò presso ai dieci mila. Le donne e i fanciulli, si vuol supporre che saranno stati allogati in quartieri separati, sebbene le memorie del tempo non ne facciano parola. Regole poi e provedimenti pel buon ordine, non ne sarà certamente mancato; ma ognuno si figuri qual ordine potesse essere stabilito e mantenuto, di quei tempi massime, e per quelle circostanze, in un così vasto e vario assembramento, dove coi volontarii si trovavano i forzati, con quelli per cui la mendicità era una necessità, un dolore, una vergogna, coloro di cui ella era l'arte e il costume, con molti cresciuti nella onesta attività dei campi e delle officine, molti altri educati nel trivio, nelle taverne, nel corteggio scheranesco, all'ozio, alla truffa, al dileggio, alla violenza. Come poi stessero tutti insieme d'alloggio e di vitto, si potrebbe tristamente congetturarlo, quando non ne avessimo notizie positive; ma le abbiamo. Dormivano stivati, ammonticati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un impatto di paglia putrida e fetente, o sul nudo pavimento: chè, s'era bene ordinato dover la paglia esser fresca e sufficiente, e rinnovarsi spesso; ma in fatto ella era stata scarsa, trista, e non si rinnovava. Era parimente ordine che il pane fosse di buona qualità: giacchè, quale amministratore ha mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che in circostanze ordinarie non si sarebbe ottenuto, anche per una men vasta somministrazione, come ottenerlo in quel caso e in quella farragine? Si disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse adulterato con sostanze pesanti e non alimentose: ed è pur troppo da credere che non fosse uno di quei lamenti in aria. D'acqua perfino v'era difetto; d'acqua voglio dire viva e salubre: l'abbeveratoio comune, doveva essere la gora che lambe le mura del recinto, bassa, lenta, dove anche melmosa, e divenuta poi quale poteva renderla l'uso e la vicinanza d'una tanta e tale moltitudine. A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano sopra corpi malati o immalsaniti, si aggiunga una gran perversità della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più ostinata, e con essa, una caldura anticipata e violenta. Ai mali si aggiunga il sentimento dei mali, il tedio e il furore della cattività, il desiderio delle antiche consuetudini, il dolore di cari perduti, la memoria inquieta di cari assenti, la molestia e il ribrezzo vicendevole, tante altre passioni d'abbattimento o di rabbia, portate o nate là entro; l'apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte renduta frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova e potente cagione. E non farà maraviglia che la mortalità crescesse e regnasse in quel chiuso a segno di prendere aspetto e, presso a molti, nome di pestilenza: sia che la riunione e l'aumento di tutte quelle cause non facesse che aumentare l'attività d'una influenza puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un vero contagio, il quale nei corpi affetti e preparati dal disagio e dalla malvagità degli alimenti, dalla intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall'avvilimento trovi la tempera, a così dire, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutricarsi e moltiplicare (se ad un ignorante è lecito lanciare queste parole, dietro l'ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta in ultimo con molte ragioni e con molta riserva, da uno diligente quanto ingegnoso):sia poi che il contagio scoppiasse da prima nel lazzeretto medesimo, come, da una oscura ed inesatta relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando prima d'allora, (il che sembra forse più verisimile, chi pensi come il disagio era già antico e generale e la mortalità già frequente) e che portato là entro vi si propagasse con nuova e terribile rapidità, per la condensazione dei corpi, renduti anche più disposti a riceverlo dalla cresciuta efficacia delle altre cagioni. Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero quotidiano dei morti nel lazzeretto oltrepassò in breve il centinaio. Mentre quivi tutto il resto era languore, angoscia, spavento, rammarichìo, fremito; nella Provisione era vergogna, stordimento, incertitudine. Si consultò, si udì il parere della Sanità; altro non si trovò che di disfare ciò che s'era fatto, con tanto apparato, con tanto dispendio, con tanta angheria. Si aperse il lazzeretto, si diè licenza a tutti i poveri validi che vi rimanevano; e che ne scapparono con una gioia furente. La città tornò a risonare dell'antico clamore, ma più fievole e interrotto; rivide quella turba più rada e più miserevole, dice il Ripamonti, pel pensiero del come ella fosse di tanto scemata. Gl'infermi furono trasportati a santa Maria della Stella, allora spedale di mendicanti; dove la più parte perirono. Intanto però cominciavano quei benedetti campi a imbiondire. I pezzenti del contado uscirono e se ne andarono, ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata segatura.Il buon Federigo gli accomiatò con un ultimo sforzo, e con un nuovo trovato di carità: ad ogni contadino che si presentasse all'arcivescovado, fe' dare un giulio, e una falce da mietere. Colla messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, decrescendo di dì in dì, si protrasse però fin dentro nell'autunno. Ell'era in sul finire; quand'ecco un nuovo flagello. Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di storiche, erano accadute in questo frattempo. Il cardinale di Richelieu, presa, come s'è detto, la Roccella, abborracciata alla meglio una pace col re d'Inghilterra, aveva proposto e vinto colla sua potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme persuaso il re medesimo a condurre in persona la spedizione. Mentre si facevano gli apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando, o questi manderebbe un esercito ad occuparli. Il duca che, in più disperate circostanze, s'era schermito d'accettar condizione così dura e così mal fidata, confortato ora dal vicino soccorso di Francia, se ne schermiva tanto più; però con termini in cui il no fosse ravvolto e allungato, quanto si poteva, e con proposte di sommissione, anche più apparente, ma meno costosa. Il commissario se n'era andato, protestandogli che si verrebbe alla forza. In marzo, il cardinale Richelieu era poi sceso di fatto col re, alla testa d'un esercito; aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s'era trattato; non si era conchiuso; dopo uno scontro, col vantaggio de' francesi, s'era trattato di nuovo, e conchiuso un accordo, nel quale il duca, fra le altre cose, aveva stipulato che il Cordova leverebbe l'assedio da Casale; impegnandosi, se questi ricusasse, ad unirsi coi francesi, per invadere il ducato di Milano. Don Gonzalo, parendogli anche d'uscirne a buon mercato, aveva levato il campo d'attorno a Casale, dove era tosto entrato un corpo di francesi, a rinforzo della guarnigione. Fu a questa occasione che l'Achillini scrisse al re Luigi quel suo famoso sonetto: Sudate, o fochi, a preparar metalli; e un altro, con cui lo esortava a portarsi subito alla liberazione di Terra-Santa. Ma gli è destino che i pareri dei poeti non sieno seguiti: e se nella storia trovate dei fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch'elle eran cose risolute da prima. Il cardinale di Richelieu aveva, in quella vece, stabilito di tornare in Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo Soranzo, inviato de' veneziani, potè ben addurre le ragioni più forti, per istornare quella risoluzione, che il re e il cardinale, non badando più alla sua prosa che ai versi dell'Achillini, se ne tornarono col grosso dell'esercito, lasciando soltanto sei mila uomini in Susa, ad occupazione del passo e a mantenimento del trattato. Mentre quell'esercito si allontanava da una parte, quello di Ferdinando, guidato dal conte di Collalto, si accostava dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la Valtellina; si disponeva a scendere nel milanese. Oltre tutti i terrori che cagionava l'annunzio d'un tal passaggio, correva la trista voce, anzi si avevano espressi avvisi, che in quell'esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne era sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo innanzi, s'era per esse appiccata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de' conservatori della sanità, (erano sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due medici) fu incaricato dal tribunale, come egli stesso racconta in quel suo ragguaglio già citato,di rimostrare al governatore lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente vi otteneva il passo per portarsi a Mantova, come correva voce. Da tutti i portamenti di don Gonzalo pare ch'egli avesse una grande smania di farsi un posto nella storia, la quale infatti non potè non occuparsi dei fatti suoi; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare l'atto di lui più degno di memoria e d'attenzione, la risposta ch'egli diede a quel dottor Tadino in quella circostanza. Rispose, non saper che farci; le ragioni d'interesse e di riputazione, per le quali s'era mosso quell'esercito, pesar più che il pericolo rappresentato; con tutto ciò si cercasse di rimediare alla meglio, e si sperasse nella Providenza. Per rimediare adunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comperar robe di qual si voglia sorta dai soldati che erano per passare; ma non fu possibile far intendere la convenienza d'un tal ordine al presidente, «uomo,» dice il Tadino,«di molta bontà, che non poteua credere douesse succedere incontri di morte di tante migliala di persone, per il comercio di questa gente, et loro robbe.» Citiamo questo tratto, per uno dei singolari di quel tempo: chè di certo, da che ci ha tribunali di sanità, non accadde mai ad un altro presidente d'un d'essi di fare un ragionamento simile; se ragionamento è. Quanto a don Gonzalo, quella risposta fu uno degli ultimi suoi atti qui; perchè i cattivi successi della guerra, promossa e condotta in gran parte da lui, furon cagione che egli venisse rimosso da questo posto, in quell'estate. Nel suo partire da Milano, gl'intervenne cosa che da qualche scrittore contemporaneo vien notata come la prima di quel genere che accadesse qui ad un par suo. Uscendo dal palazzo detto della Città, in mezzo ad un grande accompagnamento di nobili, trovò uno sciame di popolani, i quali, parte gli si paravano dinanzi in sulla via, parte gli andavan dietro gridando, e rinfacciandogli con imprecazioni la fame sofferta, per le licenze, dicevano, concedute da lui di portar fuori frumento e riso. Alla sua carrozza, che veniva in seguito, lanciavano poi peggio che parole: sassi, mattoni, torsi di cavolo, bucce d'ogni sorta, la munizione solita in somma di quelle spedizioni. Rispinti dalle guardie, si ritirarono; ma per correre, ingrossati per via di molti nuovi compagni, a prepararsi a porta ticinese, di dove egli doveva poco dopo uscire in carrozza. Quando questa giunse, con un seguito di molte altre, lanciarono sopra tutte, con mani e con fionde, una grandinata di pietre. La cosa non andò oltre. Nel luogo di lui fu spedito il marchese Ambrogio Spinola, il cui nome aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella celebrità militare che ancor gli rimane. Intanto l'esercito alemanno aveva ricevuto l'ordine definitivo di portarsi all'impresa di Mantova; e nel mese di settembre entrò nel ducato di Milano. La milizia, a que' tempi, era ancora composta in gran parte di venturieri arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, talvolta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutte le vaghezze della licenza. Disciplina stabile e generale non v'era in un esercito; nè avrebbe potuto accordarsi così facilmente coll'autorità indipendente dei varii condottieri. Questi poi in particolare, nè erano molto raffinatori in fatto di disciplina, nè, volendo pure, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; chè soldati di quel pelo, o si sarebbero rivoltati contra un condottiero novatore che si fosse messo in capo di abolire il saccheggio, o per lo meno, lo avrebbero lasciato solo, a guardar le bandiere. Oltre di che, siccome i principi, nel pigliare, per dir così, ad affitto quelle bande, miravano più ad aver gente assai, per assicurare le imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, d'ordinario molto scarsa; così le paghe venivano per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie dei paesi guerreggiati o percorsi ne diventavano come un supplemento tacitamente convenuto. E celebre, poco meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila. E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che, sotto il comando di lui, aveva desolata la Germania, in quella guerra celebre tra le guerre, e per sè e pei suoi effetti, che prese poi il nome dai trenta anni della sua durata: e allora ne correva l'undecimo. V'era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevano comandato sotto di lui; e vi si trovava più d'uno di quelli che, quattro anni dopo, dovevano aiutare a trarlo a quella mala fine che ognun sa. Erano vent'otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dallaValtellina per portarsi sul mantovano, avevano a seguire, più o meno di costa, tutta la via che fa l'Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume; fino al suo sbocco in Po, e di poi avevano un buon tratto ancora di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano. Una gran parte degli abitanti si riparavano su pei monti, portandovi il mobile più caro, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano, o a guardia di qualche infermo, o per salvar la casa dall'incendio, o per tener d'occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri per non aver che perdere; de' ribaldoni anche, per acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della posata, si spandeva tosto per quello e pei circonvicini, e li metteva a bottino addirittura: ciò che poteva esser goduto o portato via, spariva; senza parlare del guasto che facevano nel rimanente, delle campagne disertate, dei casali arsi, delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i trovati, tutti gli schermi per salvar la roba, tornavano spesso inutili, talvolta in peggior danno. I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano tutti i buchi delle case, smuravano, abbattevano; scoprivano facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per le vette a rapire il bestiame, andarono nelle grotte, a guida di qualche ribaldone, come abbiam detto, in cerca di qualche danaroso rimpiattato lassù; lo spogliavano, lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesòro nascosto. Se ne andavano finalmente, erano andati, si sentiva da lontano morire il suono de' tamburi o delle trombe: succedevano alcune ore d'una quiete spaventata; e poi un nuovo maladetto batter di cassa, un nuovo maladetto squillo, annunziava un'altra brigata. Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore facevano sperpero e fracasso del resto, abbruciavano mobili, imposte, travi, botti, tini, dove anche le case; con tanto più rabbia manomettevano e straziavano le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: chè in tante squadre era diviso l'esercito. Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que' dimonii; si gettarono poscia sopra Bellano; di là entrarono e si diffusero nella Valsassina, per donde sboccarono nel territorio di Lecco. Qui, tra i poveri spaventati troviamo persone di nostra conoscenza. Chi non ha veduto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le nuove della calata dell'esercito, del suo avvicinarsi, e de' suoi portamenti, non sa bene che cosa sia impaccio e spavento. Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; hanno messo il fuoco a Primaluna: disertano Introbbio, Pasturo, Barsio; si sono veduti a Balabbio; domani son qui: tali erano le voci che passavano di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso, una esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter delle mani ne' capelli. Don Abbondio, deliberato prima d'ogni altro e più d'ogn'altro a fuggire, in ogni modo di fuga, in ogni luogo di rifugio vedeva ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi. «Come fare?» sclamava: «dove andare?» I monti, lasciando stare la difficoltà del cammino, non eran sicuri: già s'era saputo che i lanzichenecchi vi s'arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far preda. Il lago era grosso; tirava un gran vento: oltracciò, la più parte de' barcaiuoli, temendo d'esser forzati a condurre soldati o bagaglie, s'erano rifuggiti, colle loro barche, all'altra riva: alcune poche rimaste, erano poi partite stracariche di gente; e, travagliate dal peso e dalla burrasca, si diceva che pericolassero ad ogni momento. Per portarsi lontano e fuori della strada che l'esercito aveva a percorrere, non era possibile trovar nè un calesse, nè un cavallo, nè alcun altro mezzo: a piedi, don Abbondio non avrebbe potuto far troppo cammino, e temeva d'esser raggiunto in via. I confini del bergamasco non erano tanto distanti, che le sue gambe non ve lo potessero portare in una tirata; ma era già corsa la voce, essere stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti che costeggiasse il confine, per tenere in rispetto i lanzichenecchi; e quelli erano diavoli in carne, nè più nè meno di questi, e facevano dalla parte loro il peggio che potevano. Il pover'uomo correva, stralunato e mezzo disensato, per la casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a raccogliere le migliori masserizie e a nasconderle sul solaio, pei bugigattoli, passava in fretta, affannata, preoccupata, colle mani o colle braccia piene, e rispondeva: «or ora finisco di metter questa roba in salvo, e poi faremo anche noi come fanno gli altri.» Don Abbondio voleva trattenerla, e dibattere con lei i varii partiti; ma ella, tra la faccenda, e la pressa, e lo spavento che aveva anch'ella in corpo, e la rabbia che le faceva quello del padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse mai stata. «S'ingegnano gli altri; c'ingegneremo anche noi. Mi scusi, ma non è buono che da impedire. Crede ella che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che, vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in questi momenti, invece di venir tra' piedi a piangere e ad impacciare.» Con queste e simili risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna. Lasciato così solo, egli si faceva alla finestra, guatava, tendeva l'orecchio; e vedendo passar qualcheduno, gridava con una voce mezzo piagnolosa e mezzo rimbrottevole: «fate questa carità al vostro povero curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino. Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch'io con voi; aspettate di esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch'io non sia abbandonato. Volete lasciarmi in man de' cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l'hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente!» Ma a chi diceva egli queste cose? Ad uomini che passavano curvi sotto il peso del loro povero mobile, e col pensiero a quello che lasciavano in casa esposto al saccheggio, quale cacciando dinanzi a sè la sua vaccherella, quale traendosi dietro i figli, carichi anch'essi quanto potevano, e la donna portante in braccio quelli che non potevano camminare. Alcuni tiravano di lungo, senza rispondere nè guardare in su; altri diceva: «eh messere! faccia anch'ella come può; fortunato lei, che non ha famiglia a cui pensare; s'aiuti, s'ingegni.» «Oh povero me!» sclamava don Abbondio: «oh che gente! che cuori! Non c'è carità: ognuno pensa a sè; e a me nessuno vuol pensare.» E tornava in cerca di Perpetua. «Oh appunto!» gli disse questa: «e i danari?» «Come faremo?» «Li dia a me, che andrò a sotterrarli qui nell'orto di casa, insieme colle posate.» «Ma…» «Ma, ma; dia qui; tenga qualche soldo, per quel che può occorrere; e poi lasci fare a me.» Don Abbondio obedì, andò al forziere, cavò il suo tesoretto, e lo consegnò a Perpetua; la quale disse: «vo a sotterrarli nell'orto, appiè del fico;» e andò. Ricomparve poco di poi con un canestro, entrovi munizione da bocca, e con una picciola gerla vôta; e si diede in fretta a collocarvi nel fondo un po' di biancheria sua e del padrone, dicendo intanto: «il breviario almeno, lo porterà ella.» «Ma dove andiamo?» «Dove vanno tutti gli altri? Prima di tutto, andremo in istrada; e là sentiremo e vedremo che cosa convenga di fare.» In questo entrò Agnese, pure con una gerletta in sulle spalle, e in aria di chi viene a fare una proposta importante. Agnese, risoluta anch'ella di non aspettare ospiti di quella sorta, sola in casa, com'era, e con un po' ancora di quell'oro dell'innominato, era stata qualche tempo in forse del luogo dove ritirarsi. Il residuo appunto di quegli scudi, che nei mesi della fame le avevano fatto tanto pro, era la cagione principale della sua angustia e della irresoluzione, per aver essa inteso come, nei paesi già invasi, quelli che avevan danari s'eran trovati a più terribile condizione d'ogni altro, esposti insieme alla violenza degli stranieri, e ad insidie di paesani. Era vero che, del bene cadutole per così dire in grembo, ella non aveva fatta confidenza a nessuno, salvo a don Abbondio; dal quale andava, volta per volta, a farsi cambiare uno scudo in moneta, lasciandogli sempre qualche cosa da dare a qualche più povero di lei. Ma i danari nascosti, massime chi non è avvezzo a maneggiarne molti, tengono il possessore in un sospetto continuo del sospetto altrui. Ora, mentre andava anch'ella appiattando qua e là alla meglio ciò che non poteva portar con sè, e pensava agli scudi, che teneva cuciti nel busto, le sovvenne che, insieme con essi, l'innominato, le aveva mandate le più larghe proferte di servigi; le sovvenne di ciò che aveva inteso raccontare di quel suo castello posto in luogo così sicuro, e dove, a dispetto del padrone, non potevano andar se non gli uccelli; e si risolvette di portarsi a chiedere un asilo colà. Pensò al come potrebbe farsi conoscere da quel signore, e le venne tosto in mente don Abbondio; il quale, dopo quel colloquio così fatto coll'arcivescovo, le aveva sempre fatte dimostrazioni particolari di benevolenza, e tanto più di cuore, che lo poteva, senza commettersi con nessuno, e che essendo lontani i due giovani, era anche lontano il caso che a lui venisse fatta una richiesta la quale avrebbe messa quella benevolenza a un gran cimento. Suppose che, in un tal parapiglia, il poveruomo doveva essere ancor più impacciato e più sbigottito di lei, e che il partito potrebbe parer molto buono anche a lui; e glielo veniva a proporre. Trovatolo con Perpetua, fece la proposta ad entrambi. «Che ne dite, Perpetua?» chiese don Abbondio. «Dico che è una inspirazione del cielo, e che bisogna non perder tempo, e mettersi la via tra le gambe.» «E poi…» «E poi, e poi, quando vi saremo, ci troveremo ben contenti. Quel signore, adesso si sa che non vorrebbe altro che far servizio al prossimo; e avrà ben piacere di ricoverarci. Là, in sul confine, e così per aria, soldati non ne verrà certamente. E poi e poi, vi troveremo anche da mangiare; che, su pei monti, finita questa poca grazia di Dio,» e così dicendo, l'allogava nella gerla, sopra la biancheria, «ci saremmo trovati a mal partito.» «Convertito, è convertito da vero; neh?» «Che, c'è da dubitarne ancora, dopo tutto quello che si sa, dopo quello che anch'ella ha veduto?» «E se andassimo a metterci in gabbia?» «Che gabbia? Con codeste sue vesciche, mi scusi, non se ne verrebbe mai a una conclusione. Brava Agnese, v'è proprio venuto un buon pensiero.» E posta la gerla sur un tavolino, passò le braccia nelle cigne, e se la recò in ispalla. «Non si potrebbe,» disse don Abbondio, «trovar qualche uomo che venisse con noi, per far la scorta al suo curato? Se incontrassimo qualche birbone, che pur troppo ne va in volta parecchi, che aiuto m'avete da dare voi altre?» «Un'altra, per perder tempo!» sclamò Perpetua. «Andarlo a cercare adesso l'uomo, che ognuno ha da pensare ai fatti suoi. Alto; vada a pigliare il breviario e il cappello; e andiamo.» Don Abbondio andò, tornò tosto col breviario sotto il braccio, col cappello in capo, e col suo bordone in mano; e uscirono tutti e tre per una porticina che metteva in sul sagrato. Perpetua la richiuse, più per non trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in quelle imposte; e si pose la chiave in tasca. Don Abbondio diede, nel passare, un'occhiata alla chiesa, e disse fra i denti: «al popolo tocca di custodirla, che serve a loro. Se hanno un po' di cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro.» Presero la via pe' campi, quatti quatti, pensando ognuno ai casi suoi, e guardandosi attorno, massime don Abbondio, se apparisse qualche figura sospetta, qualche cosa di mal fidato. Non s'incontrava nessuno: la gente era, o nelle case, a guardarle, a far fagotto, a riporre, o per le vie che menavano dirittamente alle alture. Dopo aver sospirato a molte riprese, e poi lasciato scappare qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più seguitamente. Se la pigliava col duca di Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; coll'imperatore, che avrebbe dovuto aver senno per l'altrui follia, lasciar andar l'acqua all'ingiù, non tanti puntigli: chè finalmente, egli sarebbe sempre stato l'imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. Sopratutto la aveva col governatore, a cui sarebbe toccato di fare ogni cosa, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era quegli che ce li attirava: tutto pel gusto di far la guerra. «Bisognerebbe,» diceva, «che fossero qui quei signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno un bel conto da rendere! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.» «Lasci un po' stare questa gente; che già non son quelli che ci verranno ad aiutare,» diceva Perpetua. «Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite chiacchiere che non concludono niente. Piuttosto, quel che mi dà fastidio…» «Che cosa c'è?» Perpetua, la quale, in quel tratto di via, aveva riandato a bell'agio il nascondimento fatto in furia, cominciò a dolersi d'aver dimenticata la tal cosa, d'aver mal riposta la tal'altra; qui, d'aver lasciata una traccia che poteva guidare i ladroni, là… «Brava!» disse don Abbondio, rassicurato a poco a poco della vita, quanto bastava per potere angustiarsi della roba: «brava! così avete fatto? Dove avevate il capo?» «Come!» sclamò Perpetua, fermandosi un momento sui due piedi, e mettendo le pugna in sui fianchi, a quel modo che la gerla glielo permetteva: «come! ella verrà adesso a farmi di codesti rimproveri, quando era ella che me lo toglieva il capo, invece di aiutarmi e di darmi coraggio! Ho pensato forse più alla roba di casa che alla mia; non ho avuto chi mi desse una mano; ho dovuto far da Marta e da Maddalena: se qualche cosa andrà male, non so che dire: ho fatto anche più del mio dovere.» Agnese interrompeva queste quistioni, entrando anch'ella a parlare de' suoi guai; e non si rammaricava tanto del travaglio e del danno, quanto del vedere svanita la speranza di riabbracciar presto la sua Lucia: chè, se vi ricorda, era appunto quell'autunno, sul quale avevan fatto assegnamento: nè era da supporre che donna Prassede volesse venire a villeggiar da quelle parti, in tali circostanze: piuttosto ne sarebbe partita, se vi si fosse trovata; come facevano tutti gli altri villeggianti. La vista dei luoghi rendeva ancor più vivi quei pensieri d'Agnese, e più acerbo il suo desiderio. Usciti dai sentieri de' campi, avevan presa la strada publica, quella medesima per cui la povera donna era venuta riconducendo, per così poco tempo, a casa la figlia, dopo aver soggiornato con lei, appresso al sarto. E già si vedeva il villaggio. «Andremo bene a salutare quella brava gente,» disse Agnese. «E anche a riposare un pochetto; chè di questa gerla io comincio ad averne a bastanza; e poi per mangiare un boccone,» disse Perpetua. «Con patto di non perder tempo; chè non siamo mica in viaggio per divertimento,» conchiuse don Abbondio. Furono ricevuti a braccia aperte, e veduti con gran piacere: rammentavano una buona azione. Fate del bene a quanti più potete, dice qui il nostro autore; e vi occorrerà tanto più spesso d'incontrar dei volti che vi portino allegria. Agnese, nell'abbracciar la buona donna, die' in un pianto dirotto, che le fu d'un gran sollievo; e rispondeva con singulti alle domande che quella e il marito le facevano di Lucia. «Sta meglio di noi,» disse don Abbondio: «è a Milano, fuor dei pericoli, lontano da queste diavolerie.» «Scappano, eh? il signor curato e la compagnia,» disse il sarto. «Sicuro,» risposero ad una voce il padrone e la serva. «Li compatisco.» «Siamo avviati,» disse don Abbondio, «al castello di ***.» «L'hanno pensata bene: sicuri come in paradiso.» «E qui non hanno paura?» disse don Abbondio. «Dirò, signor curato: propriamente in ospitazione, come ella sa che si dice, a parlar pulito, qui non dovrebbero venire coloro: siamo troppo fuori della loro strada, grazie al cielo. Al più al più, qualche scappata, che Dio non voglia: ma in ogni caso c'è tempo: s'hanno prima da sentire altre notizie dai poveri paesi dove andranno a porsi proprio di casa.» Si conchiuse di fermarsi quivi un poco a riposo; e, come era l'ora del pranzo, «signori,» disse il sarto: «hanno da onorare la mia povera tavola: alla buona: ci sarà un piatto di buon viso.» Perpetua disse d'aver con sè qualche cosa da rompere il digiuno. Dopo un po' di cerimonie vicendevoli, si venne all'accordo di por tutto insieme, e di pranzare in compagnia. I ragazzi s'eran messi con gran festa attorno ad Agnese loro vecchia amica. Presto, presto; il sarto ordinò ad una fìgliuoletta (quella che aveva portato di quel ben di Dio a Maria vedova: chi sa se ve ne ricorda!) che andasse a cavar del riccio quattro castagne primaticce, che erano riposte in un canto; e le ponesse arrostire. «E tu,» disse ad un ragazzo, «va nell'orto, a dare una scossa al pesco, da farne cader quattro, e portali qui: tutti, ve'. E tu,» disse ad un altro, «va sul fico, a spiccarne quattro dei più maturi. Già lo conoscete anche troppo quel mestiere.» Egli, andò a spillare un suo bariletto; la donna a prendere un po' di biancheria; Perpetua cavò le provigioni; si mise la tavola: un mantile e un tondo di maiolica al posto d'onore, per don Abbondio, con una posata che Perpetua aveva nella gerla; fu imbandito; si sedettero, e si desinò, se non in grande allegria, almeno con molta più che nessuno dei commensali si fosse aspettato di goderne in quella giornata. «Che ne dice, signor curato, d'uno scombussolamento di questa sorta?» disse il sarto: «mi par di leggere la storia dei mori in Francia.» «Che ho da dire? Mi doveva venire addosso anche questa!» «Però, hanno scelto un buon rifugio,» riprese quegli: «chi ha da andare lassù per forza? E troveranno compagnia: che già s'è inteso che vi si sia rifuggita molta gente, e che ve ne arrivi tuttavia.» «Voglio sperare,» disse don Abbondio, «che saremo ben accolti. Lo conosco quel bravo signore; e quando ho avuto un'altra volta l'onore d'esser con lui, fu così compito!» «E a me,» disse Agnese, «m'ha fatto dire dal signor monsignor illustrissimo, che, quando avessi bisogno di qualche cosa, bastava che andassi da lui.» «Gran bella conversione!» ripigliò, don Abbondio: «e persevera, n'è vero?, persevera.» Il sarto si fece a parlare alla distesa della santa vita dell'innominato, e come, dall'essere il flagello del contorno, ne era divenuto l'esempio e il benefattore. «E tutta quella gente che teneva con sè… quella famiglia…» riprese don Abbondio, il quale ne aveva più d'una volta inteso dir qualche cosa, ma non era mai assicurato abbastanza. «Sfrattati la più parte,» rispose il sarto: «e quei che sono rimasti, hanno mutato vezzo, ma d'una maniera! In somma è diventato quel castello come la Tebaide: ella le sa queste cose.» Si mise poi a ricordar con Agnese la visita del cardinale. «Grand'uomo!» diceva: «grand'uomo! Peccato che sia passato qui così in furia, che non ho nè anche potuto fargli un po' d'onore. Quanto vorrei potergli parlare un'altra volta, un po' più con comodo!» Levati poi da tavola, le fece osservare una immagine a stampa del cardinale, che teneva appesa ad'una imposta d'un uscio, in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che il ritratto non rassomigliava; giacchè egli aveva potuto osservar da vicino e a suo bell'agio il cardinale, in quella stanza medesima. «L'hanno voluto far lui, con questa cosa qui?» disse Agnese «Nel vestito gli somiglia; ma… » «N'è vero che non somiglia?» disse il sarto «lo dico sempre anch'io; ma, se non altro, c'è sotto il suo nome:è una memoria.» Don Abbondio faceva fretta;il sarto s'impegnò di trovare un baroccio che li portasse appiè della salita; ne andò tosto in cerca, e in breve tornò ad annunziare che arrivava. Si volse poi a don Abbondio, e gli disse: «signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passar tempo; da poveruomo posso servirla: chè anch'io mi diverto un po' a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare; ma però… » «Grazie, grazie,» rispose don Abbondio: «sono circostanze, che si ha appena testa da applicare a quel che è di precetto.» Mentre si fanno e si ricusano ringraziamenti, e si ricambiano condoglianze e buoni augurii, inviti e promesse d'un'altra fermata al ritorno, il baroccio è giunto dinanzi all'uscio da via. Vi pongono le gerle, montan su; e imprendono, con un po' più d'agio e di tranquillità d'animo, la seconda metà del loro viaggio. Il sarto aveva detto il vero a don Abbondio, intorno all'innominato. Dal dì che lo abbiamo lasciato, egli aveva sempre continuato a fare ciò che allora s'era proposto, compensar danni, domandar pace, soccorrer poverelli, ogni bene di che gli venisse opportunità. Quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell'offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel non fare nè l'una cosa nè l'altra. Aveva dismessa ogni arme, e andava sempre solo, disposto ad incontrare le conseguenze possibili di tante violenze commesse, e persuaso che sarebbe commetterne una nuova, usar la forza in difesa d'un capo debitore di tanto e a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un'ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione, e che dell'ingiuria egli meno d'ogni altro aveva titolo di farsi punitore. Con tutto ciò, era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante braccia e il suo. La rimembranza dell'antica ferocia, e la vista della mansuetudine presente, quella, che doveva aver lasciati tanti desiderii di vendetta, questa, che la rendeva tanto agevole, cospiravano in quella vece a procacciargli e a mantenergli una ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia. Era quell'uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s'era umiliato. I rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura altrui, si dileguavano ora dinanzi a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta, fuori d'ogni aspettazione e senza pericolo, una soddisfazione che non avrebbero potuto promettersi dalla più fortunata vendetta, la soddisfazione di vedere un tal uomo dolente de' suoi torti e partecipe, per così dire, della loro indegnazione. Più d'uno, il cui cruccio più amaro e più intenso era stato, per molti anni, il non veder probabilità di trovarsi in nessun caso più forte di colui, per ricattarsi di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato, e in atto di chi non farebbe resistenza, non s'era sentito altro movimento che di fargli dimostrazioni d'onore. In quell'abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza ch'egli lo sapesse, non so che di più alto e di più nobile; perchè vi appariva ancor meglio di prima, l'assenza d'ogni timore. Gli odii anche i più rozzi e pertinaci, si sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione publica per l'uomo penitente e benefico. Questa era tale, che spesso egli si trovava impacciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivano fatte, e doveva por cura a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser troppo esaltato. S'era scelto nella chiesa l'ultimo luogo; e guai che nessuno andasse mai a preoccuparlo: sarebbe stato come usurpare un posto d'onore. Offender poi quell'uomo, o anche trattarlo irriverentemente, poteva parere non tanto un delitto e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui questo sentimento altrui poteva servir di ritegno, ne partecipavano anch'essi, più o meno. Queste medesime ed altre cagioni, stornavano pure da lui l'animavversione più lontana della publica podestà, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale egli non si dava pensiero. Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano stati di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la raccomandazione personale, la gloria della conversione. I magistrati e i grandi, s'erano rallegrati di questa, publicamente come il popolo; e sarebbe paruto strano l'infierire contra chi era stato soggetto di tante congratulazioni. Senzachè, una potestà occupata in una guerra perpetua e spesso infelice contra ribellioni vive e rinascenti, poteva trovarsi abbastanza contenta d'esser liberata dalla più indomabile e molesta, per non andare a cercar altro: tanto più, che quella'conversione produceva riparazioni, che la potestà non era avvezza ad ottenere, nè manco a richiedere. Tormentare un santo, non pareva un buon mezzo di torsi la vergogna del non aver saputo reprimere un facinoroso; e l'esempio che si fosse dato in lui, non avrebbe potuto aver altro effetto, che di stornare i suoi simili dal divenire innocui. Probabilmente anche la parte che il cardinal Federigo aveva avuta nella conversione, e il suo nome associato a quello del convertito, servivano a questo come d'uno scudo benedetto. E in quello stato di cose e di idee, in quelle singolari relazioni dell'autorità spirituale e del poter civile, che battagliavano così di frequente tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi mischiando sempre alle ostilità atti di riconoscimento e proteste di deferenza, e che, pur di frequente, andavano di conserva ad un fine comune, senza far mai pace, potè parere, in certo modo, che la riconciliazione della prima portasse con sè l'oblivione, se non l'assoluzione, del secondo; quando quella s'era sola adoperata a produrre un effetto voluto da entrambe. Così quell'uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccioli, a conculcarlo, messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti e inchinato da molti. Vero è che v'era pur di molti, a cui quello strepitoso mutamento dovè recar tutt'altro che soddisfazione: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti altri socii nel delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a far conto, che anche si trovavano in un tratto rotti i fili di trame ordite di lunga mano, nel momento forse che aspettavano la nuova dell'adempimento. Ma già abbiamo veduto che varii sentimenti quella conversione facesse nascere negli scherani che si trovavano allora presso al loro padrone, e che la udirono annunziare dalla sua bocca: stupore, dolore, abbattimento, cruccio; un po' di tutto, fuorchè disprezzo nè odio. Lo stesso accadde agli altri ch'egli teneva sparsi in diversi posti, lo stesso ai complici di più alto affare, quando riseppero la terribile novella, e a tutti per le cagioni medesime. Molto odio, come trovo nel luogo altrove citato del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo. Risguardavano questo come uno che si era inframmesso da nemico nei loro affari; l'innominato aveva voluto salvar l'anima sua: nessuno aveva ragion di lagnarsene. Di mano in mano poi, la più parte degli scherani domestici, non potendo accomodarsi alla nuova disciplina, nè veggendo probabilità ch'ella si avesse a mutare, se n'erano andati. Chi avrà cercato altro padrone, e per avventura fra gli antichi amici di quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo, come allora dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si sarà gettato alla strada, per far la guerra a minuto e a suo proprio conto; chi si sarà anche contentato di andar birboneggiando in libertà. E il simile avranno pur fatto quegli altri che stavano prima ai suoi ordini, in diversi paesi. Di quelli poi che s'erano potuti assuefare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano abbracciato di buona voglia, i più, natii della valle, erano tornati ai campi, o ai mestieri appresi nella prima età e abbandonati poi, per la scheraneria; i forestieri erano rimasti nel castello, ai servigi domestici: gli uni e gli altri, come ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano al par di lui, senza fare nè ricever torto, inermi e rispettati. Ma quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello, a domandar ricovero, egli, tutto lieto che quelle sue mura fossero cercate come asilo dai deboli, che per tanto tempo le avevano guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia; fe' sparger voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque vi si volesse riruggire, e pensò tosto a mettere non solo questa, ma anche la valle in istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero provarsi di venirvi a far delle loro. Ragunò i servitori che gli erano rimasti, pochi e valenti, come i versi di Torti; fe' loro una parlata sulla buona occasione che Dio dava loro e a lui, d'impiegarsi una volta in aiuto dei prossimi, che avevano tanto oppressi e spaventati; e con quell'antico accento di comando che esprimeva la certezza dell'obedienza, annunziò loro in generale ciò ch'egli intendeva che facessero, e sopra tutto prescrisse come avessero a contenersi, perchè la gente che veniva quivi a rifugio, non vedesse in essi, se non amici e difensori. Fe' poi portar giù da una stanza a tetto le armi da fuoco, da taglio, in asta, che da un pezzo vi stavano ammucchiate; e le distribuì loro; fe' dire ai suoi contadini e fittaiuoli della valle, che chiunque avesse buona voglia, venisse con armi al castello; a chi non ne aveva, ne diede; trascelse alcuni, che fossero come uficiali, e avessero altri sotto i loro ordini; assegnò i posti, all'entrate e in varii luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì le ore e i modi delle mute, come in un campo, o come già s'era costumato quivi medesimo, nei tempi della sua vita rubella. In un canto di quella stanza a tetto, v'erano, separate dal mucchio, le armi ch'egli solo aveva portate: quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, pistole, coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati alla'parete. Nessuno dei servitori vi pose mano; ma concertarono di domandare al signore, quali voleva che gli fossero recate. «Nessuna,» rispose egli; e, fosse voto o proposito, restò sempre disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione. Nello stesso tempo, aveva messo in faccenda altri uomini e donne della famiglia e della dipendenza, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile, a rizzar letti, a dispor pagliericci, stramazzi, sacconi, nelle stanze, nelle sale, che diventavano dormitorii. E aveva dato ordine di far venire provigioni abbondanti, per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavano sempre più spesseggiando. Egli intanto non istava mai fermo; dentro e fuori del castello, su e giù per la salita, attorno per la valle, a stabilire, a rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere tutto in regola, colle parole, cogli occhi, colla presenza. In casa, per via, faceva accoglienza a tutti i sopravvegnenti in cui s'abbatteva; e tutti, o avessero già veduto quell'uomo, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano cacciati colà; e si volgevano ancora a guardarlo, quando egli, spiccatosi da loro, proseguiva il suo cammino. Quantunque il concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi si avvicinavano alla valle, ma all'imboccatura opposta, pure, nella seconda andata, cominciarono essi a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e viottoli erano sboccati o sboccavano nella strada. In circostanze simili , tutti quelli che s'incontrano sono conoscenti. Ogni volta che il baroccio aveva raggiunto qualche pedone, si faceva un ricambio di domande e di risposte. Chi era scappato, come i nostri, senza aspettare l'arrivo dei soldati; chi aveva udito i tamburi e i timballi; chi gli aveva veduti coloro, e li dipingeva come gli spaventati sogliono dipingere. «Siamo ancora fortunati,» dicevano le due donne «ringraziamo il cielo. Vada la roba; ma almeno ne siam fuori.» Ma don Abbondio non trovava che vi fosse tanto da rallegrarsi; anzi quel concorso, e più ancora il maggiore che sentiva esservi dall'altra parte, cominciava a fargli ombra. «Oh che storia!» borbottava egli alle donne, in un momento che non v'era nessuno dattorno: «oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente in un luogo è lo stesso che volervi tirare i soldati per forza? Tutti nascondono, tutti portan via, nelle case non resta nulla; crederanno che lassù vi sieno tesori. Vi vengono sicuro. Oh povero me! dove mi sono imbarcato!» «Che hanno da venire lassù?» diceva Perpetua: «anch'essi hanno da andare per la loro strada. E poi, io ho sempre inteso dire che, nei pericoli, è meglio essere in molti.» «In molti? in molti?» replicava don Abbondio: «povera donna! Non sapete che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro. E poi, se volessero far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh povero me! Manco male era andar sui monti. Che abbiano tutti da volere andare in un luogo!… Seccatori!» mormoracchiava poi, a voce più bassa: «tutti qui: e via, e via, e via; l'uno dietro l'altro, come pecore senza ragione.» «A questo modo,» disse Agnese, «anch'essi potrebbero dir lo stesso di noi.» «Tacete, tacete,» disse don Abbondio: «che già le chiacchiere non servono a nulla. Quel ch'è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci. Sarà quel che vorrà la Providenza: il cielo ce la mandi buona.» Ma fu ben peggio quando, all'entrata della valle, vide un buon posto di armati, parte sull'uscio d'una casa, e parte a quartiere nelle stanze terrene. Li guardò sottocchio: non eran quelle facce che gli era toccato di vedere nell'altro doloroso suo ingresso, o se ve n'era di quelle, elle erano ben mutate; ma con tuttociò, non si può dire che noia gli desse quella vista. – Oh povero me! – pensava egli: – ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva essere altrimenti; me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità. Ma che cosa vuol fare? vuol far la guerra? vuol far il re, egli? Oh povero me! In circostanze che si vorrebbe potersi riporre sotto terra, e costui cerca ogni via di farsi scorgere, di dar nell'occhio; par che li voglia invitare! – «Vede mo, signor padrone,» gli disse Perpetua, «se c'è della brava gente qui, che ci saprà difendere. Vengano adesso i soldati: non son mica qui come quei nostri martori, che non son buoni che da menar le gambe.» «Tacete,» rispose, con bassa ma iraconda voce, don Abbondi?: «tacete; che non sapete quel che vi diciate. Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o che non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette in ordine questo luogo come una fortezza. Non sapete che i soldati, è il loro mestiere prender le fortezze? Non vorrebbero altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze; perchè tutto quel che trovano è per loro, e passano la gente a fil di spada. Oh povero me! Basta, vedrò ben io se non vi sia modo di mettersi in salvo su qualcuno di questi greppi. In una battaglia non mi ci colgono: oh, in una battaglia non mi ci colgono!» «Se ha poi paura anche d'esser difeso e aiutato…» ricominciava Perpetua; ma don Abbondio l'interruppe aspramente, sempre però a bassa voce: «tacete. E guardatevi bene di riportare questi discorsi: guai! Ricordatevi che qui bisogna far sempre buon viso, e approvare tutto quello che si vede.» Alla Richelieu trovarono un altro posto di armati, ai quali don Abbondio fe' umilmente di cappello, dicendo intanto in cuor suo: – ohimè, ohimè: son proprio venuto in un accampamento ! – Qui il baroccio si fermò; ne scesero; don Abbondio pagò in fretta e congedò il condottiere; e con le due compagne, prese la salita, senza far motto. La vista di quei luoghi gli andava ridestando nella fantasia e frammischiando alle angosce presenti la rimembranza di quelle che aveva quivi sentite altra volta. E Agnese, la quale non gli aveva mai veduti quei luoghi, e se n'era fatta in mente una pittura fantastica che le si rappresentava ogni volta ch'ella pensasse alle cose che quivi erano succedute, vedendoli ora quali erano davvero, provava come un nuovo e più vivo sentimento di quelle memorie dolorose. «Oh signor curato!» sclamò ella: «a pensare che la mia povera Lucia è passata per questa strada…!» «Volete tacere? donna senza giudizio!» le gridò all'orecchio don Abbondio: «sono elle cose codeste da tirarsi in campo qui? Non sapete che siamo in casa sua? Fortuna che nessuno vi sente ora; ma se parlate a questo modo…» «Oh!» disse Agnese: «adesso che è santo… !» «Tacete lì,» le replicò all'orecchio don Abbondio: «credete voi che ai santi si possa dire, senza riguardo, tutto ciò che passa per la mente? Pensate piuttosto a ringraziarlo del bene che vi ha fatto.» «Oh per questo, ci aveva già pensato: che crede non sappia nè anche un po' di creanza?» «La creanza è di non dir le cose che possono dispiacere, massime a chi non è avvezzo a sentirne. E capitela bene tutte e due, che qui non è luogo da pettegoleggiare, e da dir su tutto quello che vi può venire in capo. È casa d'un gran signore, già sapete: vedete che famiglia c'è attorno in volta: ci vien gente di tutte le sorte: sicchè, giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c'è necessità: chè a tacere non si falla mai». «Fa peggio ella con tutte codeste sue…» entrava a dire Perpetua, ma: «zitto!» gridò sottovoce don Abbondio, e insieme si levò il cappello in fretta, e fece un profondo inchino: chè, guardando in su, aveva scorto l'innominato scendere alla volta loro. Questi aveva pur veduto e riconosciuto don Abbondio, e si affrettava ad incontrarlo. «Signor curato,» disse, quando fu presso, «avrei voluto offerirle la mia casa in una occasione più lieta; ma ad ogni modo son ben contento di poterle prestar servigio in qualche cosa.» «Confidato nella gran bontà di vossignoria illustrissima,» rispose don Abbondio, «ho pigliato ardire di venire, in queste triste circostanze, a darle disturbo: e, come vede vossignoria illustrissima, ho pigliato anche questa confidenza di menar compagnia. Questa è la mia governante… » «Benvenuta,» disse l'innominato. «E questa,» continuò don Abbonalo, «è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella… di quella… » «Di Lucia,» disse Agnese. «Di Lucia!» sclamò l'innominato, volgendosi, con la fronte bassa, ad Agnese. «Del bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui… da me… a questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione. » «Oh appunto!» disse Agnese: «vengo a darle incomodo. Anzi,» continuò, appressandosegli all'orecchio, «ho poi da ringraziarla… » L'innominato ruppe quelle parole, chiedendo premurosamente novelle di Lucia; e, udite che l'ebbe, si volse per accompagnare al castello i nuovi ospiti, come fece, a malgrado della loro resistenza cerimoniosa. Agnese lanciò al curato un'occhiata che voleva dire: veda un po' se c'è bisogno ch'ella s'inframmetta tra noi due, a dar pareri? «Sono arrivati alla sua parrocchia?» gli domandò l'innominato. «Signor no, che non gli ho voluti aspettare quei diavoli,» rispose questi. «Sa il cielo se avrei potuto uscir loro vivo delle mani, e venire a dar disturbo a vossignoria illustrissima.» «Or bene, si faccia pur cuore,» riprese l'innominato: «che ora ella è bene in sicuro. Quassù non verranno; e se ci si volessero provare, siam pronti a riceverli.» «Speriamo che non vengano,» disse don Abbondio.«E sento,» soggiunse, accennando col dito ai monti che chiudevano la valle di rincontro, «sento che, anche da quella parte, giri un'altra masnada di gente, ma… ma… » «È il vero,» rispose l'innominato: «ma non dubiti, che siam pronti anche per loro. » – Tra due fuochi, – diceva in sè don Abbondio: – proprio tra due fuochi. Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c'è a questo mondo! – Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua ad una stanza del quartiere assegnato alle donne, che teneva tre dei quattro lati del secondo cortile, nella parte posteriore dell'edificio posta sur un masso sporgente e isolato, a cavaliere ad un precipizio. Gli uomini alloggiavano nei lati dell'altro cortile a dritta e a manca, e in quello che rispondeva sulla splanata. Il corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall'uno all'altro, per un ampio androne aperto di rimpetto alla porta principale, era in parte occupato dalle provigioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba che i rifuggiti volessero ricoverar lassù. Nel quartiere degli uomini, v'era un picciolo appartamento destinato agli ecclesiastici che potessero capitare. L'innominato accompagnò quivi in persona don Abbondio, che fu il primo a pigliarne il possesso. Ventitrè o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggiaschi nel castello, in mezzo ad un movimento continuo, in una gran compagnia, e che nei primi tempi andò sempre ingrossando; ma senza avventure di rilievo. Non passò forse giorno, che non si desse all'arme. Vengono lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti per di là. Ad ogni avviso, l'innominato mandava uomini ad esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sè della gente, che teneva sempre in pronto a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov'era indicato il pericolo. Ed era cosa singolare, vedere una schiera di briganti armati fino alla gola, e in ordine come soldati, condotta da un uomo senz'arme. Le più volte erano foraggieri e predoni sbandati, che se ne andavano, prima d'esser sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro per insegnar loro a non venir più da quelle parti, l'innominato ebbe avviso che un paesello vicino era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di varii corpi che, rimasti addietro per buscare, avevano fatto masnada, e andavano a gettarsi alla sproveduta nelle terre vicine a quelle dove alloggiava l'esercito; spogliavano gli abitanti, e li mettevano anche a contribuzione. L'innominato fece una breve aringa ai suoi fanti, e li fe' marciare alla volta del paesello. Vi giunsero inaspettati: i ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e in punto di combattere, lasciarono il sacco a mezzo, e se ne andarono in fretta, senza attendersi l'un l'altro, verso la parte dond'erano venuti. Egli tenne lor dietro, per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne tornò. E passando nel paesello salvato, non è da dire con che grida di applauso e di benedizione fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero. Nel castello, tra quella moltitudine avveniticcia, varia di condizioni, di costumi, di sesso, e d'età, non nacque mai alcun disordine d'importanza. L'innominato aveva poste guardie in varii luoghi; le quali tutte attendevano ad impedire ogni inconveniente, con quella premura che ognuno metteva nelle cose di cui si avesse a rendergli conto. Aveva poi pregato gli ecclesiastici e gli uomini più autorevoli, che si trovavano fra i ricoverati, d'andare attorno e di vigilare. E quanto più spesso poteva, girava anch'egli, a farsi veder da per tutto; ma, anche in sua assenza, il ricordarsi di cui s'era in casa, serviva di freno a chi potesse averne bisogno. Senza che, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per alcuni anche di congiunti o d'amici rimasti nel pericolo, le novelle che venivano dal di fuori, abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella disposizione. V'era però anche de' capi scarichi, degli uomini d'una tempra più salda e d'un coraggio più verde, che cercavano di passar quei giorni in allegria. Avevano abbandonate le case per non esser forti abbastanza da difenderle; ma non trovavano gusto a piangere e a sospirare su cosa che non aveva rimedio, nè a figurarsi e a contemplar colla fantasia il guasto che già vedrebbero anche troppo cogli occhi loro. Famiglie conoscenti erano andate di conserva, o s'erano riscontrate lassù; s'erano formate nuove amicizie; e la folla si era divisa in brigate, secondo le consuetudini, e gli umori. Chi aveva danari e discrezione, andava a pranzare giù nella valle, dove, per quella circostanza, s'erano messe su in fretta bettole e osterie: in alcune, i bocconi erano alternati cogli omei, e non era lecito parlar d'altro che di sciagure; in altre, non si rammentavano le sciagure, se non per dire che non bisognava pensarci. A chi non poteva o non voleva farsi le spese, si distribuiva nel castello pane, minestra e vino: oltre alcune tavole che erano servite quotidianamente, per quelli che il signore vi aveva espressamente convitati; e i nostri conosciuti erano di questo numero. Agnese e Perpetua, per non mangiare il pane a tradimento, avevano voluto essere impiegate nei servigi che esigeva una così grande albergheria; e in questo spendevano una buona parte della giornata, il resto nel confabulare con certe amiche che s'erano fatte, o col povero don Abbondio. Questi non aveva nulla da fare, ma non s'annoiava però; la paura gli teneva compagnia. La paura proprio d'un assalto credo che la gli fosse passata, o se pur gliene rimaneva, era quella che gli dava manco affanno; perchè ogni volta che vi pensava su un po', doveva capire quanto poco fosse fondata. Ma l'immagine del paese circonvicino inondato da una parte e dall'altra da soldatacci, le armi e gli armati che vedeva sempre in volta, un castello, quel castello, il pensiero di tante cose che potevano nascere ad ogni momento in una tale situazione, tutto gli teneva addosso uno spavento indistinto, generale, continuo; lasciando stare il rangolo che gli dava il pensiero della sua povera casa. In tutto il tempo che stette in quel rifugio, non se ne scostò mai quanto un trar di mano, nè mai mise piede sulla discesa: l'unico suo passeggio era d'uscire sulla spianata, e di portarsi, quando da un lato e quando dall'altro del castello, a guardar giù pei greppi e pei burroni, per istudiare se vi fosse qualche passo un po' praticabile, qualche po' di sentiero, per dove andar cercando un nascondiglio in caso di un serra serra. A tutti i suoi compagni d'asilo faceva grandi inchini o grandi saluti, ma bazzicava con pochissimi: la sua conversazione più frequente era con le due donne, come abbiam detto; con loro andava a fare i suoi sfoghi, a rischio che talvolta gli fosse dato sulla voce da Perpetua, e fattogli vergogna anche da Agnese. A tavola poi, dove stava poco e parlava pochissimo, udiva le novelle del terribile passaggio che arrivavano ogni giorno, o di paese in paese e di bocca in bocca, o portate lassù da qualcheduno, che dapprima aveva voluto restarsene a casa, e scappava in ultimo, senza aver potuto nulla salvare, e per avventura malconcio: e ognidì v'era qualche nuova storia di sciagura. Alcuni, novellieri di professione, raccoglievano diligentemente tutte le voci, vagliavano tutte le relazioni, e ne davano poi il sugo agli altri. Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fossero peggio i fanti o i cavalieri; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri, si raccontavano di alcuni le imprese passate, si specificavano le stazioni, e le marce: quel giorno il tale reggimento si spandeva nei tali paesi, domani andrebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava di avere informazione e si teneva il conto dei reggimenti che passavano di volta in volta il ponte di Lecco, perchè quelli si potevano considerare come andati, e fuori veramente del paese. Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Marradas, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando al ciel piacque, passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadrone volante dei veneziani finì anch'esso di allontanarsi; e tutto il paese a destra e a sinistra si trovò libero. Già quei delle terre invase e sgombrate le prime avevano cominciato a votare il castello; e ogni dì ne partiva gente: come, dopo un temporale d'autunno, si vede dai palchi fronzuti d'un grand'albero uscire per ogni banda gli uccelli che vi s'erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di trovare ancora attorno lanzichenecchi rimasti addietro sbrancati, in coda all'esercito. Perpetua potè ben dire e ridire che, quanto più s'indugiava, tanto più si dava agio ai baroni del paese di entrare in casa a far del resto; quando si trattava di assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva; salvo se l'imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere, come si dice, la scrima. Il giorno fissato alla partenza, l'innominato fe' trovar pronta alla Richelieu una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese. E, trattala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la palma in sul petto, ella andasse ripetendo che ne aveva lì ancora dei vecchi. «Quando vedrete quella vostra buona povera Lucia…» le disse in ultimo: «già son certo ch'ella prega per me, poichè le ho fatto tanto male; ditele adunque ch'io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei.» Volle poi accompagnare tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza. I ringraziamenti umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gli immagini il lettore. Partirono; fecero, secondo il convenuto, una fermatina, ma così in piedi, alla casa del sarto, dove sentirono raccontar cento cose del passaggio: la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporcizia: ma quivi per buona sorte non s'eran veduti lanzichenecchi. «Ah signor curato!» disse il sarto, dandogli braccio a rimontare in carrozza: «s'ha da far dei libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorta.» Dopo un altro po' di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder cogli occhi loro qualche cosa di quello che avevan tanto inteso descrivere: vigne spogliate, non come dalla vindemmia, ma come dalla gragnuola e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, stramenati e calpestati; strappati i pali, scalpitato il terreno e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Nelle terre poi, usci spezzati, impannate lacere, strame, cenci, frantumi, a mucchio o seminati per lo spazzo delle vie; un'aria greve, fumi di lezzo più profondo che uscivano dalle case; i paesani, chi a scopar fuora immondizie, chi a riparar le imposte alla meglio, chi in crocchio a piangere, a far lamento insieme; e, al passare della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per implorare elemosina. Con queste immagini, ora dinanzi agli occhi, ora nella mente, e coll'aspettazione di trovare il simigliante a casa loro, vi giunsero; e trovarono infatti quel che si aspettavano. Agnese fece deporre i fagotti in un angolo del cortiletto, ch'era rimasto il luogo più pulito della casa; si diede poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quel poco di roba che le era stato lasciato; fe' venire un falegname e un ferraio, per riadattare le imposte; e, sballando poi la biancheria donata, e noverando in segreto quei nuovi ruspi, sclamava tra sè e sè: – son caduta in piedi: sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d'esser caduta in piedi. – Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ad ogni passo che danno nell'andito, senton crescere un tanfo, un morbo, un veleno, che li butta indietro; colla mano sul naso, s'avanzano all'uscio della cucina; entrano in punta di piedi, studiando dove porli, per ischifare le parti più luride del fetido strame che copre il pavimento; e danno un'occhiata intorno intorno. Non v'era nulla d'intero; ma reliquie e frammenti di quel che v'era stato, quivi ed altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, stracci di biancheria, fogli dei calendarii di don Abbondio, pezzi di stoviglie; tutto insieme o sparpagliato. Solo sul focolare si poteva scorgere i segni d'un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. V'era, dico, un rimasuglio di tizzoni e tizzoncelli spenti, i quali mostravano d'essere stati, un bracciuolo di seggiola, un piede di tavola, un'imposta d'armadio, una panca da letto, una doga del botticello dove si teneva il vino che racconciava lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con di que' carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scombiccherate le muraglie di fantocci, ingegnandosi, con certe berrette quadre o con certe chieriche, e con certe larghe facciuole, di figurarne dei preti, e ponendo studio a farli orribili e ridicolosi: intento che, per verità, non poteva fallire a tali artisti. «Ah porci ! » sclamò Perpetua. «Ah baroni !» sclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altro uscio che metteva nell'orto. Respirarono; andarono difilato alla volta della ficaia; ma già prima di esservi, videro la terra smossa, e misero un grido a un colpo; arrivati, trovarono effettivamente, invece del morto, la buca aperta. Qui nacque un po' di scandato: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che avesse nascosto male: pensate se questa voleva lasciar di ribattere: dopo che l'uno e l'altra ebbero ben gridato, entrambi col braccio teso e coll'indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate conto che da per tutto trovarono a un dipresso la medesima cosa. Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in quei giorni, era difficilissuno trovare aiuto; e non so quanto, dovettero stare come accampati, assestandosi alla meglio o alla peggio, e rinnovando a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati daAgnese. Di giunta poi, quel disastro fu, per qualche tempo, una semenza d'altre quistioni fastidiosissime; perchè Perpetua, a forza d'inchiedere, d'adocchiare e di fiutare, venne a saper di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio de' soldati, era no in quella vece sane e salve presso gente del paese; e infestava il padrone che si facesse sentire, e rivolesse il suo. Tasto più odioso non si poteva toccare per don Abbondio, attesochè la sua roba era in mano di birboni, di quella specie di persone cioè, con cui egli aveva più a cuore di stare in pace. «Ma se non ne voglio sapere di queste cose,» diceva egli. «Quante volte v'ho da ripetere che quel che è andato è andato? Ho mo da esser posto anche in croce, perchè m'è stata spogliata la casa?» «Se lo dico io,» rispondeva Perpetua, «ch'ella si lascerebbe mangiar gli occhi del capo. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.» «Ma vedete se codesti sono spropositi da dire!» replicava don Abbondio: «ma volete tacere?» Perpetua taceva, ma non cosi tosto; e tutto poi le era pretesto per ricominciare. Tanto che il pover'uomo s'era ridotto a non lasciarsi più scappar di bocca un lamento, sulla mancanza di questo o di quell'arredo, nel momento che ne avrebbe avuto bisogno; perchè, più d'una volta, gli era toccato di sentirsi dire: «vada a cercarlo al tale che lo ha, e non l'avrebbe tenuto fino a quest'ora, se non avesse che fare con un buon uomo.» Un'altra e più viva inquietudine gli veniva dall'intendere che giornalmente continuavano a passar soldati alla sfilata, come egli aveva troppo bene congetturato; onde stava sempre in sospetto di vedersene capitare qualcheduno o anche una qualche quadriglia in su l'uscio, che aveva fatto riparare in fretta per la prima cosa, e che teneva sbarrato con gran cura; ma per grazia del cielo ciò non avvenne mai. Nè però questi terrori erano ancora cessati, che un nuovo ne sopravvenne. Ma qui lasceremo da banda il pover'uomo: si tratta ben d'altro che di sue apprensioni private, che dei guai di qualche terre, che d'un disastro passeggiero. La peste che il tribunale della sanità aveva temuto potesse entrar colle bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto; ed è noto parimenti ch'ella non si fermò qui, ma invase e disfece una buona parte d'Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi veniamo ora a raccontare gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s'intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: chè della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un dipresso accade sempre e da per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, a dir vero, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma insieme di far conoscere, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto. Delle molte relazioni contemporanee, non ce n'è nessuna che basti per sè a darne un concetto un po' concreto e ordinato; come nessuna ce n'è, che non possa aiutare a formarlo. In ognuna, senza eccettuarne quella del Ripamonti,la quale va di gran lunga innanzi a tutte, per la copia e per la scelta dei fatti, e ancor più pel modo di vederli, in ognuna sono omessi fatti essenziali che sono registrati in altre; in ognuna ci ha errori materiali che si possono riconoscere e rettificare coll'aiuto di qualche altra o di quei pochi atti di publica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell'altra s'erano veduti, come in aria, gli effetti. In tutte poi, regna una strana confusione di tempi e di cose; è un perpetuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno nei particolari: carattere, del resto dei più comuni e dei più sensibili nei libri di quella età, in quelli principalmente scritti in lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d'Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore di epoca posteriore s'è proposto di esaminare e di raffrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicchè l'idea che se ne ha generalmente, debb'essere di necessità molto incerta e un po' confusa: un'idea indeterminata di grandi mali e di grandi errori (e per verità ci ebbe dell'uno e dell'altro, al di là di quel che si possa immaginare), un'idea composta più di giudizii che di fatti, alcuni fatti dispersi, scompagnati talvolta dalle circostanze loro più caratteristiche, senza distinzione di tempo, cioè senza sentimento di causa e d'effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e raffrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d'una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, uficiali, abbiam cercato di farne, non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti publici, nè tampoco tutti i successi degni, in qualche modo, di ricordanza. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un concetto più compiuto della cosa, la lettura delle memorie originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile vi sia sempre nelle opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di accertare i fatti più generali e più rilevanti, di disporli nell'ordine reale della loro successione, per quanto il comporti la ragione e la natura di essi, di osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finchè altri non faccia di meglio, una notizia succinta, ma sincera e continua di quel disastro. Per tutta adunque la striscia di territorio corsa dall'esercito, s'era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno in sulla via. Ben tosto, in questo e in quel paese, cominciarono ad infermarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de' viventi. V'era soltanto alcuni che gli avessero veduti altre volte: quei pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatrè anni innanzi, aveva desolato pure un buon tratto d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttavia, la peste di San Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così vane e così solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d'un uomo, perche a quest'uomo ha inspirato sentimenti ed azioni più memorabili ancora dei mali; porlo nelle menti, come un segnale di tutti quegli avvenimenti, perchè in tutti lo ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti far per quest'uomo come una impresa, nominarla da lui, come una conquista o una scoperta. Il protofisico Ludovico Settala, che non solo aveva veduta quella peste, ma ne era stato uno de' più attivi e intrepidi e, quantunque allor giovanissimo, de' più riputati curatori, e che ora, in gran sospetto di questa, stava all'erta e sulle informazioni, riferì, ai 20 d'ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di Lecco, a confine col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Su di che, non fu presa risoluzione veruna, come si ritrae dal Ragguaglio del Tadino. Ed ecco sopraggiungere avvisi simiglianti, da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvè e si contentò di spedire un commissario, che in via prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Ambidue, «o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste»;ma, in qualche luogo, effetto consueto delle emanazioni autunnali delle paludi, e per tutto altrove, effetto dei disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che vi si acquietasse. Ma sorvenendo senza posa altre e altre novelle di morte da diverse bande, furono spediti due delegati a vedere e a provedere: il Tadino suddetto e un auditore del tribunale. Quando questi arrivarono, il male si era già tanto dilatato, che le prove si offerivano senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le riviere del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza e la Gera d'Adda, e per tutto trovarono ville sbarrate, altre quasi deserte, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi, «et ci pareuano», dice il Tadino, «tante creature seluatiche, portando in mano chi l'herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d'aceto».S'inchiesero del numero dei morti, ed era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e da per tutto rinvennero le luride e terribili marche della pestilenza. Diedero tosto, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu ai 30 d'Ottobre, «si dispose», dice il Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla città le persone provenienti dai paesi dove il contagio s'era manifestato; «et mentre si compilaua la grida,» ne diede anticipatamente qualche ordine sommario ai gabellieri. Intanto i delegati fecero in fretta e in furia quei provedimenti che seppero e poterono migliori; e se ne tornarono, col tristo sentimento della insufficienza di essi a rimediare e ad arrestare un male già tanto avanzato e diffuso. Giunti il 14 di novembre, dato ragguaglio, in voce e di nuovo in iscritto, al tribunale; ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e di esporgli lo stato delle cose. V'andarono, e riportarono: aver lui di tali novelle provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli greviores esse curas. Così il Ripamonti,il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell'esito. Due o tre giorni di poi, ai 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui prescriveva publiche dimostrazioni, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d'un gran concorso, in tali circostanze: tutto, come in tempi ordinarii, come se di nulla non gli fosse stato parlato. Era quest'uomo, come abbiam detto a suo luogo, il celebre Ambrogio Spinola, mandato appunto per ravviar quella guerra, per racconciare gli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo ricordar qui incidentemente ch'egli morì indi a pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d'affanno e di struggimento, per rimproveri, soprammani, disgusti d'ogni sorta ricevuti da cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte e notata l'altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua antiveggenza, l'attività, la costanza: poteva anche ricercare che cosa egli abbia fatto di tutto ciò, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura o piuttosto in balìa. Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quel suo contegno, ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è il contegno della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragione di temerlo. Al giungere di quelle novelle dei paesi che ne erano così malamente imbrattati, di paesi che formano attorno alla città quasi una linea semicircolare, in alcuni punti non più distante da essa che venti, che diciotto miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un commovimento generale, un affaccendamento di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie del tempo vanno d'accordo, è nell'attestare che non ne fu nulla. La penuria dell'anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d'animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: nei trivii, nelle botteghe, nelle case, chi gittasse un motto del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e pervicacia prevaleva nel senato, nel Consiglio dei decurioni, in ogni magistrato. Trovo che il cardinal Federigo, tosto che si riseppero i primi casi di mal contagioso, ingiunse con lettera pastorale ai parochi, fra le altre cose, che inculcassero ai popoli l'importanza e l'obbligo di rivelare ogni simile accidente, e di consegnare le robe infette o sospette:e anche questa può essere contata fra le sue lodevoli singolarità. Il tribunale della sanità sollecitava provedimenti, cooperazione: tutto era presso che invano. E nel tribunale stesso, la premura era ben lungi dall'adeguare l'urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua narrazione, i due fisici che, persuasi e compresi della gravità e della imminenza del pericolo, stimolavano quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri. Abbiamo già veduto come, ai primi annunzii della peste, andasse freddo nell'operare, anzi nell'informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta ai 30 di ottobre, non fu conchiusa che ai 23 del mese seguente, non fu publicata che ai 29. La peste era già entrata in Milano. Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del fatto: e per verità, nell'osservare i principii d'un vasto eccidio, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno disegnare approssimativamente pel numero delle migliaia, si prova un non so quale interesse, a conoscere quei primi e pochi nomi che pur poterono essere notati e serbati: questa specie di distinzione, la precedenza nell'esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile. L'uno e l'altro storico dicono che fu un soldato italiano al servigio di Spagna; nel resto non sono ben d'accordo, nè anche sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la pone ai 22 d'ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare nè all'uno nè all'altro. Ambedue le epoche sono in contraddizione con altre ben più avverate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale dei decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prendere le informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo uficio, poteva meglio d'ogni altro essere informato d'un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro di altre date che ci paiono, come abbiam detto, più avverate, risulta che fu prima della publicazione della grida sulle bullette; e se la cosa ne portasse il pregio, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese: ma certo, il lettore ce ne dispensa. Comunque sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fardello di vesti comperate o rubate a soldati alemanni; andò a porsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, presso ai cappuccini; appena giunto, s'infermò; fu portato allo spedale; quivi, un bubone che gli si scoperse sotto un'ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò che era infatti; il quarto giorno egli morì. Il tribunale della sanità fe' segregare e sequestrare in casa la famiglia di lui; i suoi abiti, e il letto dove egli era giaciuto allo spedale, furono arsi. Due serventi che lo avevano quivi governato, e un buon frate che lo aveva assistito, caddero pur essi infermi, fra pochi giorni, tutti e tre di peste. Il dubbio che ivi si era avuto, fin da principio della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciata di fuori una semenza, che non tardò a germogliare. Il primo in cui scoppiasse, fu il padrone della casa dove quegli aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonatore di liuto. Allora tutti gli inquilini di quella casa furono, d'ordine della Sanità, condotti al lazzeretto; dove la più parte si posero giù, alcuni morirono in breve, di manifesto contagio. Nella città, quello che già c'era stato disseminato per la pratica di costoro, per vesti e arredi loro, trafugati da parenti, da pigionali, da serventi alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e quello di più che c'entrava di nuovo, per la difettuosità degli ordini, per la trascuranza nell'eseguirli e per la destrezza nell'eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell'anno, e nei primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, qualche persona ne era presa, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa dei casi allontanava il sospetto della peste, confermava sempre più l'universale in quella stupida e micidiale fidanza che peste non ci fosse, nè ci fosse stata pure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo, (era essa, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano gli augurii sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi; e avevano in pronto nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste, che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segnale si fosse mostrato. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur giugnevano alla Sanità, vi giugnevano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni: si dissimulavano i malati, si corrompevano i sotterratori e gli anziani; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri , s'ebbero a prezzo falsi attestati. Siccome però, ad ogni scoperta che gli riuscisse di fare, il tribunale ordinava di abbruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l'ira e la mormorazione dell'universale, «della Nobiltà, delli Mercanti et della Plebe,»persuasi, com'erano tutti, ch'elle fossero vessazioni senza causa e senza costrutto. L'odio principale cadeva sui due medici, il nostro ricantato Tadino e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tale, che ormai non potevano essi attraversare i mercati, senza essere assaliti di male parole, quando non erano pietre. E certo ella fu singolare e merita un ricordo la condizione in cui, per qualche mese, si trovarono quegli uomini, di veder venire innanzi un orribile flagello, d'affaticarsi per ogni via a stornarlo, di trovare, oltre l'arduità della cosa, ostacoli da ogni parte nelle volontà, e di essere insieme bersaglio delle grida, aver voce di nemici della patria:pro patriae hostibus, dice il Ripamonti. A parte dell'odio erano ancora gli altri medici che, convinti com'essi della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare altrui la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di corrività e di ostinazione: pei più, ell'era evidente mente impostura, cabala ordita, per far bottega sul publico spavento. Il protofisico Ludovico Settala, pressochè ottuagenario, stato professore di medicina nella università di Pavia, poi di filosofia morale in Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre di altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e pel rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza si aggiungeva quella della vita, e alla ammirazione la benevolenza, per la sua grande carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima inspirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover'uomo partecipava dei pregiudizii più comuni e più funesti de' suoi contemporanei: era innanzi a loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l'autorità acquistata per altre vie. Eppure quella grandissima ch'egli godeva, non solo non bastò a vincere l'opinione dell'universale in questo affare della pestilenza; ma non potè salvarlo dall'animosità e dagli insulti di quella parte di esso che corre più facilmente dai giudizii alle dimostrazioni e al far di fatto. Un giorno ch'egli andava in lettiga a veder suoi malati, cominciò a farglisi gente attorno, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste, lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar faccenda ai medici. La folla e la furia andavano crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa amica, che per sorte era vicina. Questo gli toccò, per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far martoriare, tanagliare, e ardere per istrega una povera infelice sventurata, perchè un padrone di essa pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta presso l'universale nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito. Ma sul finire del marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a spesseggiare le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle divise funeste di lividori e di buboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun precedente indizio di malattia. I medici opposti alla opinione del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevano deriso, e dovendo pur dare un nome generico al nuovo malore, divenuto troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferìa di parole, e che pur faceva gran danno; perchè, mostrando di riconoscere la verità, riusciva ancora a far discredere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male si appigliava per via di contatto. I magistrati, come chi si risente da un alto sonno, principiarono a dare un po' più orecchio ai richiami, alle proposte della Sanità, a tener mano a' suoi editti, ai sequestri ordinati, alle quarantene prescritte da quel tribunale. Domandava esso anche di continuo danari, per supplire alle spese quotidiane, crescenti del lazzeretto, di tanti altri servigi; e li domandava ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese incumbessero alla città, o all'erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore che era andato di nuovo a metter l'assedio a quel povero Casale, faceva istanza il senato, perchè avvisassero al modo di vettovagliare la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica degli altri paesi; perchè trovasser mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui erano mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari, per via di prestiti, d'imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po' alla Sanità, un po' ai poveri; un po' di grano comperavano; supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancora venute. Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un'altra ardua impresa quella di assicurare il servigio e la subordinazione, di far serbare le separazioni prescritte, di mantenervi in somma, o per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: chè, fino dai primi momenti, v'era stato ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la incuria e per la connivenza degli uficiali. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove dar del capo, pensarono di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario, come lo chiamavano, della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco innanzi, volesse dar loro un soggetto abile a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro per principale un padre Felice Casati, uomo d'età matura, il quale godeva una gran fama di carità, di attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d'animo, a quel che mostrò il seguito, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli ancor giovane, ma grave e severo, di pensieri come d'aspetto. Furono accettati ben di buon grado; e ai 30 di marzo entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse attorno, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gli uficiali d'ogni ordine, dichiarò innanzi a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. A misura poi che la miserevole raunanza andò moltiplicando, v'accorsero altri cappuccini; e furono quivi soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, pei portici, per le stanze, pel campo, talvolta portando un'asta, talvolta non armato che di cilicio; animava e regolava i servigi, acchetava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lagrime. Contrasse in sul principio la peste; ne guarì, e riprese, con nuova alacrità, le cure di prima. I suoi confratelli vi lasciarono la più parte, e tutti gioiosamente, la vita. Certo una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi: e quando non ne sapessimo altro, basterebbe questo per argomento, anzi per saggio d'una società ben rozza e malcomposta. Ma l'animo, ma l'opera, ma il sacrificio di quei frati, non meritano però meno che se ne faccia menzione, con rispetto, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che si sente, come in solido, pei grandi servigi renduti da uomini ad uomini. Morire per far del bene, e cosa bella e sapiente, in qualunque tempo, in qualunque ordine di cose. «Che se questi Padri iui non si ritrouauano,» dice il Tadino, «al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoichè fu cosa miracolosa l'hauer questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazaretto tante migliaia de poueri.» Anche nel publico, quella caparbieria del negare la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, a misura che il morbo si diffondeva, e si diffondeva, a occhi veggenti, per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto soltanto fra i poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E fra queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso una espressa menzione il protofisico Ludovico Settala. Avranno detto almeno: il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, egli, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Egli e uno de' figliuoli ne uscirono salvi; il resto morì. «Questi casi,» dice il Tadino, «occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria comminciò stringere le labra, chiudere li denti, et marcare le ciglia.» Ma i rivolgimenti, ma le riprese, ma le vendette, per dir così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali, da far desiderare ch'ella fosse rimasta intera e invitta, fino all'ultimo, contro la ragione e l'evidenza: e questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente e così a lungo che esistesse presso a loro, fra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a quei mezzi (che sarebbe stato confessare ad un tempo un grande inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarne qualche altra causa, a far buona qualunque ne venisse messa in campo. Sventuratamente ve n'era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d'Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per via di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali o somiglianti erano state supposte e credute in molte altre pestilenze; e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. Si aggiunga che, fino dall'anno antecedente, era venuto un dispaccio, soscritto dal re Filippo IV, al governatore, in cui gli si dava avviso, essere scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse egli all'erta, se mai coloro fossero capitati aMilano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; nè per allora, pare che vi si badasse più che tanto. Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti di quell'avviso potè servire di conferma o di appiglio al sospetto indeterminato d'una frode scelerata; potè anche essere la prima occasione di farlo nascere. Ma due fatti, l'uno di cieca e indisciplinata paura, l'altro di non so quale sciaurataggine, furono quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d'un attentato possibile, in sospetto, e presso a molti in certezza, d'un attentato positivo e d'una trama reale. Alcuni, ai quali era paruto di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazii assegnati ai due sessi, fecero nella notte portar fuori della chiesa l'assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità accorso a visita con quattro persone dell'uficio, visitato l'assito, le panche, le pile dell'acqua benedetta, e non trovando cosa che potesse confermare l'ignorante sospetto d'un attentato venefico, avesse, per compiacere alle immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, pronunziato, bastar che si facesse una lavatura all'assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grande impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così di leggieri un argomento. Si disse e si credè generalmente esser state unte in duomo tutte le panche, le pareti, fino alle corde delle campane. Nè si disse soltanto allora allora: tutte le memorie di contemporanei (alcune scritte dopo molt'anni) che parlano di quel fatto, ne parlano con eguale asseveranza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se la non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore, che si conserva nell'archivio detto di san Fedele; dalla quale l'abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiamo poste in corsivo. La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de' cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti intrise, infardate di non so che sudicerìa, giallognola, biancastra, sparsavi come con ispugne. O sia stata una vaghezza ribalda di vedere un più clamoroso e più generale spaurimento, o sia stato un più reo disegno di aumentare la publica confusione, o che che altro; la cosa è attestata di maniera che ci parrebbe men ragionevole l'attribuirla ad un sogno delle fantasie, che al fatto d'una tristizia, non nuova del resto nei cervelli umani, nè scarsa pur troppo d'effetti consimili, in ogni luogo, per così dire, e in ogni età. Il Ripamonti, che spesso in questo particolare delle unzioni deride, e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma di aver veduto quell'impiastramento, e lo descrive.Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontano la cosa nei medesimi termini; parlano di visite, di esperimenti fatti con quella materia sopra cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, credere eglino che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d'animo bastante per non vedere ciò che non vi fosse stato. Le altre memorie contemporanee, senza contare la loro testimonianza per la verità del fatto, accennano pure insieme, essere stata in sulle prime opinione di molti, che quell'impiastricciamento fosse fatto per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che lo negasse; e ne avrebbero parlato certamente, se ve ne fosse stati, se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto cosa non fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d'un celebre delirio; perchè, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile ad osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno tenuta, le apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti e dominarle. La città già commossa ne fu sossopra: i padroni delle case, con paglie accese, abbruciacchiavano gli spazii unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e facili allora ad esser riconosciuti all'abito, venivano arrestati nelle vie dal popolo, e consegnati alle carceri. Si fecero interrogatorii, esami di arrestati, di arrestatori, di testimonii; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, di ponderare, d'intendere. Il tribunale della sanità publicò una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiaro l'autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci conueniente, dicono que' signori nella citata lettera, che porta la data del 21 maggio, ma che fu evidentemente scritta ai 19, giorno segnato nella grida a stampa, che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida, etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e tranquillante congettura che partecipavano al governatore: reticenza che accusa ad un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più rea, quanto più poteva essere perniciosa. Mentre il tribunale cercava, molti nel publico, come accade, avevano già trovato. Coloro che credevano esser quella una unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez di Cordova, per gl'insulti ricevuti nel suo partire, chi una pensata del cardinale di Richelieu, per disertar Milano e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali motivi, ne voleva autore il conte di Collalto, Walleinstein, questo, quell'altro gentiluomo milanese. Non mancava, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che una malvagia corbellatura, e l'attribuivano a scolari, a signori, ad ufìciali che si annoiassero all'assedio di Casale. Il non veder poi, come per avventura s'era temuto, che ne seguisse a dirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s'andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse posta in non cale. V'era del resto un certo numero di persone non ancora persuase che peste vi fosse. E perchè, tanto nel lazzeretto, che per la città, alcuni pur ne guarivano, «si diceua,» (gli ultimi argomenti d'una opinione battuta dall'evidenza sono sempre curiosi a sapersi) «si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perchè tutti sarebbero morti.»Per togliere ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità uno spediente congenere al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In uno de' giorni festivi della Pentecoste, usavano i cittadini concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di porta orientale, a pregare pei morti dell'altro contagio, dei quali i corpi erano quivi sepolti; e, pigliando dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, v'andavano ognuno nella gala che potesse maggiore. Era in quel giorno morta di peste, fra gli altri, una intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso, per mezzo alle carrozze, ai cavalcatori, ai passeggianti, i cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, tratti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi; affinchè la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto, il brutto suggello della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, si levava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato, un altro mormorio lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto ella s'andava ogni dì più acquistando fede da sè; e quella riunione medesima non dovè servir poco a propagarla. Da prima adunque, non peste, assolutamente no, in nessun modo: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea si ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste appunto appunto, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio e senza contrasto: ma già vi s'è appiccata un'altra idea, l'idea del veneficio e del maleficio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. Non fa, credo, bisogno d'esser molto versato nella storia delle idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d'una tal sorta e d'una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessorii d'un tal genere. Si potrebbe però, nelle cose grandi e nelle picciole, evitare in gran parte quel corso così lungo e così torto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, di osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più agevole di tutte quelle altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire. Divenendo sempre più difficile il supplire alle esigenze dolorose della circostanza, era stato, ai 4 di maggio, preso nel consiglio dei decurioni, di ricorrere, per aiuto e per mercede, al governatore; e, ai 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, l'erario esausto e indebitato, le rendite future impegnate, le imposte correnti non pagate, per l'impoverimento generale prodotto da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevano essere a carico del fisco: in quella del 1576, avere il governatore marchese di Ayamonte, non pur sospese tutte le imposizioni camerali, ma sovvenuta la città di quaranta mila scudi della stessa Camera; domandassero finalmente quattro cose: che le imposizioni fossero, come già allora, sospese; la Camera desse danari; desse il governatore parte al re, delle miserie della città e della provincia; scusasse da nuovi alloggiamenti militari il ducato, già consumato e distrutto dai passati. Lo Spinola diede in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dolergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di quei signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d'ingegnarsi in ogni maniera: quanto alle domande espresse, avrebbe proveduto nel miglior modo che il tempo e le necessità presenti avessero conceduto. Nè altro ne fu: v'ebbe bene nuove andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni. Più tardi, nel maggior fervore della pestilenza, il governatore stimò di trasferire con lettere patenti la sua autorità nel gran cancelliere Ferrer, avendo egli, come scrisse, da attendere alla guerra. Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un'altra: di domandare al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di San Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli spiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cangiasse in iscandalo.Temeva di più, che, se pur c'era di questi untori, la processione fosse una troppo comoda occasione al delitto: se non ce n'era, un tanto adunamento per sè non poteva che spandere sempre più il contagio: pericolo ben più reale.Chè il sospetto sopito delle unzioni s'era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima. S'era di nuovo veduto, o questa volta era paruto di vedere, unte muraglie, porte di edifìzii publici, usci di case, martelli. Le novelle di tali scoperte volavano di bocca in bocca; e, come più del solito accade nelle grandi preoccupazioni, l'udire faceva l'effetto che avrebbe potuto fare il vedere. Gli animi, ognor più amareggiati dalla presenza dei mali, irritati dalla insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: chè l'ira agogna a punire, e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un valentuomo, ama meglio di attribuire i mali ad una nequizia umana, contra cui possa sfogare la sua tormentosa attività, che riconoscerli da una causa, colla quale non vi sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, erano parole più che bastanti a spiegare la violenza, tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto quel veleno, di rospi, di serpenti, di sanie e di bava d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e perverse fantasie sapessero trovar di sozzo o di atroce. Vi si aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si risolveva ogni difficoltà. Se gli effetti non avevan tenuto dietro immediatamente a quella prima unzione, se ne vedeva il perchè; era stato un tentativo manchevole di venefici ancor novizii: ora l'arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell'infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora che l'era stata una burla, chi avesse negata l'esistenza d'una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero l'accorgimento publico, di complice, di untore: il vocabolo fu bentosto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che untori vi fosse, se ne doveva scoprire, presso che infallibilmente: tutti gli occhi erano sull'avviso; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva di leggieri certezza, la certezza furore. Due esempii ne riferisce il Ripamonti, avvertendo di averli trascelti, non come i più fieri, fra tanti che avvenivano alla giornata; ma perchè d'entrambi poteva pur troppo parlar di veduta.Nella chiesa di sant'Antonio, in un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato ginocchioni, volle sedersi; e prima, colla cappa spolverò la panca. «Quel vecchio ugne le panche!» sclamarono ad una voce alcune donne che vider l'atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio: gli stracciano i bianchi capelli, lo pestan di pugni e di calci, lo strascinano fuori semivivo, per trarlo alla prigione, ai giudici, alle torture. «Io lo vidi strascinato a quel modo,» dice il Ripamonti: «nè seppi altro della fine: ben credo che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento.» L'altro caso, e seguì il domani, fu egualmente strano, ma non egualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l'Italia, per farvi studio delle antichità, e per cercarvi occasione di guadagno, s'erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavano quivi contemplando attentamente. Uno, due, alcuni passeggieri, si fermarono; si fe' un crocchio, pure a contemplare, a tener d'occhio coloro, che l'abito, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel che era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch'egli era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono involti, afferrati, malmenati, spinti a furia di percosse alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco discosto dal duomo; e per una sorte ancor più felice, furono trovati innocenti, e rilasciati. Nè di tali cose accadeva soltanto nella città: la frenesia s'era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da contadini fuor della strada maestra, o che in quella, fosse veduto rallentarsi baloccando, o starsi sdraiato a riposo; lo sconosciuto, a cui si trovasse qualche cosa di strano, di malfidato, nel volto, negli abiti, erano untori: al primo avviso d'un chi che fosse, al grido di un ragazzo, si sonava a martello, si accorreva; gl'infelici erano tempestati di pietre, o presi, venivano menati a furore in prigione. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento. Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavano replicando le loro istanze, che il voto publico assecondava romorosamente. Persistette quegli ancor qualche tempo, cercò di dissuadere: tanto e non più potè il senno d'un uomo contro la ragione dei tempi, e l'insistenza di molti. In quello stato di opinioni, colla idea del pericolo, confusa, com'ella era in quel tempo, contrastata, ben lontana dall'evidenza che noi vi sentiamo, non si fa duro ad intendere, come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive altrui. Se poi, nel cedere ch'egli fece, avesse o non avesse nessuna parte una debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa attribuire in tutto l'errore all'intelletto, e scusarne la coscienza, egli è quando si tratti dei pochi (e questi fu ben del numero), nella vita intera de' quali appaia un obedir risoluto alla coscienza, senza riguardo ad interessi temporali di nessun genere. Al replicar delle istanze, cedette egli dunque, acconsentì la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che l'arca dove posavano le reliquie di San Carlo, rimanesse di poi esposta, per otto giorni, al concorso publico sull'altar maggiore del duomo. Non trovo che il tribunale della sanità, nè altri, facesse opposizione, nè rimostranza di sorta. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni, che, senza ovviare al pericolo, ne indicavano il sentimento. Diede più strette regole, sul lasciare entrar persone in città; e, per assicurarne l'esecuzione, fe' star chiuse le porte: come pure, affine di escludere al possibile dalla raunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in tali faccende, la nuda asserzione d'uno scrittore, e d'uno scrittore di quel tempo, erano intorno a cinquecento. Tre giorni furono spesi in preparamenti: l'undici di giugno, che era il destinato, la processione si mosse, in sull'alba, dal duomo. Andava innanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampii zendadi, molte scalze e vestite di sacco. Venivano poi le arti, precedute dai loro confaloni, le confraternite, in abiti varii di fogge e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno colle insegne del grado, e portando un cero acceso. Nel mezzo, tra il chiarore di più spesse faci, tra un romor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, procedeva l'arca, sostenuta a vicenda da quattro canonici, parati in gran pompa. Dai lati di cristallo, traspariva il venerato cadavere, ravvolte le membra di splendidi abiti pontificali, mitrato il teschio; e tra le forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell'antico sembiante, quale lo rappresentano le immagini, quale alcuni si ricordavano di averlo veduto e onorato vivente. Dietro alla spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti,da cui principalmente togliamo questa descrizione), e prossimo a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche della persona, veniva l'arcivescovo Federigo. Seguiva l'altra parte del clero, e appresso i magistrati, nelle assise di maggior cerimonia; poi i nobili quali sfarzosamente abbigliati, come a dimostrazione solenne di culto, quali, per segno di penitenza, in abito di corruccio, o a piè nudo, coperti di sacco, coi cappucci arrovesciati sul volto; tutti con grandi torce. Finalmente una coda d'altro popolo misto. Tutta la strada era addobbata a festa; i ricchi avevan cavate fuora le suppellettili più sfarzose; le fronti delle case povere erano state ornate da vicini benestanti, o del publico; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, erano rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; sui davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, arredi preziosi; da per tutto fiaccole. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati miravano la pompa, e mescevano le loro preci a quelle de' passeggieri. Le altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, porgevan l'orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e fra questi si videro fin monache, eran saliti sui tetti, se di quivi potessero veder da lontano quell'arca, il corteggio, qualche cosa. La processione passò per tutti i quartieri della città: ad ognuno de' crocicchi, o delle piazzette che sono allo sbocco delle vie principali nei borghi, e che allora serbavano l'antico nome di carrobii, ora rimasto ad un solo, si faceva una fermata, posando l'arca presso alla croce, che in ognuno era stata eretta da San Carlo, nella pestilenza antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piede: tanto che non si tornò al duomo, se non ben oltre il mezzo giorno. Ed ecco che, il dì seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a una dismisura tale, con un salto così subitaneo, che non v'ebbe quasi chi non ne vedesse la causa o l'occasione nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al tanto e così prolungato stivamento delle persone, non alla infinita moltiplicazione dei contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; lo attribuivano alla facilità che gli untori vi avessero trovata di eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettate col loro unguento quante più persone fosse lor venuto fatto. Ma, come questo non sembrava mezzo bastante nè appropriato, ad una mortalità così vasta e così diffusa in ogni ordine; come, a quel che pare, non era stato possibile, nè anche all'occhio così attento e pur così travedente del sospetto, scernere untumi, macchie di sorta in sul passaggio; si ricorse, per la spiegazione del fatto, a quell'altro trovato già vecchio e ricevuto allora nella scienza comune d'Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse pel lungo della via e principalmente ai luoghi delle pose, si fossero attaccate agli strascichi delle vesti, e meglio ai piedi, che in gran numero erano quel dì andati in volta scalzi. «Vide pertanto» dice uno scrittore contemporaneo,«l'istesso giorno della processione la pietà cozzar con l'empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l'acquisto.» Ed era in quella vece il povero senno umano che cozzava coi fantasmi creati da sè. Da quel dì, la furia del contagio andò sempre crescendo: in breve non v'ebbe quasi più casa che non fosse tocca; in breve la popolazione del lazzeretto, al dire del Somaglia citato di sopra, montò dalle due alle dodici migliaia: in progresso, al dir di quasi tutti, giunse fino alle sedici. Ai 4 di luglio, come trovo in un'altra lettera de' conservatori della sanità al governatore, la mortalità quotidiana oltrepassava i cinque cento. Più innanzi e nel colmo, arrivò e stette, secondo il computo più comune, ai mille dugento, mille cinquecento: se vogliam credere al Tadino,andò qualche volta al di là dei tre mila cinquecento. Si pensi ora quali dovessero esser le angustie dei decurioni, addosso a cui era rimasto il peso di provedere alle publiche necessità, di riparare a ciò che v'era di riparabile in un tale disastro. Bisognava ogni dì surrogare, ogni dì aumentare serventi publici di molte specie: monatti; così, con denominazione già antica qui e d'oscura origine, si disegnavano gli addetti ai più penosi e pericolosi servigi della pestilenza, togliere dalle case, dalle vie, dal lazzeretto i cadaveri, carreggiarli alle fosse e sotterrarli, portare o guidare al lazzeretto gl'infermi, governarli quivi, ardere, purgare le robe infette e sospette: apparitori, il cui uficio speciale era di precedere i carri, avvertendo col suono d'un campanello i passeggieri, che si ritraessero commissarii, che regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto, di medici, di chirurghi, di medicinali, di vitto, dei tanti attrezzi di un'infermeria; bisognava trovare e approntar nuovo alloggio ai nuovi bisogni. Si fecero a ciò costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; un nuovo ne fu costruito, pur di capanne, con una chiusura di tavole, capace di quattro mila persone. E non bastando, due altri ne furono decretati; vi si pose anche mano; ma, per mancanza di mezzi d'ogni genere, rimasero incompiuti. I mezzi, le persone, il coraggio, venivano meno, a misura che il bisogno cresceva. E non solo l'esecuzione restava sempre addietro dei progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provedeva scarsamente, anche in parole; si venne a questo d'impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si dava provedimento di sorta. Morivano, per esempio, d'abbandono una gran quantità di bambini, a cui erano morte le madri di pestilenza: la Sanità propose che s'istituisse un ricovero, per questi e per le partorienti necessitose, che qual che cosa si facesse per loro; e non potè nulla ottenere. «Si doueua non di meno,» dice il Tadino, «compatire ancora alii Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola et rispetto alcuno, come molto meno nell'infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, nè prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati.»Tanto importava il prender Casale! Tanto pareva bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combattesse! Così pure, trovandosi colma di cadaveri un'ampia, ma unica fossa, ch'era stata scavata presso al lazzeretto; e rimanendo, quivi, per ogni dove, insepolti i nuovi cadaveri che ogni giornata dava in maggior copia, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia al tristo lavoro, s'erano ridotti a dire di non saper più a che mezzo appigliarsi. Nè si vede che uscita la cosa potesse avere, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ne domandò, per disperato, colle lagrime agli occhi, a quei due valenti frati che stavano a governo del lazzeretto; e il padre Michele s'impegnò a dargli, in capo a quattro dì, sgombra di cadaveri la città; in capo ad otto, fosse bastevoli non solo all'uopo presente, ma a quello che l'antiveder più sinistro potesse supporre nell'avvenire. Con un frate compagno, e con unciali datigli a ciò dal presidente, andò, fuori della città, alla cerca di contadini; e, parte coll'autorità del tribunale, parte con quella dell'abito e delle sue parole, ne raccolse da dugento, e gli scompartì in tre disgiunti luoghi allo scavamento; spedì poi dal lazzeretto monatti, a raccorre i morti; tanto che, al dì prefìsso, la sua promessa si trovò adempiuta. Una volta, il lazzeretto rimase destituito di medici; e, con offerte di larghi stipendii e di onori, a fatica e non così subito, se ne potè avere, e troppo al di qua del bisogno. Fu spesso in estremo di vettovaglie, a segno di temere che si avesse a morirvi anche d'inedia; e più d'una volta, mentre si tentava ogni via di far derrate o danaro, sperando appena di trovarne, non che di trovarne affatto a tempo, vennero a tempo abbondanti sussidii, per inaspettato dono di misericordia privata: chè, in mezzo alla stupefazione comune, alla indifferenza per altrui, venuta dal continuo temer per sè, v'ebbe animi sempre desti alla carità, ve n'ebbe altri in cui la carità nacque al cessare d'ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti, a cui toccava di soprintendere e di provedere, alcuni ve n'ebbe, sani sempre di corpo e saldi di coraggio al loro posto: v'ebbe pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero prodemente le cure a cui non erano chiamati per uficio. Dove rifulse una più generale e più volonterosa fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non venne mai meno la loro assistenza: dove si pativa, v'era di essi; sempre si videro mischiati, interfusi ai languenti, ai moribondi, languenti e moribondi talvolta essi medesimi: coi soccorsi spirituali erano prodighi, quanto potevano, di temporali; prestavano qualunque servigio fosse del caso. Più di sessanta parochi, della città solamente, morirono di contagio: dei nove gli otto, all'incirca. Federigo dava a tutti, com'era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Peritagli intorno quasi tutta la sua famiglia arcivescovale, sollecitato da parenti, da alti magistrati, da principi circonvicini, perchè si ritraesse dal pericolo in qualche villa solitaria, rigettò il consiglio e le istanze, con quell'animo, con cui scriveva ai parochi: «siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliuolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come ad una vita, come ad un premio, quando vi sia da guadagnare un'anima a Cristo.»Non trasandò alcuna delle cautele che non lo impedissero dal dovere: sul che diede anche istruzioni e regole al clero: e insieme, non curò, nè parve avvertire il pericolo dove, a far del bene, bisognasse passar per esso. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre, per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare qual di loro andasse freddo nell'opera, per mandarli ai posti dove altri era perito, volle che l'adito fosse aperto a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dare consolazione agli infermi e incoraggiamento agli assistenti; scorreva la città, portando soccorsi ai poverelli sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro rammarichi, a porgere in iscambio parole di consolazione e, di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anch'egli alla fine, d'esserne uscito illeso. Così, negli infortunii publici e nelle lunghe perturbazioni di quel quale ch'ei si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d'ordinario ben più generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I ribaldi che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusione comune, nel rilasciamento d'ogni forza publica, una nuova occasione di attività, e una nuova sicurezza d'impunità ad un tempo. Che anzi, l'uso della forza publica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani dei peggiori fra loro. All'impiego di monatti e di apparitori non si adattavano generalmente che uomini sui quali l'attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terrore del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro poste strettissime regole, intimate severissime pene, assegnate stazioni, sovrapposti, come abbiam detto, commissarii: sopra questi e quelli, eran delegati magistrati e nobili in ogni quartiere, coll'autorità di proveder sommariamente ad ogni occorrenza di buon governo. Un tale ordinamento camminò e fece effetto, fino ad un certo tempo: ma, col crescere delle morti e dello sbandamento, dello sbalordimento di chi sopravviveva, venner coloro ad essere come franchi d'ogni sopravveglianza; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d'ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici, nelle case; e, senza parlare del saccheggio, del come trattavano gl'infelici ridotti dalla peste a passar per siffatte mani, le ponevano, quelle mani infette e scelerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati a prezzo. Altre volte, mettevano a prezzo il servigio, ricusando di levare i cadaveri già infraciditi, a meno di tanti scudi. Si tenne (e tra la corrività degli uni e la nequizia degli altri, è egualmente malsicuro il credere e il discredere) si tenne, e il Tadino lo afferma,che monatti e apparitori lasciassero a bello studio cader dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un'entrata, un regno, una festa. Altri sciaurati, dandosi per monatti, portando campanelle attaccate ai piedi, com'era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s'intromettevano nelle case, ad esercitarvi ogni arbitrio. In alcune, aperte e vôte d'abitatori, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravano ladri a man salva, a far bottino; altre venivano sorprese, invase da birri, che vi commettevano ruberie, eccessi d'ogni sorta. A paro colla perversità, crebbe l'insania: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dalla attonitaggine e dalla agitazione delle menti, una forza straordinaria, ebbero più vaste e più precipitose applicazioni. E tutti servirono a rinforzare e ad ingrandire quella insania speciale delle unzioni, la quale, ne' suoi effetti, ne' suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un'altra perversità. L'immagine di quel supposto pericolo assediava e martoriava gli animi, più assai che il pericolo reale e presente. «E mentre,» dice il Ripamonti, «i cadaveri sparsi o i mucchi di cadaveri, sempre dinanzi agli occhi, sempre fra i passi dei viventi, facevano della città tutta, come un solo funerale; qualche cosa d'ancor più funesto, una maggiore publica deformità era quell'accanimento vicendevole, la sfrenatezza, la mostruosità dei sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell'amico, dell'ospite; ma quei nomi, quei vincoli della umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, erano di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, ome nascondigli di veneficio.» La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavano tutti i giudizii, alteravano tutte le ragioni della fiducia reciproca. Oltre l'ambizione e la cupidigia, che da prima eran supposte per motivo degli untori, si sognò, si credette in progresso una non so quale voluttà diabolica in quell'ungere, una attrattiva dominatrice delle volontà. I vaneggiamenti degli infermi, che accusavano sè stessi di ciò che avevano temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d'ognuno. E più delle parole, dovevano far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati deliranti andassero facendo di quegli atti, che s'erano figurati dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile e atta a dar miglior ragione della persuasione generale e delle affermazioni di molti scrittori. Allo stesso modo, nel lungo e tristo periodo delle inquisizioni giudiziarie per affari di stregheria, le confessioni, non sempre estorte, degl'imputati, servirono non poco a promuovere e a mantenere l'opinione che regnava intorno ad essa: chè, quando una opinione ottiene un vasto e lungo regno, ella si esprime in tutti i modi, tenta tutte le uscite, scorre per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla. Fra le storie che quel delirio delle unzioni produsse, una merita d'essere menzionata, pel credito che acquistò e pel giro che fece. Si raccontava, non da tutti a un modo (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un dipresso, che un tale, il tal dì, aveva veduto fermarsi sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con un gran seguito, un gran personaggio, d'aspetto signorile, ma fosco e abbronzato, cogli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Lo spettatore, invitato a salire nel cocchio, v'era salito: dopo un po' d'aggirata, s'era fatto alto e smontato alla porta d'un palazzo, dov'egli, entrato cogli altri, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente gli erano state mostrate grandi casse di danaro, e detto che ne pigliasse quanto gli fosse in piacere, se insieme voleva accettare un vasello d'unguento, e andar con quello ugnendo per la città. Il che avendo egli ricusato di fare, s'era trovato in un istante al luogo donde era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente nel popolo e, al dire del Ripamonti, non abbastanza derisa da molti savii,corse per tutta Italia e fuori: in Germania se ne fece un disegno in istampa: l'elettore arcivescovo di Magonza chiese per lettera al cardinal Federigo, che cosa si dovesse credere dei portenti che si narravano di Milano, e n'ebbe in risposta ch'erano sogni. D'egual valore, se non in tutto d'egual natura, erano i sogni dei dotti; come disastrosi del pari ne erano gli effetti. Vedevano i più di loro l'annunzio e la ragione insieme dei guai, in una cometa apparsa l'anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove; «inclinando,» scrive il Tadino, «la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur.»Questa predizione, fabbricata non so poi quando nè da chi, correva, come accenna il Ripamonti,per tutte le bocche che appena fossero abili a proferirla. Un'altra cometa sopravvenuta nel giugno dell'anno stesso della pestilenza, si tenne per un nuovo avviso, anzi per una prova manifesta delle unzioni. Pescavano nei libri, e pur troppo ne rinvenivano in copia, esempii di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno narrati o toccati fatti simiglianti: di moderni ne avevano ancor più dovizia. Citavano cento altri autori, che hanno trattato dottrinalmente, o parlato per incidenza, di veleni, di malìe, d'unti, di polveri; il Cesalpino citavano, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebbe essere uno de' più famosi; quel Delrio, le cui veglie costarono la vita a più uomini che non le imprese di qualche conquistatore; quel Delrio, le cui Disquisizioni magiche (lo stillato di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a' suoi tempi, farneticato in quella materia) divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per oltre un secolo, norma ed impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine. Dai trovati del volgo illetterato, la gente colta pigliava ciò che si poteva acconciar colle sue idee; dai trovati della gente colta, il volgo pigliava ciò che ne poteva intendere, e al modo che lo poteva; e di tutto si formava una indigesta, immane congerie di publica forsennatezza. Ma ciò che dà maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fino da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino che l'aveva pronosticata, veduta entrare, tenuta d'occhio, per dir così, nel suo progresso, che aveva detto e predicato come ella era peste e si appiccava pel contatto, come dal non porvi riparo ne sarebbe venuta una infezione generale, vederlo poi, da questi effetti medesimi, cavare argomento certo delle unzioni venefìche e malefiche; lui che, in quel Carlo Colonna, morto il secondo di peste in Milano, aveva notato il delirio, come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova delle unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorta: che due testimonii deponevano di avere udito un loro amico infermo, raccontare come, una notte, gli erano venute persone in camera, ad offerirgli la salute e danari, se avesse voluto ugnere le case del contorno; e come, al suo replicato disdire, quelli erano partiti, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattacci sopra, «che sino al far del giorno vi dimororno.»Se un tal modo di connettere fosse stato d'un sol uomo, si vorrebbe attribuirlo a una sua grossezza, a una sua sbadataggine particolare; e non vi sarebbe un proposito di farne menzione; ma, come fu di molti, è storia dello spirito umano; e vi è da scorgere, quanto una serie ordinata e ragionevole d'idee possa essere scompaginata da un'altra serie d'idee, che vi si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo. Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigondubitasse del fatto delle unzioni.Noi vorremmo poter dare a quell'inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tante altre cose, singolare dalla folla de' suoi contemporanei; ma siamo in quella vece costretti di notar di nuovo in lui un esemplo della prepotenza d'una opinione comune anche sulle menti più nobili. S'è veduto, almeno dal modo con cui il Ripamonti riferisce i suoi pensieri, come da principio egli stesse veramente in dubbio: tenne poi sempre che in quella opinione avesse gran parte la corrività, l'ignoranza, la paura, il desiderio di scusare la lunga trascuranza nel guardarsi dal contagio; che molto vi fosse di esagerato; ma insieme, che qualche cosa vi fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva, scritta di sua mano, un'operetta intorno a quella peste; ed ecco uno di molti luoghi dove è espresso un tale suo sentimento. «Del modo di comporre e di spargere siffatti unguenti si dicevano molte e varie cose: delle quali, alcune abbiamo per vere, altre ci paiono affatto imaginarie.» V’ebbe però di quelli che pensarono fino alla fine, e sempre poi, che tutto fosse imaginazioni: e lo sappiamo, non da loro, chè nessuno fu abbastanza ardito per esporre al publico un sentimento così opposto a quello del publico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo confutano, come un pregiudizio d'alcuni, un errore che non s'attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi lo aveva ricavato dalla tradizione. «Ho trovato gente savia in Milano,» dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, «che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi.» Si vede ch'egli era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica il buon senso v'era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. I magistrati, diradati ogni giorno, smarriti e confusi in ogni cosa, tutta, per dir così, quella poca vigilanza, quella poca risoluzione di che erano capaci, la rivolgevano a cercar di questi untori. E pur troppo credettero di averne trovati. I giudizii che ne vennero in conseguenza, non erano certamente i primi d'un tal genere: nè pure si può considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Chè, per tacere dell'antichità, e accennar solo qualche cosa dei tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casale Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599; in Palermo, del 1526; in Torino di nuovo, in quello stesso anno 1630, furono processati e condannati a supplizii, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d'aver propagata la peste, con polveri o con unguenti o con malìe o con tutto insieme. Ma l'affare delle così dette unzioni di Milano, come fu quello forse di cui il grido andò più lontano e durò più a lungo, così fors'anche è di tutti il più osservabile, o, a parlar più esattamente, c'è più campo di farvi sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più distesi. E quantunque uno scrittore lodato poco innanzi se ne sia occupato, tuttavia, essendosi egli proposto, non tanto di darne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto ancor più degno e più importante, ci è paruto che la storia potesse essere materia d'un nuovo lavoro. Ma non è cosa da passarsene così con poche parole; e il trattarla colla estensione che le si conviene, ci porterebbe troppo in lungo. Oltre di che, dopo essersi fermato su quei casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere quei che rimangono della nostra narrazione. Riserbando però ad un altro scritto la narrazione di quelli, torneremo ora finalmente ai nostri personaggi, per non lasciarli più, fìno all'ultimo. Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel cuore della pestilenza, tornava don Rodrigo alla sua casa in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno di tre o quattro, che, di tutta la famiglia, gli erano rimasti vivi. Tornava da un ritrovo d'amici soliti radunarsi a stravizzo, per passare la malinconia del tempo che correva: e ogni volta ve n'era dei nuovi, e ne mancava dei vecchi. Quel giorno, egli era stato uno dei più allegri; e fra le altre cose, aveva fatto ridere assai la compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni innanzi. Camminando però, sentiva una mala voglia, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un'arsura interna, che avrebbe voluto attribuire in tutto al vino, alla veglia, alla stagione. Non fece motto, per tutta la strada; e la prima parola fu, giunti a casa, di ordinare al Griso che gli facesse lume alla stanza. Quando vi furono, il Griso osservò la faccia del padrone travolta, accesa, gli occhi in fuori e lustri lustri; e si tenne discosto: perchè, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto farsi, come si dice, l'occhio medico. «Sto bene, ve',» disse don Rodrigo, che lesse nell'atto del Griso il pensiero che gli passava per la mente. «Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po' troppo. V'era una vernaccia!… Ma, con una buona dormitona, tutto se ne va. Ho addosso un gran sonno… Levami un po' quel lume dinanzi, che mi abbaglia… mi dà una noia…!» «Scherzi della vernaccia,» disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. «Ma si corichi presto; chè il dormire le farà bene.» «Hai ragione: se posso dormire… Del resto, sto bene. Metti qui presso a buon conto quel campanello, se mai sta notte avessi bisogno di qualche cosa: e sta attento, ve', se mai odi sonare. Ma non avrò bisogno di nulla… Porta via presto quel maladetto lume,» riprese poi, intanto che quegli eseguiva l'ordine, avvicinandosi il meno, che fosse possibile. «Diavolo, ch'è mi dia tanto fastidio!» Il Griso tolse il lume, e, augurato la buona notte al padrone, se ne andò in fretta, mentre quegli si cacciava sotto la coltre. Ma la coltre gli parve una montagna. La gittò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva di sonno. Ma, appena chiuso l'occhio, si ridestava in sussulto, come se un dispettoso fosse venuto a dargli uno scrollo; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Si gittava col pensiero all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro la colpa di tutto; ma a queste idee si sostituiva sempre da per sè quella che allora era associata con tutte, che entrava, a dir così, per tutti i sensi, che s'era intromessa in tutti i discorsi dello stravizzo, giacchè era ancora più facile torla in motteggio, che prescinderne: la peste. Dopo un lungo battagliare, s'addormentò finalmente, e cominciò a fare i più scuri e scompigliati sogni del mondo. E d'uno in altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, innanzi innanzi, in mezzo a una calca di popolo; di trovarvisi, chè non sapeva come si fosse cacciato colà, come gliene fosse venuto il pensiero, di quel tempo massimamente; e se ne rodeva in sè stesso. Guardava ai circostanti; erano tutte facce spente, interriate, con occhi attoniti, abbacinati, colle labbra penzoloni; tutta gente con certi abiti che cadevano a brani; e dagli squarci apparivano macchie e buboni. «Largo canaglia!» si figurava egli di gridare, guardando alla porta che era lontano lontano, e accompagnando il grido con atti minacciosi del volto, senza far nessuna mossa però, anzi ristringendosi nella persona, per non toccare quei sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni banda. Ma niuno di quegli insensati pareva muoversi, nè manco avere inteso; anzi gli stavano più addosso: e sopra tutto gli sembrava che qualcuno di coloro, colle gomita o con che che altro, lo premesse al lato sinistro, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa e come pesante. E se si storceva, per cansarsi da quella molestia, subito un nuovo non so che veniva a pontarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle por mano alla spada; e appunto gli parve che, per la stretta, ella gli fosse montata su lungo la vita, e fosse il pome di essa che lo calcasse in quel luogo; ma, cacciandovi la mano, non trovò la spada; e, al suo tocco stesso, sentì una fitta più forte. Strepitava, ansava e voleva gridar più alto; quand'ecco tutte quelle facce rivolgersi ad una parte. Guardò anch'egli colà; scorse un pulpito, e vide dalle sponde di quello spuntar su un non so che convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinto un cocuzzolo calvo, poi due occhi, una faccia, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor delle sponde fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, balenato uno sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in volto a lui, levando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Egli allora levò pure la mano in furia, fe' uno sforzo, come per lanciarsi ad abbrancar quel braccio teso in aria; una voce che gli andava rugghiando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva levato in effetto; penò alquanto a riprender del tutto il sentimento, ad aprir ben gli occhi; chè la luce del dì già alto gli dava noia non meno che avesse fatto quella della candela; riconobbe il suo letto, la sua stanza; comprese che tutto era stato sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era svanito; tutto fuorchè una cosa, quella doglia al lato manco. Insieme si sentiva al cuore un battito accelerato, affannoso, negli orecchi un rombo e uno stridore, un fuoco di dentro, un peso in tutte le membra, peggio di quando s'era posto a letto. Esitò qualche pezza, prima di guardare alla parte dogliosa; finalmente la scoperse, vi gittò un'occhiata, raccapricciando; e scorse un sozzo gavocciolo d'un livido pavonazzo. L'uomo si vide perduto: il terrore della morte lo invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di divenir preda dei monatti, d'esser portato, buttato al lazzeretto. E deliberando sul modo di evitare questa orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e intenebrarsi, sentiva avvicinarsi il momento che gli rimarrebbe sol tanto di coscienza quanto bastasse a disperare. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Ed ecco comparire il Griso, il quale stava all'erta. Si fermò a una certa distanza letto; guatò attentamente il padrone, e fu certo di ciò che la sera aveva congetturato. Griso!» disse don Rodrigo, alzandosi faticosamente a sedere: «tu sei sempre stato il mio fido.» «Signor sì.» «T'ho sempre fatto del bene.» «Per sua grazia.» «Di te mi posso fidare…!» «Sto male, Griso.» «Me n'era accorto.» «Se guarisco, ti farò del bene ancor più che non te ne abbia mai fatto.» Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando, dove andassero a parare questi preamboli «Non voglio fidarmi d'altri che di te,» ripigliò don Rodrigo: «fammi un piacere, Griso.» «Comandi,» disse questi, rispondendo colla formola solita a quella insolita. «Sai tu dove stia di casa il Chiodo chirurgo?» «Lo so benissimo.» «È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Vallo a cercare: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne domanda; e che venga qui subito; e fa la cosa bene, che nessuno se ne avvegga.» «Ben pensato,» disse il Griso. «vo e torno.» «Senti, Griso: dammi prima un po' d'acqua. Mi sento arso, che non ne posso più.» «Signor, no,» rispose il Griso: «niente senza il parere del dottore. Son mali bisbetici: non c'è tempo da perdere. Stia quieto: in un batter d'occhio son qui col Chiodo.» Così detto, uscì, rabbattendo l'uscio. don Rodrigo, accovacciato, lo accompagnava colla fantasia alla casa del Chiodo, noverava i passi, calcolava il tempo. Di tanto in tanto si volgeva a sguardare il suo lato manco; ma ne torceva tosto via la faccia con ribrezzo. Dopo qualche tempo, cominciò a star cogli orecchi levati, se il chirurgo venisse: e quello sforzo d'attenzione sospendeva il senso del male, e teneva in sesto i suoi pensieri. Tutto a un tratto, ode uno squillo lontano, ma che gli sembra venir dalle stanze, non dalla via. Tende vie più gli orecchi; lo ode più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli corre per la mente. Si leva a sedere, e bada ancor più attento; ode un romore sordo nella stanza vicina, come d'un peso che venga posto giù con riguardo: gitta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guata all'uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire innanzi due logori e sudici abiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro una imposta socchiusa, rimane a spiare. «Ah traditore infame!… Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! sono assassinato!» grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale a cercare una pistola; l'afferra, la cava fuori; ma, al primo suo grido, i monatti avevan preso la corsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima ch'egli possa far altro; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo fa raccosciare e lo tien giù, gridando, con un ringhio di rabbia insieme e di scherno: «ah birbone! contra i monatti! contra i ministri del tribunale! contra quelli che fanno le opere della misericordia!» «Tienlo ben saldo, fin che lo portiam via,» disse il compagno, andando verso un forziere. E in quella il Griso entrò, e si pose con colui a forzare la serratura. «Scelerato!» urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all'altro che lo teneva, e divincolandosi tra quel le braccia nerborute. «Lasciatemi ammazzare quel l'infame;» diceva quindi ai monatti, «e poi fate di me quel che volete.» Poi ripigliava a chiamar con alte grida gli altri suoi servitori; ma gli era ben indarno: chè l'abominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima di andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e di divider le spoglie. «Sta quieto, sta quieto,» diceva allo sventurato Rodrigo l'aguzzino che lo teneva appuntellato in sul letto. E volgendo poscia il viso ai due che facevan bottino, gridava loro: «fate le cose da galantuomini!» «Tu! tu!» mugghiava don Rodrigo incontro al Griso, cui vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a spartire. «Tu! Dopo…! Ah diavolo dell'inferno! Posso ancora guarire! posso guarire!» Il Griso non fiatava, nè, per quanto poteva, si volgeva pure al luogo donde venivano quelle parole. «Tienlo ben saldo,» diceva l'altro monatto: «è frenetico.» Il misero lo divenne affatto. Dopo un ultimo e più violento sforzo di grida e di contorcimenti, cadde tutto a un tratto sfinito e istupidito: guardava però ancora, come incantato, e tratto tratto dava qualche crollo, mandava qualche guaio. Il misero lo divenne affatto. Dopo un ultimo e più violento sforzo di grida e di contorcimenti, cadde tutto a un tratto sfinito e istupidito: guardava però ancora, come incantato, e tratto tratto dava qualche crollo, mandava qualche guaio. Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse essere il caso per lui; fece di tutto un fardello, e sfrattò. S'era bensì guardato di non toccar mai i monatti, di non esser tocco da loro; ma in quell'ultima furia del frugare, aveva poi tolti da presso al letto i panni del padrone, e scossili, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. Ebbe però a pensarvi il dì vegnente, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli prese di subito un brivido, gli si annuvolaron gli occhi, gli venner meno le forze; e cascò. Abbandonato dai compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo gittarono sur un carro; sul quale spirò, prima di giugnere al lazzeretto, dov'era stato portato il suo padrone. Lasciando ora questo nel soggiorno de' guai, ci conviene andare in cerca d'un altro, la cui storia non sarebbe mai stata mescolata colla sua, s'egli non l'avesse voluto a marcia forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia, nè l'uno nè l'altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo filatoio, sotto il nome di Antonio Rivolta. V'era stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata l'inimicizia tra la republica e il re di Spagna, e cessata quindi ogni apprensione di mali uficii e d'impegni dalla parte di qui, Bortolo s'era dato premura d'andarlo a levare, e di ripigliarlo con sè, e perchè gli aveva affetto, e perchè Renzo, come intelligente di natura, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo egli, per quel suo non saper maneggiar la penna. Siccome anche questa ragione c'era entrata per qualche cosa, così abbiamo dovuto accennarla. Forse voi amereste meglio un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era così. Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. Più d'una volta e più di due, e specialmente dopo aver ricevuta qualcuna di quelle benedette lettere da parte di Agnese, gli era montato il grillo di andar soldato, e finirla: e le occasioni non mancavano; chè, appunto in quell'intervallo di tempo, la republica aveva più volte avuto bisogno di far gente. La tentazione era talvolta stata per Renzo tanto più forte, che s'era anche parlato d'invadere il milanese; e naturalmente a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei. Ma Bortolo, con buona maniera, aveva sempre saputo torlo giù da quella risoluzione. «Se v'hanno da andare,» gli diceva, «v'andranno anche senza di te, e tu potrai andarvi dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà egli meglio esserne stato fuori? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherà. E, prima che vi mettano i piedi…! Per me, sono eretico: costoro abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è mica un boccone da ingoiarsi così facilmente. Si tratta della Spagna, figliuol caro: sai che negozio è la Spagna? San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene qui?… Capisco quel che mi vuoi dire; ma, se è destinato lassù che la cosa riesca, sii sicuro che, a non far pazzie, riuscirà anche meglio. Qualche santo ti aiuterà. Credi pure che non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciare d'incannar seta, per andare ad ammazzare? Che cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta.» Altre volte Renzo si risolveva di andar di nascosto, travestito e sotto falso nome. Ma anche da questo, Bortolo seppe distorlo ogni volta, con ragioni troppo facili ad indovinarsi. Scoppiata poi la peste nel territorio milanese, e appunto, come abbiam detto, in sul confine col bergamasco, non andò molto che ella vi s'apprese, e… non vi sgomentate, ch'io non son per farvi la storia anche di questa: chi la volesse, la c'è, scritta per ordine publico da un Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de' libri! Quello ch'io voleva dire si è che Renzo contrasse anch'egli la peste, si curò da sè, cioè non fece nulla; ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose e frizzanti nell'animo suo le cure della vita, le brame, le speranze, le memorie, i disegni; vale a dire ch'egli pensò più che mai a Lucia. Che sarebbe di lei, in quel tempo, che il vivere era come una eccezione? E, a così poca distanza, non poterne saper nulla? E durar, Dio sa quanto! in una tale incertezza! E quand'anche questa si fosse poi dissipata, quando cessato ogni pericolo, egli risapesse che Lucia fosse in vita; rimaneva sempre quell'altro nodo, quella scurità del voto.– Andrò io, andrò a sincerarmi di tutto in una volta, – disse tra sè, e lo disse prima d'essere ancora a termine di reggersi in piedi. – Purchè sia viva! Ah ch'ella sia viva! Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei proprio che cosa sia questa promessa, le farò vedere che non può stare, e la conduco via con me, lei, e quella povera Agnese, se è viva!, che m'ha sempre voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora. La cattura? eh! adesso hanno altro da pensare; quei che son vivi. Vanno attorno sicuri, anche qui, di quelli, che ne hanno addosso… Ci ha egli a esser salvocondotto solamente pe' birboni? E a Milano, dicono tutti che l'è ben altra confusione. Se lascio scappare una occasione così buona, – (La peste! Vedete un po' come ci può far talvolta adoperar le parole, quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!) – non ne torna più una simile! – Giova sperare, caro il mio Renzo. Appena potè egli tirarsi attorno, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, era riuscito a scansar la peste e stava riservato. Non gli entrò in casa, ma, datogli una voce dalla via, lo fece venire alla finestra. «Ah ah!» disse Bortolo: «tu l'hai scampata tu. Buon per te!» «Sono ancora un po' male in gambe, come vedi, ma, quanto al pericolo, ne son fuori.» «Eh, che vorrei esser io ne' tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir tutto; ma adesso conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è una bella parola!» Renzo, detto al cugino qualche cosa di buon augurio, gli fece parte della sua risoluzione «Va, questa volta, che il ciel ti benedica,» rispose quegli: «cerca di schivar la giustizia, come io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci vada bene a tutti e due, ci rivedremo.» «Oh, torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero.» «Torna pure accompagnato; che, se Dio vuole, lavoreremo tutti, e ci faremo buona compagnia. Solo che tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo d'influsso!» «Ci rivedremo, ci rivedremo; ci abbiamo da rivedere!» «Torno a dire: Dio voglia!» Per alquanti giorni, Renzo si diede a fare esercizio, onde provare e far tornare le forze; e appena gli parve di poter far la via, si dispose a partire. Si cinse soppanno una cintura, con entro quei cinquanta scudi, che non aveva mai manomessi, e dei quali non aveva fatto confidenza a nessuno, nè anche a Bortolo; tolse alcuni altri pochi quattrini, che aveva risparmiati dì per dì, vivendo sottilmente; prese sotto il braccio un fardelletto di panni; si pose in tasca un benservito, col nome di Antonio Rivolta, che s'era fatto fare a buon conto, dal secondo padrone; in una taschetta delle brache mise un coltellaccio, che era il meno che un galantuomo potesse portare a quei tempi; e si mosse, agli ultimi d'agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzeretto. Prese la via verso Lecco, volendo, prima d'avventurarsi in Milano, passare dal suo paesello, dove sperava di trovare Agnese viva, e di cominciare a saper da lei qualcuna delle tante cose che si struggeva di sapere. I pochi guariti della peste erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell'altra gente languiva o moriva; e quei che erano stati fino allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo sospetto; andavano rattenuti, guardinghi, con passi misurati, con facce adombrate, con fretta ed esitazione insieme: chè tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Queglino, all'opposto, sicuri a un dipresso del fatto loro (giacchè aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano per mezzo alla pestilenza franchi e risoluti; come i cavalieri d'un tratto del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni conciati anch'essi, quanto era fattibile, a quel modo, andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d'erranti) a zonzo e alla ventura, fra una povera marmaglia pedestre di borghesi e di villani, che, per rintuzzare e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato d'economia politica. Con una tale sicurtà, temperata però dalle note sollecitudini, e dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa senza onoranza d'esequie, senza risonanza di canti funebri. Al mezzo circa della giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po' di pane e di companatico che aveva portato con sè. Frutta, ne aveva a sua disposizione lungo tutto il cammino, troppo più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele a volontà; solo che entrasse in una vigna, e stendesse la mano a spiccarne dai rami, o a ricoglier le più mature dalla terra, che n'era coperta al di sotto: chè l'anno era straordinariamente abbondante di pomi d'ogni sorta, e non v'era quasi chi ne tenesse cura: le uve pure nascondevano presso che i pampini, ed erano lasciate in balìa del primo occupante. In sul vespro, scoperse la sua terra. A quella vista, quantunque dovesse esservi preparato, si sentì come dare una picchiata al cuore: fu assalito in un punto da uno stuolo di memorie dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva d'aver negli orecchi quei sinistri tocchi a martello che lo avevano come accompagnato, inseguito nel suo fuggir dal paese; e insieme sentiva, per dir così, un silenzio di morte che vi regnava attualmente. Un turbamento ancor più forte provò allo sboccare in sul sagrato; e di peggio si aspettava al termine del cammino: chè dove egli aveva disegnato d'andare a fermarsi, era a quella casa ch'era stato solito altre volte di chiamar la casa di Lucia. Ora, non poteva essere, tutt'al più che quella d'Agnese; e la sola grazia, ch'egli domandava al cielo era di trovarvela in vita e in salute. E in quella casa si proponeva di chiedere albergo, congetturando bene che la sua non dovesse esser più alloggio che da topi e da faine. Per riuscire adunque colà, senza attraversare il villaggio, prese un viottolo sul di dietro, quello stesso per cui egli era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il curato. Al mezzo circa, v'era anche da una parte la vigna, e dall'altra la casetta di Renzo; sicchè, in passando, egli potrebbe entrare un momento nell'una e nell'altra, a vedere un po' come stesse il fatto suo. Andando, guardava innanzi, ansioso insieme, e timoroso di veder qualcheduno; e, dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, colla schiena appoggiata a una siepe di gelsomini, in una attitudine da insensato: e, a questa, e poi anche alla cera, gli parve di raffigurar quel povero baciocco di Gervaso, ch'era venuto per secondo testimonio, alla sciaurata spedizione. Ma, fattosegli più presso, dovette accertarsi ch'egli era in quella vece quel sì svegliato Tonio, il quale ve l'aveva condotto. Il morbo, togliendogli il vigore del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un picciolo e velato germe di somiglianza ch'egli aveva collo smemorato fratello. «Oh Tonio!» gli disse Renzo, fermandosegli dinanzi: «sei tu?» Tonio gli levò gli occhi in viso, senza muovere il capo. «Tonio! non mi conosci?» «A chi ella tocca, ella tocca,» rispose Tonio, rimanendo poi colla bocca aperta. «A chi ella tocca, ella tocca,» rispose Tonio, rimanendo poi colla bocca aperta. A chi ella tocca, ella tocca,» replicò quegli, con un cotal sorriso sciocco. Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, andò innanzi più contristato. Ed ecco spuntar dalla rivolta d'un canto, e venire innanzi una cosa nera, ch'egli riconobbe tosto don Abbondio. Camminava passo passo, portando il bastone come chi ne è portato a vicenda; e a misura che si faceva presso, sempre più si poteva conoscere nel suo volto squallido e smunto, e in ogni sembianza, come anch'egli doveva aver corsa la sua burrasca. Guatava egli pure; gli pareva e non gli pareva: scorgeva qualche cosa di forestiero nell'abito; ma era appunto forestiero di quel da Bergamo. – È lui senz'altro! – disse tra sè, e alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone tenuto nel pugno della destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre volte stavano appena a dovere. Renzo gli si affrettò all'incontro, e gli fece una riverenza; chè, sebbene si fosser lasciati come sapete, era però sempre il suo curato. «Siete qui, voi?» sclamò questi. «Son qui, com'ella vede. Si sa niente di Lucia?» «Che volete che se ne sappia? Niente se ne sa. È a Milano, se pure è ancora a questo mondo. Ma voi…» «E Agnese, è viva? «Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma…» «Dov'è?» «È andata a starsene in Valsassina, da que' suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; chè là dicono che la peste non faccia danno come qui. Ma voi, dico…» «Questa mo la mi spiace. E il padre Cristoforo…?» «E andato via ch'è un pezzo. Ma…» «Lo sapeva; me l'hanno fatto scrivere: domandava mo se fosse mai tornato da queste parti.» «Oibò; non se n'è più inteso parlare. Ma voi…» «La mi spiace anche questa.» «Ma voi, dico, che cosa venite a far da queste parti, per amor del cielo? Non sapete che bagattella di cattura…?» «Che importa? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anch'io una volta a vedere i fatti miei. E non si sa proprio…?» «Che volete vedere? che or ora non c'è più nessuno, non c'è più niente. E dico, con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo, c'è giudizio? Fate a modo d'un vecchio che è obbligato ad averne più di voi, e che vi parla per l'amore che vi porta: legatevi le scarpe bene, e, prima che nessuno vi vegga, tornate di dove siete venuto; e se siete stato veduto, tanto più tornatevene in fretta. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, gittato sossopra…» «Lo so anche troppo, birboni!» «Ma dunque…» «Ma se le dico che non ci penso. E colui, è vivo ancora? è qui?» «Vi dico che non c'è nessuno, vi dico che non pensiate alle cose di qui, vi dico che…» «Domando se è qui, colui.» «Oh santo cielo! Parlate meglio. Possibile, che abbiate ancora addosso tutto quel fuoco, dopo tante cose!» «C'è, o non c'è?» «Non c'è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada attorno, di questi tempi?» «Se non ci fosse altro che la peste a questo mondo… dico per me: l'ho avuta, e son franco.» «Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se n'è scappata una di questa sorta, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e…» «Lo ringrazio bene.» «E non andarne a cercar delle altre, dico. Fate a mio modo…» «L'ha avuta anch'ella, signor curato, se non m'inganno.» Se l'ho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che mi ha conciato in questa conformità che vedete. Adesso, aveva proprio bisogno d'un po' di quiete, per rimettermi in tuono: via, cominciava un po' a star meglio… In nome del cielo, che venite qui a fare? Tornate…» «Sempre l'ha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto ne aveva a non muovermi. Dice: che venite? che venite? Vengo, anch'io, a casa mia.» «Casa vostra…» «Mi dica; ne son morti assai qui?…» «Eh eh!» sclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, fece una lunga enumerazione di persone e di famiglie intere. Renzo si aspettava pur troppo qualche cosa di simile; ma all'udir tanti nomi di conoscenti, d'amici, di congiunti, (dei genitori era rimasto senza già da qualche anno) stava addolorato, col capo basso, sclamando tratto tratto: «poveretto! poveretta! poveretti!» «Vedete!» continuò don Abbondio: «e non è finita. Se quei che restano non fanno giudizio questa volta, e cacciar tutti i grilli del capo, non c'è più che la fine del mondo.» «Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui.» «Ah! lode al cielo, che la v'è entrata! E, già s'intende, fate ben conto di tornare…» «Di questo non si dia fastidio.» Che! non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo?» «La non ci pensi, dico; tocca a me: i sette anni gli ho passati. Spero che a buon conto, non dirà a nessuno d'avermi veduto. E sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrà tradire.» «Ho capito,» disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: «ho capito. Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passate voi; non vi basta di quelle che ho passate io. Ho capito, ho capito.» E, continuando a borbottar fra' denti queste ultime parole, si mosse per la sua via. Renzo rimase lì gramo e scontento, a pensar d'altro albergo. Nella lista funebre recitatagli da don Abbondio, v'era una famiglia di contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovanotto, dell'età di Renzo a un dipresso e suo camerata dall'infanzia: la casa era fuori del villaggio, a pochissima distanza. Quivi egli deliberò di rivolgersi a chiedere ospizio. Era giunto presso alla sua vigna; e già dal di fuori potè subito argomentare in che stato ella fosse. Una vetticciuola, una fronda d'albero ch'egli vi avesse lasciato, non ispuntava su dal muro; se qualche cosa ne spuntava, era tutto roba venuta in sua assenza. Si fece all'apertura (di cancelli non v'era più un segno); girò intorno un'occhiata: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna «nel luogo di quel poveretto,» come dicevano. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorta, tutto era stato sgarbatamente schiantato o reciso al pedale. Apparivano però ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe interrotte, ma che segnavano pure la traccia dei filari desolati; qua e là, messe e sterpigni di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo appariva disperso, soffocato, in mezzo a una nuova, varia e spessa generazione, nata e cresciuta senza aiuto di man d'uomo. Era una marmaglia d'ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altre piante simili; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a suo modo, denominandole erbe cattive. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l'un l'altro nell'aria, o a vantaggiarsi strisciando in sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una mescolata di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento stature: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra la marmaglia spiccavano alcune piante più rilevate, più appariscenti, non però migliori, almeno la più parte; l'uva turca al di sopra d'ogni altra, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni verdebruni, quale già orlato di porpora alla cima, co' suoi grappoli ricurvi, guerniti di bacche perse al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in vetta di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, colle sue grandi foglie lanose a terra e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fior gialli: cardi, ispidi i rami, le foglie, i calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si spiccavano, rapiti dall'aria, pennacchiuoli argentati e leggieri. Qui una mano di vilucchioni rampicati e avvolti ai nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie pendule, appuntate a terra, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una brionia dalle bacche vermiglie s'era avviticchiata ai nuovi sermenti d'una vite; la quale, cercato indarno un più saldo sostegno, aveva appiccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescendo i loro deboli steli e le loro foglie poco dissimili, si tiravano giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si piglian l'un l'altro per appoggio. Il rovo era da per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva, tornava all'ingiù; ripiegava i rami o li stendeva, secondo che gli venisse fatto; e, attraversato dinanzi al limitare stesso, pareva che fosse lì per contendere il passo anche al padrone. Ma egli non si curava d'entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a rimirarla, quanto noi a farne questo po' di schizzo. Si levò di là: poco discosto v'era la sua casa; passò per mezzo l'orto, scalpicciando a centinaia gli avveniticci, dei quali era popolato, coperto, come la vigna. Pose piede in sulla soglia d'una delle due stanzette che v'era a terreno: al romore delle sue pedate, al suo affacciarsi, uno sgominìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un tuffarsi dentro un pattume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto dei lanzichenecchi. Alzò gli occhi all'intorno sulle muraglie: scrostate, sudice, affumicate. Gli alzò alla soffitta: un parato di ragnateli. Altro non v'era. Si levò anche di là, mettendosi le mani ne' capelli; tornò per l'orto, ricalcando il sentiero che aveva fatto egli, un momento prima; dopo pochi passi, prese un'altra stradetta a mancina, che metteva nei campi; e senza veder nè sentire anima viva, giunse presso alla casetta dove si aveva disegnato l'ospizio. Già s'era fatto sera. L'amico stava seduto fuor dell'uscio, sur una panchetta di legno, colle braccia avvolte sul petto, cògli occhi fissi in cielo, come un uomo imbalordito dalle disgrazie e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo una pedata, si volse, guardò chi venisse, e secondo che gli parve di vedere così alla bruna, tra i rami e le fronde, disse ad alta voce rizzandosi in piè, e levando ambe le mani: «Non c'è altri che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po' stare, che sarà anche questa un'opera di misericordia.» Renzo, non sapendo che cosa questo volesse dire, gli rispose chiamandolo per nome. «Renzo…» disse quegli, sclamando insieme e interrogando. «Proprio,» disse Renzo; e s'affrettarono l'uno verso l'altro. «Sei proprio tu!» disse l'amico, quando furon presso: «oh che gusto ho di vederti! Chi l'avrebbe pensato? Io t'aveva preso per Paolin de' morti, che vien sempre a tormentarmi perchè vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito!» «Lo so pur troppo,» disse Renzo. E così, ricambiando e mescendo affoltatamente accoglienze, domande e risposte, furono insieme nella casetta. Quivi, senza intermettere i discorsi, l'amico s'affaccendò, per fare un po' d'onore a Renzo, come si poteva così alla sproveduta, e di quel tempo. Pose l'acqua a fuoco, e mise mano a far la polenta; ma cedè poi il matterello a Renzo, che la tramestasse, e se ne andò, dicendo: «son da per me; ma! son da per me!» Tornò con un secchiello di latte, con un po' di carne salata, con un paio di raviggiuoli, con fichi e pesche; e, tutto ammannito, rovesciata la polenta in sul tagliere, si posero insieme a tavola, ringraziandosi a vicenda, l'uno della visita, l'altro del ricevimento. E, dopo un'assenza di presso a due anni, si scopersero a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo di esserlo, nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perchè ad entrambi, dice qui il manoscritto, erano toccate di quelle cose che fanno sentire che balsamo sia all'animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova in altrui. Certo, nessuno poteva tenere appo Renzo il luogo d'Agnese, nè consolarlo della costei mancanza, non solo per quella antica e speciale affezione, ma anche perchè, tra le cose che a lui premeva di schiarire, una ve n'era di cui ella sola aveva la chiave. Stette un momento in fra due, se non dovesse andar prima in cerca di lei, giacchè n'era così poco lontano; ma, considerato che della salute di Lucia ella non saprebbe niente, restò nel primo proposito d'andare addirittura ad accertarsi di questo, ad affrontare il gran cimento, e di portarne poi le novelle alla madre. Però anche dall'amico apprese assai cose che ignorava, e d'assai venne in chiaro, che sapeva male, e sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni fatte a lui, e come don Rodrigo s'era partito di là colla coda tra le gambe, e non s'era più veduto da quelle parti; in somma su tutto quel viluppo di cose. Apprese anche (e non era per lui cognizione di poca importanza) a pronunziar rettamente il casato di don Ferrante: chè Agnese gliel aveva ben fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo come era stato scritto, e l'interprete bergamasco gliel'aveva letto in modo, gliene aveva data una parola tale, che, s'egli fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi egli voleva parlare. Eppure quello era l'unico filo che lo potesse condurre a trovar conto di Lucia. Quanto alla giustizia, potè confermarsi sempre più ch'egli era pericolo abbastanza rimoto, per non darsene troppo pensiero: il signor podestà era morto della peste: chi sa quando gli si manderebbe uno scambio; la sbirraglia pure se n'era ita la più parte; quei che rimanevano, avevan tutt'altro da pensare che alle cose vecchie. Raccontò anch'egli all'amico le sue vicende, e n'ebbe in ricambio cento storie, del passaggio dell'esercito, della peste, di untori, di prodigi. «Son cose brutte,» disse l'amico, accompagnando Renzo in una sua stanzetta che il contagio aveva vôta d'abitatori, «cose che non si sarebbe mai creduto di vedere, cose da non tornarne più allegri, per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo.» A giorno, erano entrambi da basso; Renzo in ordine di viaggiare, colla sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio in tasca, del resto spedito e leggiero: il fardelletto lo lasciò in deposito presso all'ospite. «Se la mi va bene,» gli disse: «se la trovo in vita, se… basta… torno per di qua; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi… Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia… allora, non so quel che farò, non so dove andrò: certo che, da queste parti, non mi vedete più.» E così parlando, ritto in sulla soglia che metteva nel campo, girava il capo all'insù e riguardava con un misto di tenerezza e di accoramento, l'aurora del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo. L'amico lo confortò di buone speranze, volle ch'egli prendesse un po' di provisione da bocca per quel giorno; lo accompagnò un pezzetto di strada, e lo lasciò andare con nuovi augurii. Renzo prese la strada bel bello, bastandogli di portarsi il più presso a Milano in quella giornata, per entrarvi il domani per tempo, e mettersi tosto alla ricerca. Il viaggio fu senza accidenti; nè v'ebbe cosa che attirasse particolarmente i suoi sguardi, salvo le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto nel dì antecedente, si fermò, quando fu tempo, in un boschetto, a refiziarsi e a prender fiato. Passando per Monza, dinanzi a una bottega aperta, dov'era dei pani in mostra, ne chiese una coppia, per non rimanere sproveduto, ad ogni evento. Il bottegaio, intimatogli di non entrare, gli stese, sur una picciola pala una scodelletta, con entro acqua ed aceto, dicendogli che lasciasse quivi cadere i danari del prezzo, come fu fatto; quindi con certe molle, gli porse, l'un dopo l'altro, i due pani, che Renzo si mise un per tasca. Sul far della sera, giunse a Greco, senza pero saperne il nome; ma, tra un po' di memoria dei luoghi, che gli era rimasta dell'altro viaggio, e il calcolo del cammino fatto da Monza in poi, divisando dovere essere assai presso alla città, uscì della strada maestra, per andar nei campi in cerca di qualche cascinotto, dove passar la notte; chè con osterie non si voleva impacciare. Trovò meglio che non cercava: vide aperta una callaia in una siepe che cingeva il cortile d'una cascina; entrò a buon conto. Nessun v'era: vide da un canto un gran portico con sotto del fieno abbarcato, e a quello appoggiata una scala a piuoli; si guardò un'altra volta tutt'all'intorno, e poi salì alla ventura, si accomodò quivi per passar la notte, e prese tosto sonno, per non destarsi che all'alba. Desto, si condusse carpone verso l'orlo di quel gran letto, mise il capo fuori, e, non vedendo pur nessuno, scese per donde era salito, uscì per donde era entrato, si mise per istraduzze, prendendo per sua stella polare il duomo; e, dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta orientale e porta Nuova, e assai presso a questa. Rispetto al modo di penetrare in città, Renzo aveva inteso così ingrosso che v'era ordine severissimo di non lasciar entrare persona senza bulletta di sanità; ma che in fatto vi s'entrava benissimo, chi appena sapesse un po' aiutarsi e coglier tempo. Così era; e lasciando anche stare le cause generali, per cui, in que' tempi, ogni ordine era poco eseguito; lasciando stare le speciali, che rendevano così malagevole la rigorosa esecuzione di questo; Milano si trovava ormai in tali termini, da non vedere a che giovasse guardarlo, e da che; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de' cittadini. Su queste notizie, il disegno di Renzo era di tentare il passaggio alla prima porta, a cui si fosse abbattuto; se qualche intoppo vi fosse, girar per di fuori, finchè ne trovasse un'altra di più facile accesso. E sa il cielo quante porte s'imaginava egli che Milano dovesse avere. Giunto adunque dinanzi alle mura, ristette quivi a guardar d'intorno, come fa chi, non sapendo dove gli torni meglio di rivolgersi, par che ne aspetti e ne richiegga qualche indizio da ogni cosa. Ma, a dritta e a sinistra, non iscorgeva che due pezzi d'una strada bistorta, al dirimpetto, un tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d'uomini viventi: se non che, d'in su un luogo del terrapieno, si vedeva sorgere una densa colonna d'un fumo scuro e crasso, che salendo s'allargava e s'avvolgeva in ampii globi, sperdendosi poi nell'aria immobile e bigia. Eran vesti, letti e altre masserizie infette che si bruciavano: e di tali tristi falò se ne faceva di continuo, non quivi soltanto, ma per ogni lato delle mura. Il tempo era chiuso, l'aere grosso, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione eguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna d'intorno, parte incolta e tutta arida; ogni verdura smunta, e nè una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per soprappiù, quella solitudine, quel silenzio, così accanto a una gran massa di abitazioni, aggiugnevano una nuova costernazione alla inquietudine di Renzo, e rendevan più foschi tutti i suoi pensieri. Stato così alquanto, prese la diritta, alla ventura, andando, senza saperlo, verso porta Nuova, della quale, quantunque vicina, egli non poteva accorgersi, a cagione di un baluardo, dietro cui essa era allora nascosta. Dopo pochi passi, cominciò a venirgli all'orecchio un tintinno di campanelli, che cessava e si ripeteva ad intervalli, e poi qualche voce d'uomo. Andò innanzi; volto l'angolo del bastione, gli si scoperse, la prima cosa, sulla spianata dinanzi alla porta, un casotto di legno, e sull'uscio, una guardia appoggiata al moschetto in una cert'aria stracca e trascurata: dietro era un cancello di stecconi, e in fondo la porta, cioè due alacce di muro, con una tettoia sopra, per riparare le imposte; le quali erano spalancate, come pure lo sportello dello steccato. Però, dinanzi appunto all'apertura, stava un tristo impedimento, una barella posata in sul suolo, sulla quale due monatti racconciavano un poveretto, per portarnelo: era il capo de' gabellieri, a cui poco prima, s'era scoperta la peste. Renzo si fermò dove si trovava, aspettando la fine: partito il convoglio, e non comparendo nessuno a richiuder lo sportello, gli parve tempo, e vi s'avviò in fretta; ma la guardia, con un mal piglio, gli gridò: «olà!» Si fermò egli su due piedi, e, fatto d'occhio a colui, cavò un mezzo ducatone, e glielo mostrò. Quegli, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse meno che non amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che gli gittasse quello; e, vistoselo volar subito a' piedi, susurrò: «va innanzi presto.» Renzo non se lo fece ripetere; passò lo steccato, passò la porta, andò innanzi, senza che nessuno s'accorgesse di lui o gli badasse; se non che, quando ebbe fatto forse quaranta passi, intese un altro «olà» che un gabelliere gli gridava dietro. A questo egli fe' vista di non intendere, e invece di pur volgersi, studiò il passo. «Olà!» gridò di nuovo il gabelliere, con una voce però che indicava più iracondia che risoluzione di farsi obedire; e, non essendo obedito, levò le spalle, e tornò nella sua casaccia, come uomo a cui premesse più di non accostarsi troppo ai passeggieri, che d'inchiedersi dei fatti loro. La via, dentro di quella porta, correva allora, come adesso, diritta fino al canale detto il Naviglio: i lati erano siepi o muraglie d'orti, chiese e conventi e poche case; in capo a questa via, e nel mezzo di quella che va di costa al canale, sorgeva una croce, detta la croce di sant'Eusebio. E, per quanto Renzo si guardasse innanzi, altro che quella croce non gli veniva veduto. Giunto al crocicchio che divide la via circa al mezzo, e sguardando a dritta e a sinistra, scorse a dritta, in quella che si chiama lo stradone di santa Teresa, un borghese che veniva appunto inverso lui. - Un cristiano, finalmente! – disse tra sè, ed entrò subito per quella via, facendo disegno di prender lingua da colui. Questi affisava pure e andava squadrando dalla lontana, con un tal occhio adombrato, il forestiero che s'avanzava; e tanto più quando s'accorse che, invece di andarsene pe' fatti suoi, veniva alla volta sua. Renzo, quando fu a poca distanza, si cavò il cappello, da quel montanaro rispettoso, ch'egli era; e, tenendolo colla sinistra, mise cosi il pugno dell'altra mano nel vano della testa, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questi, stralunando gli occhi affatto, die' addietro un passo, levò un noderoso bastone che teneva, con un puntale in cima a foggia di stocco, e volto quello alla vita di Renzo, gridò: «via! via! via!» «Oh oh!» gridò il giovane anch'egli, si coperse, e, avendo tutt'altra voglia, come diceva poi, narrando la cosa, che di pigliare una bega in quel momento, volse le spalle allo scortese, e seguì la sua strada, o per meglio dire, quella in cui si trovava avviato. Il borghese tirò pure innanzi per la sua, tutto fremente, e guardandosi tratto tratto dietro le spalle. E giunto che fu a casa, raccontò come gli era venuto accanto un untore, con un'aria umile, mansueta, con una cera d'infame impostore, collo scatolino dell'unto, o il cartoccino della polvere (non era ben certo qual de' due) in mano, nella testa del cappello, per fargli il tiro, s'egli non lo avesse saputo tener lontano. «Se mi s'accostava un passo di più,» aggiunse, «l'infilzavo addirittura, prima che avesse tempo d'aggiustarmi me, il birbone. La disgrazia fu che eravamo in un luogo così appartato; che se gli era in mezzo Milano, chiamavo gente, e gli facevo dare addosso. Sicuro che gli trovavano quella scelerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo, ho dovuto esser contento di preservarmi, senza risicar di cercarmi un malanno; perchè un po' di polvere è presto gittata, e coloro hanno una destrezza particolare, e poi hanno il diavolo dalla loro. Adesso sarà attorno per Milano: chi sa che strage fa!» E fin che visse, che fu molt'anni, ogni volta che si parlasse d'untori, ripeteva il suo caso, e soggiugneva: «quelli che sostengono ancora che. non era vero, non lo vengano a contare a me: perchè le cose, bisogna averle vedute.» Renzo, lontano dall'imaginarsi di che punto fosse scampato, e commosso più da dispetto, che da paura, pensava, in camminando, a quella accoglienza, e s'apponeva bene a un dipresso dell'opinione che il borghese aveva concepita de' fatti suoi; ma la cosa gli pareva così fuor di ragione, che conchiuse tra sè, dover colui essere un qualche mezzo matto.– La comincia male, – pensava però: – par che ci sia un pianeta per me, in questo Milano. Per entrare, tutto mi va a seconda; e poi, quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati. Basta… coll'aiuto di Dio… se trovo… se riesco a trovare… eh! tutto sarà stato niente. – Venuto appiè del ponte, voltò, senza esitare, a sinistra, nella via detta la strada a san Marco, come a quella che gli parve dover menare verso l'interno della città. E procedendo, cercava con gli occhi intorno, se potesse scoprire qualche creatura umana; ma altra non ne vide che uno sformato cadavere nel fossatello che corre tra quelle poche case (che allora erano anche meno) e la via, per un tratto di essa. Passato quel tratto, udì certe grida, come chiamate che parevan fatte a lui; e, volto lo sguardo in su a quella parte donde veniva il suono, scorse, poco lontano, a un balcone d'una casupola isolata, una povera donna, con un gruppetto di fanciulli dattorno, la quale, chiamando tuttavia, gli accennava pur colla mano che si facesse vicino. V'accorse; e quando fu presso, «o quel giovane,» disse la donna: «pei vostri poveri morti, fate la carità d'andare ad avvisare il commissario che siamo qui dimenticati. Ci hanno chiusi in casa come sospetti, perchè il mio povero uomo è morto; ci hanno inchiodato l'uscio, come vedete; e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare: da tante ore che son qui, non ho mai potuto trovare un cristiano che me la facesse questa carità: e questi poveri innocenti muoiono di fame.» «Di fame!» sclamò Renzo; e cacciate le mani alle tasche, «ecco ecco,» disse, cavando i due pani: «mandate giù qualche cosa da pigliarli.» «Dio ve ne renda merito: aspettate un momento,» disse la donna; e andò a cercare un canestrello, e una corda da spenzolarlo, come fece. A Renzo intanto sovvenne di quei pani che aveva trovati presso la croce nell'altra sua entrata, e pensava: – ecco: l'è una restituzione, e forse meglio che se avessi trovato il padrone proprio; perchè qui è veramente opera di misericordia. – «Quanto al commissario che dite, la mia donna,» disse poi, mettendo i pani nel canestrello, «io non vi posso servire in nulla; perchè, a dir la verità, son forestiere, e non ho pratica di niente in questo paese. Però se incontro qualche uomo un po' domestico e umano, da potergli parlare, lo dirò a lui.» La donna lo pregò che così facesse, e gli disse il nome della via, ond'egli potesse indicarla. «Anche voi,» ripigliò Renzo, «credo che potrete farmi un servizio, una vera carità, senza vostro incomodo. Una casa di cavalieri, di gran signoracci qui di Milano, casa ***, sapreste insegnarmi dove sia?» «So bene che la c'è questa casa,» rispose la donna «ma dove sia, non lo so mica. Andando in dentro, per di qua, un qualcheduno che ve la insegni lo troverete. E ricordatevi di dirgli anche di noi.» «Non dubitate,» disse Renzo, e andò oltre. A ogni passo, sentiva crescere e avvicinarsi un romore che già aveva cominciato ad intendere mentre era quivi fermo a discorrere: un romor di ruote e di cavalli, con uno squillar di campanelli, e tratto tratto uno scoppiar di fruste e un levar di grida. Guardava innanzi, ma non vedeva nulla. Pervenuto allo sbocco di quella torta via, e affacciatosi alla piazza di san Marco, la cosa che prima gli colpì lo sguardo, furono due travi alzate, con una corda e con certe carrucole; e non tardo a riconoscere (ch'ell'era cosa famigliare in quel tempo) l'abominevole macchina del tormento. Era posta in quel luogo, e non in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle vie più spaziose, affinchè i deputati d'ogni quartiere, muniti a questo d'ogni facoltà più arbitraria, potessero farvi applicare immediatamente chiunque paresse loro meritevole di pena, o sequestrati che uscissero di casa, o ministri renitenti agli ordini, o chi che fosse altri: era uno di quei rimedii immoderati e inefficaci dei quali, a quel tempo, e in quei momenti specialmente, si faceva tanto scialacquo. Or mentre Renzo guarda quello stromento, pensando a che possa essere alzato in quel luogo, e sentendo intanto avvicinarsi il romore; ecco vede spuntar dal canto della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un apparitore; e dietro a lui, due cavalli, che, allungando il collo e pontando le zampe, venivano innanzi a fatica; e strascinato da quelli un carro di morti, e dopo quello un altro, e poi un altro e un altro: e di qua e di là, monatti alle coste de' cavalli, affrettandoli, a sferzate, a punte, a bestemmie. Erano quei cadaveri ignudi la più parte, quali mal ravvolti in lenzuola cenciose, ammonticati, intrecciati insieme, quasi un viluppo di bisce che lentamente si svolgano al tepore della primavera; chè, ad ogni intoppo, ad ogni scossa, si vedevan quei mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e spenzolarsi teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi e battere in sulle ruote, mostrando all'occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenire ancor più miserabile e disonesto. Il giovane s'era rattenuto all'angolo della piazza, accanto alla sbarra del canale, e pregava intanto per que' morti sconosciuti. Un atroce pensiero gli balenò in mente: – forse là, là insieme, là sotto… Oh, Signore! fate che non sia vero! fate ch'io non ci pensi! – Scomparso il treno funebre, egli si mosse, attraversò la piazza, prendendo la via lungo il canale a mancina, senz'altra ragione della scelta, se non che il treno era andato dall'altra banda. Fatti quei quattro passi tra il fianco della chiesa e il canale, vide a destra il ponte Marcellino; v'andò su, e, per quell'obliquo stretto, riuscì in contrada di Borgo Nuovo. E guardando innanzi, sempre con quella mira di trovar qualcheduno a cui chiedere indirizzo, vide all'altro capo della via un prete in farsetto, con un bastoncello in mano, starsene in piedi presso un uscio socchiuso, col capo chino e l'orecchio allo spiraglio; e poco di poi lo vide levar la mano a benedire. Argomentò quel ch'era in fatti, che finisse di confessar qualcheduno; e disse tra sè: – questo è il mio uomo. Se un prete, in funzione di prete, non ha un po' di carità, un po' di amorevolezza e di grazia, bisogna dire, che non ce ne sia più a questo mondo. - Intanto il prete, spiccatosi dall'uscio, veniva dalla parte di Renzo, camminando con gran riguardo, nel mezzo della via. Renzo, quando gli fu a quattro o cinque passi, si cavò il cappello e gli accennò che desiderava parlargli, fermandosi nello stesso tempo, in modo da fargli intendere che non voleva accostarglisi troppo indiscretamente. Quegli si fermò pure, in atto di stare a udire, pontando però in terra d suo bastoncello dinanzi a sè, come per farsi davanti un baluardo. Renzo espose la sua domanda, alla quale il prete soddisfece, non solo con dirgli il nome della via dove la casa era situata, ma dandogli anche, come vide che il poveretto ne aveva bisogno, un po' d'itinerario, indicandogli cioè, a forza di dritte, e di mancine, di croci e di chiese, quelle altre sei o otto vie, che aveva a passare per giugnervi. «Dio la mantenga sano, in questi tempi, e sempre,» disse Renzo e mentre quegli si moveva per andarsene, «un'altra carità,» soggiunse; e gli disse della povera donna dimenticata. Il dabben prete ringraziò lui dell'avergli data questa occasione di portare un soccorso così necessario, e, dicendo che andava ad avvertire a cui toccava, si fu partito. Renzo, fatto un inchino, si mosse anch'egli, e, andando, cercava di fare a sè stesso una ripetizione dell'itinerario, per trovarsi il meno che fosse possibile da capo a dover domandare. Ma non potreste imaginare come quella operazione gli riuscisse penosa; e non tanto per l'imbroglio che vi poteva essere, quanto per un nuovo turbamento che gli s'era fatto nell'animo. Quel nome della via, quella traccia del cammino lo avevan così messo sossopra. Era la notizia ch'egli aveva desiderata e richiesta, senza la quale non poteva fare; nè insieme con essa gli era stato detto cosa che potesse indurre augurio, non che sospetto di sciagura; ma che è? quell'idea un po' più distinta d'un termine vicino, dov'egli uscirebbe d'un gran dubbio, dove potrebbe sentirsi dire: è viva; o sentirsi dire: è morta; quell'idea gli era venuta così forte, che in quel momento egli avrebbe amato meglio di trovarsi ancora al buio di tutto, d'essere al principio del viaggio di cui ormai toccava la fine. Raccolse però l'animo a sè: – ehi ! – si disse: – se cominciamo ora a fare il ragazzo, come ha ella d'andare? – Così rinfrancato alla meglio, seguì il suo cammino, inoltrandosi nella città. Quale città! e che è mai ora a ricordare quel che ella fosse stata, nell'anno antecedente, per cagion della fame! Renzo s'imbatteva appunto a passare per una delle parti più guaste e più disformate: quella crociata di vie che si chiamava il carrobio di porta Nuova. (Quivi era allora una croce a capo del corso, e in prospetto ad essa, accanto al luogo dove ora è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di santa Anastasia.) Tanta era stata in quel vicinato la furia del contagio e l'infezione de' cadaveri disseminati, che i pochi sopravvissuti erano stati costretti a sgombrare: sicchè, mentre lo sguardo del passeggiero rimaneva colpito da quell'aspetto di solitudine e di abbandono, più d'un senso era troppo dolorosamente e troppo increscevolmente offeso dai segni e dalle reliquie della recente abitazione. Sollecitò Renzo i passi, rianimandosi col pensare che la meta non doveva esser così vicina, e sperando che, prima di giugnervi, troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e in fatti, di lì a non molto, riuscì in luogo che poteva pur dirsi città di viventi: ma quale città ancora, e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci da via, salvo quelli che fossero spalancati per disabitamento, o per invasione; altri inchiodati e suggellati al di fuori, per esser nelle case morta o inferma gente di peste; altri segnati d'una croce tirata col carbone, per indizio ai monatti, essere ivi morti da prendere: il tutto più alla ventura che altrimenti, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche commissario della sanità o altro uficiale, che avesse voluto eseguir gli ordini, o fare un'angheria. Per tutto stracci, fasciature saniose, strame ammorbato, o vesti, o lenzuola gittate dalle finestre; talvolta corpi, o esanimati di subito nella via, e lasciati quivi fin che un carro passasse, da raccorli; o sdrucciolati dai carri medesimi, o gittati pur dalle finestre: tanto l'insistere e l'imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi e divezzatili da ogni cura di pietà, da ogni rispetto sociale! Cessato da per tutto ogni strepito di officine, ogni romor di carrozze, ogni grido di venditori, ogni favellìo di passeggieri, ben rado era che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da fragore di carri funebri, da querimonie di pezzenti, da guai d'infermi, da urla di frenetici, da vociferar di monatti. All'alba, al mezzodì, alla sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci proposte dall'arcivescovo: a quel tocco rispondevano le campane delle altre chiese; e allora avreste veduto persone farsi alle finestre, a pregare in comune; avreste inteso un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto. Morti a quell'ora forse i due terzi de' cittadini, usciti o languenti una buona parte del resto, ridotto presso che a niente il concorso dal di fuori, dei pochi che andavano attorno, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo circuito, scontrato un solo in cui non apparisse qualche cosa di strano e di bastante per sè a dare argomento d'una funesta mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più qualificati, senza cappa nè mantello, parte allora essenzialissima d'ogni civile abbigliamento; senza sottana i preti, i frati senza cocolle; dismessa in somma ogni maniera d'abito che potesse cogli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (il che era più temuto di tutto il resto) agio agli untori. E fuor di questa cura d'andar succinti e ristretti al possibile, negletta e disacconcia ogni persona;, lunghe le barbe di quelli che usavano portarle, cresciute a quelli che avevano in costume di raderle, lunghe pure e incolte le capigliature, non solo per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e condannato, come untor famoso, l'un d'essi, Giangiacomo Mora: nome che, per gran tempo dappoi, serbò una celebrità municipale d'infamia, e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano da una mano un bastone, quale anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto appressarsi di soverchio; dall'altra pastiglie odorose o palle di metallo o di legno traforate e ripiene di spugne imbevute d'aceti medicati; e le andavano tratto tratto appressando al naso, o ve le tenevano di continuo. Portavano alcuni appesa al collo una boccetta con entro un po' d'argento vivo, persuasi che quello avesse virtù di assorbire e di ritenere ogni effluvio pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo di tempo in tempo. I gentiluomini, non solo percorrevan le vie senza l'usato corteggio, ma si vedevano con una sporta ad un braccio andar provedendo le cose necessarie al vitto. Gli amici, quando pur due si scontrassero viventi per via, si salutavano da lontano, con cenni taciti e frettolosi. Ognuno, in camminando, aveva da fare assai a scansare i sozzi e mortiferi inciampi di che il suolo era sparso e dove anche affatto ingombro: ognuno cercava di tenere il mezzo della via, per timore d'altro fastidio, o d'altro più funesto peso che potesse venir giù dalle finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva esser sovente fatte cader da quelle sui passeggieri; per timore delle pareti, che potevano esser unte. Così l'ignoranza, sicura e cauta a contrattempo, aggiugneva ora angustie alle angustie, e dava falsi terrori in compenso dei ragionevoli e salutari che aveva tolti da principio. Tale era ciò che di meno deforme e di men compassionevole si mostrava attorno, i sani, gli agiati: chè, dopo tante imagini di miseria, e pensando a quella ancor più grave, per cui ci resta a trascorrere, noi non ci fermeremo ora a dir qual fosse la vista degli ammorbati che si strascinavano o giacevano per le vie, dei mendichi, dei fanciulli, delle donne. Ella era tale, che il riguardante poteva trovare come un disperato conforto in ciò che ai lontani ed ai posteri appare a prima giunta come il colmo dei mali; nel pensare, dico, nel vedere quanto quei viventi fossero ridotti a pochi. Per mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatta già una buona parte del suo cammino, quando, discosto ancor molti passi da una via nella quale egli aveva a volgere, udì venir da quella un vario frastuono, nel quale si faceva discernere quel solito orribile tintinnìo. All'ingresso della via, ch'era una delle spaziose, vi scorse nel mezzo quattro carri fermi; e come in un mercato di grani si vede un andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi; tale era la pressa in quel luogo: monatti che si cacciavano nelle case, monatti che ne uscivano, con un peso in su le spalle, e lo ponevano su l'uno o su l'altro carro: alcuni coll' assisa del color rosso, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e cappi di vario colore, che quegli sciagurati portavano, come a dimostrazione di festa, in tanto publico lutto. Da qualche finestra veniva tratto tratto una voce lugubre: «qua monatti!» E con suono ancor più sinistro, da quel tristo bulicame usciva un'aspra voce di risposta: «adess'adesso!» Ovvero erano lamentanze di vicini, istanze di far presto; alle quali i monatti rispondevano con bestemmie. Entrato nella via, Renzo studiava il passo, cercando di non guardar quegl'ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo vagante si abbattè in un oggetto di pietà singolare, d'una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo: talchè egli si fermò, quasi senza averlo risoluto. Scendeva dalla soglia d'un di quegli usci, e veniva inverso il convoglio una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata, e offuscata, ma non guasta, da una gran pena e da un languor mortale; quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. L'andar suo era faticoso, ma non cascante; gli occhi non davano lagrime, ma portavan segno di averne tante versate; v'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che indicava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, fra tante miserie, la segnasse così particolarmente alla commiserazione, e ravvivasse per lei quel sentimento omai stracco, ammortito nei cuori. Tenevasi ella in fra le braccia una fanciulletta di forse nove anni, morta; ma composta, acconcia, con le chiome divise in su la fronte, in una veste bianca, mondissima, come se quelle mani l'avessero ornata per una festa promessa da tanto tempo, e conceduta in premio. Nè la teneva a giacere; ma sorretta, assettata in su l'un braccio, col petto appoggiato al petto, come cosa viva; se non che una manina bianca a guisa di cera penzolava da un lato con una tale inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre con un abbandono più forte del sonno: della madre, chè, se anche la somiglianza di quei volti non ne avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello dei due che dipingeva ancora un sentimento. Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di torre il peso dalle sue braccia, ma pure con una specie d'insolito rispetto, con una esitazione involontaria. Ma quella, ritraendosi alquanto, in atto però che non mostrava nè sdegno nè dispregio, «no!» disse: «non la mi toccate per ora; deggio riporla io su quel carro: prendete.» Così dicendo, aperse una mano, mostrò una borsa e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poscia continuò: «promettetemi di non torle un filo dattorno, nè di lasciar che altri s'attenti di farlo, e di porla sotterra così.» Il monatto si recò la destra al petto; indi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più pel nuovo sentimento, ond'era come soggiogato, che per la insperata mercede, s'affaccendò a far sul carro un po' di piazza alla picciola morta. La donna, dato a questa un bacio in fronte, la collocò ivi, come sur un letto, ve la compose, vi stese sopra un pannolino candido, e disse le ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! sta sera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri.» Poi, rivolta di nuovo al monatto, «voi,» disse, «ripassando di qui in sul vespro, salirete a prender me pure, e non me sola.» Così detto rientrò in casa, e dopo un istante, comparve alla finestra, tenendo in braccio un'altra più tenera sua diletta, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, fino a che il carro si mosse, finchè rimase in vista; poi sparve. E che altro ebbe a fare, se non deporre sul letto l'unica che le rimaneva, e corcarsele allato, a morire insieme?; come il fiore già rigoglioso in su lo stelo cade in un col fiorellino ravvolto ancora nel calice, al passar della falce che agguaglia tutte l'erbe del prato. «O Signore!» sclamò Renzo: «esauditela! pigliatela con voi, lei e quella sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!» Rinvenuto da quella commozione singolare, e mentre cerca di ridursi a memoria l'itinerario per trovare se alla prima via abbia a volgere, e se a dritta o a manca, ode anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, di guai lunghi, di singhiozzi feminili, di garriti fanciulleschi. Andò oltre, con in cuore quella solita trista e scura aspettazione. Giunto al crocicchio, vide da una banda una torma confusa che veniva innanzi; e si tenne lì fermo, fin ch'ella fosse passata. Era una condotta d'infermi avviati al lazzeretto; alcuni cacciati a forza, resistenti in vano, gridanti in vano che volevano morire sul loro letto, e rispondendo imprecazioni impotenti alle bestemmie e ai comandi dei monatti che li guidavano; altri che marciavano in silenzio, senza dolore che apparisse, senza speranza, come insensati; donne coi pargoli in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e di restare nel noto soggiorno. Ahi! e forse la madre, che essi credevano d'aver lasciata dormente sul suo letto, vi s'era gittata oppressa tutt'ad un tratto dal morbo, priva di senso, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro giungeva più tardi. Forse, oh sciagura degna di lagrime ancor più amare! la madre tutta occupata de' suoi patimenti si stava dimentica d'ogni cosa, anche dei figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in riposo. Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di costanza, e di pietà: genitori, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e li accompagnavano con parole di conforto; nè adulti soltanto, ma garzoncelli, ma fanciullette che facevano scorta a' fratellini più teneri, e, con senno e con misericordia virile, li confortavano ad essere obedienti, li assicuravano che s'andava in luogo ove altri avrebbe cura di loro per farli guarire. In mezzo alla mestizia e alla tenerezza di tali viste, una sollecitudine ben distinta strigneva più da presso e teneva sospeso il nostro viandante. La casa doveva esser lì vicina, e chi sa se fra quella gente… Ma passata tutta la torma, e cessato quel dubbio, si volse ad un monatto che veniva dietro, e gli domandò della via e della casa di don Ferrante. «In malora, tanghero,» fu la risposta che n'ebbe. Nè si curò di replicare; ma, scorto, a due passi, un commissario che chiudeva il convoglio, e aveva cera un po' più di cristiano, fece a lui la stessa domanda. Questi, accennando con un bastone la parte donde veniva, disse: «la prima contrada a dritta, l'ultima casa da nobile a sinistra.» Con un nuovo e più forte rimescolamento in cuore, il giovane tira colà. E nella via; discerne tosto la casa tra le altre, più umili e disadatte; si appressa alla porta che è chiusa, pone la mano al martello, e ve la tiene sospesa, come in un'urna, prima di cavarne la polizza dove fosse la sua vita, o la sua morte. Finalmente alza il martello, e dà un picchio risoluto. Dopo qualche momento, s'apre un po' di finestra; vi compare una donna a far capolino, guardando alla porta con una cera ombrosa che sembra dire: monatti? malandrini? commissarii? untori? diavoli? «Quella signora,» disse in su Renzo, con voce non troppo sicura: «ci sta qui a servire una giovane forese che ha nome Lucia?» «La non c'è più; andate,» rispose la donna, facendo atto di chiudere. «Un momento, per carità! La non c'è più? Dov'è ella?» «Al lazzeretto;» e di nuovo voleva chiudere. «Ma un momento, per amor del cielo! Con la peste?» «Già. Cosa nuova, eh? Andate.» «Aspetti, eh! era ella malata molto? Quanto tempo è…?» Ma intanto la finestra fu chiusa da vero. «Quella signora! quella signora! una parola, per carità! pe' suoi poveri morti! Non le domando mica niente del suo: ohè!» Ma gli era come dire al muro. Afflitto dell'annunzio, e stizzito del tratto, Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, lo andava strignendo e storcendo nella mano, lo alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In questa agitazione, si volse per vedere se mai gli cadesse sott'occhio qualche vicino, da cui forse aver qualche più discreta informazione, qualche indirizzo, qualche lume. Ma la prima, l'unica persona che scorse fu un'altra donna, discosta forse un venti passi; la quale, con un volto che esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con certi occhi travolti che volevano insieme guardar lui e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma tenendo anche il respiro, sollevando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinze e uncinate, come s'ella traesse a sè qualche cosa, dava manifesto segno di voler chiamar gente, in modo che un qualcheduno non se ne accorgesse. Allo scontrarsi degli sguardi, colei, fattasi ancor più brutta, trasalì come persona sorpresa. «Che diamine…?» cominciava Renzo, levando pur le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere alla sproveduta, lasciò scappare il grido che aveva compresso fino allora: «l'untore! dagli! dagli! dagli all'untore!» «Chi? io! ah bugiarda strega! taci lì,» gridò Renzo; e diè un balzo alla volta di lei, per impaurirla e farla tacere. Ma s'accorse in quella di dover piuttosto pensare ai casi suoi. Allo strillar della donna, accorreva gente dalle due bande, non la turba che, in un caso simile, si sarebbe fatta tre mesi prima; ma troppo più che non era di bisogno per ischiacciare un uomo. Nello stesso istante s'aperse di nuovo la finestra e quella medesima scortese di poco innanzi vi si mostrò questa volta in pieno, e gridava anch'essa: «pigliatelo, pigliatelo, ch'egli ha a essere un di que' ghiotti che vanno attorno a ugner le porte de' galantuomini.» Renzo deliberò in un baleno essere miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a giustificarsi; gittò l'occhio di qua e di là, da che parte fosse men popolo; e da quella la dette a gambe. Ributtò con un urtone uno che gli sbarrava la strada; con un gran punzone nel petto fe' dare addietro otto o dieci passi un altro che gli accorreva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, a ordine per chi altri gli fosse venuto fra' piedi. La via dinanzi era sgombra; ma dietro le spalle sentiva egli risonarsi più e più forti all'orecchio quelle grida amare: «dagli! dagli! l'untore!»; sentiva appressarsi il calpestìo dei più veloci ad inseguirlo. L'ira divenne rabbia, l'angoscia si cangiò in disperazione; gli si fece come un velo dinanzi agli occhi; die' di piglio al suo coltellaccio, lo sfoderò, tenne il piede, torse la vita, volse indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse ancor fatto a' suoi dì; e, col braccio teso brandendo in aria la lama luccicante, gridò: «chi ha cuore, venga innanzi, canaglia! che l'ugnerò io da vero con questo.» Ma, con maraviglia e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi persecutori s'eran già fermati, a qualche distanza, come esitanti, e che, urlando tuttavia, facevano colle mani levate, certi lor cenni da spiritati, come a gente lontana dietro a lui. Si tornò a volgere, scerse dinanzi a sè, e non molto discosto, (chè il gran turbamento non ne lo aveva lasciato accorgere un momento prima), un carro che s'avanzava, anzi una fila di que' soliti carri funerei, col solito accompagnamento; e al di là un altro drappelletto di gente che avrebbe pur voluto dare addosso dal canto suo all'untore, e prenderlo in mezzo; ma erano anch'essi rattenuti dall'impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli cadde in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salute; pensò che non era tempo da far lo schifo; rinfoderò il coltellaccio, si trasse da canto, ripigliò la corsa inverso i carri, passò il primo, avvisò nel secondo un buono spazio sgombro. Toglie la mira, spicca un salto; è su, piantato sul destro piede, col sinistro in aria, e colle braccia alzate. «Bravo! bravo!» sclamarono ad una voce i monatti, alcuni de' quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire la orribile cosa com'ella era, sedevan sui cadaveri, trincando d'un gran fiascone che andava in giro. «Bravo! bel colpo!» «Sei venuto a metterti sotto la protezione dei monatti: fa conto d'essere in chiesa,» gli disse un di due che stavano sul carro dov'egli s'era gittato. I nemici, all'appressar del treno, avevano, i più, volte le spalle, e se ne tornavano gridando pure, «dagli! dagli! l'untore!» Un qualcheduno si ritraeva più lentamente, sostando tratto tratto, e volgendosi con un digrignar di denti e con gesti di minaccia a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo le pugna in aria. «Lascia fare a me,» gli disse un monatto; e strappato di dosso a un cadavere un laido cencio, lo rannodò in fretta, e, presolo per un dei capi, lo alzò, come una fionda, verso quegli ostinati, e fe' vista di lanciarlo, gridando: «aspetta, canaglia!» A quell'atto, tutti dieder di volta inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nimici, e calcagna che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere. Fra i monatti si sollevò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un «uh!» prolungato, come per accompagnare quella fuga. «Ah ah! vedi tu se noi sappiamo proteggere i galantuomini?» disse a Renzo quel monatto: «vai più uno di noi che cento di que' poltroni.» «Certo, posso dire ch'io vi debbo la vita,» rispos'egli: «e vi ringrazio di tutto cuore.» «Niente, niente,» replicò il monatto: «tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovane. Fai bene a ugnere questa canaglia: ugnili, estirpali costoro, che non valgono qualche cosa, se non quando son morti; che, per mercede della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci vogliono fare impiccar tutti. Hanno a finire prima essi che la morìa; i monatti hanno da restar soli a cantar vittoria, e a sguazzare in Milano.» «Viva la morìa, e muoia la marmaglia!» sclamò l'altro; e con questo bel brindisi, si pose il fiasco a bocca, e, tenendolo con ambe le mani, fra i trabalzi del carro, fe' una tirata, poi lo porse a Renzo, dicendo: «bevi alla nostra salute.» «Ve l'auguro a tutti di buon cuore,» disse Renzo: «ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento.» «Tu hai avuto una bella paura, a quel che pare,» disse il monatto: «m'hai cera d'un pover'uomo; voglion essere altri visi a far l'untore.» «Ognuno s'ingegna come può,» disse l'altro. «Dammelo qui a me,» disse un di quei che venivano a piedi, di costa al carro: «che voglio berne anch'io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui in questa bella compagnia… lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella carrozzata.» E, con un suo atroce e maladetto ghigno, segnava il carro dinanzi a quello su cui stava il povero Renzo. Indi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco, fe' un inchino da quella parte, e ripigliò; «si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l'abbiam messa in carrozza, per menarla in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa male per poco: i poveri monatti han buono stomaco.» E fra le risate de' compagni, tolse il fiasco, lo sollevò, ma prima di bere, si volse a Renzo, gli fissò gli occhi in volto e gli disse, in una cert'aria di compassione sprezzante: «bisogna che il diavolo con chi tu hai fatto il patto, sia ben giovane; chè, se non eravamo noi a salvarti, egli ti dava un bell'aiuto.» E, fra un nuovo scroscio di risa, si appiccò il fiasco alle labbra. «E noi? ohe! e noi?» si gridò a più voci dal carro che precedeva. Il birbone, tracannato quanto ne volle, consegnò a due mani il gran fiasco a quegli altri suoi simili, i quali se lo andaron trasmettendo, fino ad uno che, votatolo, lo impugnò pel collo, lo rotò in aria una e due volte, e lo scagliò a fracassarsi in sulle lastre, gridando: «viva la morìa!» Dietro a queste parole intonò una loro canzonaccia; e tosto alla sua voce s'accompagnarono tutte le altre di quel turpe coro. La cantilena infernale mista al tintinnìo de' campanelli, al cigolìo, allo scalpito, risonava nel vôto silenzioso delle vie, e, rimbombando nelle case, strigneva amaramente il cuore dei pochi che ancor le abitavano. Ma che non può alle volte venire in acconcio? che non può parer buono in qualche caso? La stretta d'un momento prima aveva renduta più che tollerabile a Renzo la compagnia di que' morti e di que' vivi; ed ora fu alle sue orecchie musica, sto per dire, gradita, quella che lo toglieva dall'intrigo di una tale conversazione. Ancor mezzo trambasciato e tutto sossopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Providenza, dell'essere scampato d'un tal punto, senza ricever male nè farne; la pregava che lo aiutasse ora a liberarsi anche da' suoi liberatori; e dal canto suo, stava in sull'avviso, guardava a quelli, guardava alla via, per coglier tempo di sdrucciolar giù quattamente, senza dar loro occasione di far qualche romore, qualche scandalo, che mettesse in malizia i passeggieri. Quand'ecco, a una volta di canto, gli parve di riconoscere il luogo per dove si trovava a passare: badò più attentamente, e lo riconobbe a più certi segni. Sapete dov'era? Sul corso di porta orientale, in quella via, per cui era venuto adagio e tornato in fretta, circa venti mesi innanzi. Gli sovvenne tosto che di lì s'andava dritto al lazzeretto; e questo trovarsi in sulla strada giusta, senza suo studio, senza indirizzo, lo ebbe per un tratto speciale della Providenza, e per buon augurio del rimanente. In quella, veniva incontro ai carri un commissario, gridando ai monatti di fermarsi, e non so che altro: basta che si fe' alto, e la musica si cangiò in un diverbio clamoroso. Uno dei monatti che stavano sul carro di Renzo, ne era saltato giù: Renzo disse all'altro: «vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne renda merito:» e giù dall'altra sponda. «Va, va, povero untorello,» rispose colui: «non sarai tu quello che spianti Milano.» Per buona sorte non v'era chi potesse intendere. Il convoglio era fermato sulla sinistra del corso: Renzo si porta in fretta dall'altra parte; e, rasentando il muro, trotta innanzi verso il ponte; lo passa, segue la nota via del borgo, riconosce il convento dei cappuccini, è presso alla porta, vede spuntar l'angolo del lazzeretto, varca il cancello; e gli si spiega dinanzi la scena esteriore di quel recinto: un indizio appena e una mostra, e già una vasta, diversa, inenarrabile scena. Lungo i due lati che si presentano a chi riguardi da quel punto, era tutto un bulicame; era un afflusso, un ribocco, un ristagnamento: infermi che andavano in isquadra al lazzeretto; alcuni sedevano o giacevano in sulle sponde dell'uno e dell'altro fossato che costeggian la via; chè le forze non eran loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, o, uscitine per disperazione, le forze eran loro mancate egualmente per andar più oltre. Altri infermi erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di sè affatto; quale stava tutto infervorato a raccontar le sue fantasie a un tapino che giaceva oppresso dal male; quale imperversava; quale appariva tutto ridente in vista, come se assistesse a un giocondo spettacolo. Ma la specie più strana e più clamorosa d'una tal trista allegrezza, era un cantare alto e continuo, che pareva venir da fuori di quella grama ragunata, e pur ne vinceva tutte le voci: una canzone popolaresca d'amore gaio e scherzevole, di quelle che chiamano villanelle; e andando col guardo dietro al suono, per iscoprire chi mai potesse esser lieto, allora, colà, si vedeva un meschino che, seduto tranquillamente in fondo al fossato che lambe il muro del lazzeretto, cantava a tutta gola, col volto in aria. Renzo aveva appena fatti alcuni passi, lungo il lato meridionale dell'edifizio, che si levò un romore straordinario in quella turba, e un grido lontano di guarda e di piglia. S'alza in punta di piedi, guata dinanzi, e vede un cavallaccio andar di carriera, spinto da un più lurido cavaliere: era un frenetico che, vista quella bestia sciolta e non guardata presso un carro, v'era salito in fretta a bisdosso, e martellandole il collo colle pugna, e facendo delle calcagna sproni, la cacciava in furia; e monatti dietro, urlando; e tutto si ravvolse in un nembo di polvere, che volava lontano. Così, già sbalordito e stanco di guai, il giovane giunse alla porta di quel luogo dove ne erano addensati forse più che non ne fossero sparsi in tutto lo spazio che gli era già toccato di scorrere. S'affaccia a quella porta, entra sotto la volta, e rimane un momento immobile, a mezzo del portico. S'imagini il lettore la chiostra del lazzeretto popolata di sedici mila appestati; quell'area tutta ingombra, dove di capanne e di trabacche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portico, a dritta e a sinistra, coperte, gremite di languenti o di cadaveri prostrati sopra stramazzi, o in sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichìo, un sommovimento, come un mareggio; e per entro, un andare e venire, un restare, un correre, un chinarsi, un sorgere, di convalescenti, di frenetici, di assistenti. Tale fu lo spettacolo che riempiè a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne li, sopraffatto e compreso. Nè questo spettacolo noi ci proponiamo di descriverlo a parte a parte, di che, certo, nessun lettore ci saprebbe grado; solo, seguendo il nostro giovane nella sua penosa andata, ci fermeremo alle sue fermate, e di ciò che gli toccò di vedere diremo quanto sia necessario a significar ciò ch'egli fece, e ciò che gli occorse. Dalla porta dov'egli s'era fermato, fino al tempietto centrale, e di là all'altra porta di rincontro, correva come un viale vôto di capanne e d'ogni altro stabile impedimento; e al secondo sguardo, egli vi scorse una gran faccenda di rimuover carri e di fare sgombro; scorse uficiali e cappuccini che dirigevano quell'operazione, e insieme mandavan via chi non avesse quivi che fare. E temendo d'essere anch'egli messo fuori a quel modo, si ficcò a dirittura tra le capanne, dal lato a cui si trovava casualmente rivolto, alla diritta. Andava innanzi, secondo che vedeva spazio da porre il piede, da capanna a capanna, mettendo il capo in ognuna, e adocchiando al di fuori ogni giaciglio, affisando volti abbattuti dal patimento, o contratti dallo spasimo, o immobili nella morte, se mai gli fosse dato di rinvenir quell'uno che pur paventava di rinvenire. Ma già aveva fatto un buon pezzetto di cammino e ripetuto assai e assai volte quel doloroso esame, senza che ancora gli venisse veduta una donna: onde s'imaginò che elle dovessero essere in uno spazio appartato. Nel che s'appose; ma del dove, nè aveva indizio, nè poteva fare argomento. Scontrava tratto tratto ministri, tanto diversi d'aspetto e di modi e d'abito, quanto diverso e opposto era il principio che dava agli uni e agli altri una forza eguale di vivere in tali uficii: negli uni l'estinzione d'ogni senso di pietà, negli altri una pietà sovrumana. Ma nè agli uni nè agli altri era tentato di chiedere indirizzo, per non crearsi alle volte un inciampo; e deliberò d'andare, andare da sè, fin che arrivasse a veder donne. E andando, non lasciava di spiare attorno; pure di tempo in tempo, gli era forza ritrarre lo sguardo conquiso, e come abbagliato da tante piaghe. Ma dove rivolgerlo, dove riposarlo che sovra altre piaghe? L'aria stessa e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo, l'orrore di quelle viste. La nebbia s'era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni, che, infoscandosi più e più, rendevano similitudine d'un annottar tempestoso; se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da dietro un fitto velame, il disco del sole, pallido, che spargeva intorno a sè un barlume fioco, e sfumato, e pioveva una caldura morta e pesante. Ad ora ad ora, tra il vasto ronzìo circonfuso, s'udiva un borbogliar di tuoni profondo, come tronco, irresoluto; nè, tendendo l'orecchio, avreste saputo distinguere da che lato venisse; o avreste potuto crederlo uno scorrer lontano di carri, che si fermassero improvvisamente. Non si vedeva, nelle campagne d'intorno, piegare un ramo d'albero, nè un uccello andarvisi a posare, o spiccarsene: solo la rondine, comparendo subitamente da sopra il tetto del recinto, sdrucciolava in giù coll' ali tese, come per rasentare il terreno del campo; ma sbigottita di quel rimescolamento, risaliva rapidamente e fuggiva. Era uno di quei tempi, in cui, tra una brigata di viandanti non v'è chi rompa il silenzio; e il cacciatore cammina pensoso, col guardo a terra; e la villana, zappando nel campo, cessa dal canto, senza avvedersene; di quei tempi forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza ad ogni faccenda, all'ozio, all'esistenza stessa. Ma in quel luogo destinato per sè al patire e al morire, si vedeva l'uomo già alle prese col male succumbere alla nuova oppressura; si vedevano le centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l'ultima lotta era più affannosa, e nell'aumento dei dolori, i gemiti più soffocati: nè forse su quel luogo era ancor passata un'ora amara al par di questa. Già s'era il giovane aggirato buona pezza e senza frutto per quell'andirivieni di capanne, quando, nella varietà de' lamenti e nella confusione del mormorìo, cominciò a distinguere un misto singolare di vagiti e di belati; fin che capitò dinanzi a un assito scheggiato e scommesso, da entro il quale veniva quel suono straordinario. Pose l'occhio a un largo spiraglio, tra due asse, e vide un chiuso, con entro capanne sparse, e, così in quelle, come nel picciol campo, non la solita infermeria, ma bambinelli corcati sopra coltricette, o guanciali, o lenzuola distese o pannicelli; e balie e altre donne in faccenda; e, ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre mescolate con quelle e fatte loro coadiutrici: uno spedale d'innocenti quale il luogo e il tempo potevan darlo. Era, dico, nuova cosa a vedere alcune di quelle bestie, ritte e quete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra accorrere ad un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso il picciolo chiamante, e procurar di acconciarvisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi domandando chi venisse in aiuto ad entrambi. Qua e là eran sedute balie con bamboli al petto; alcune in tale atto d'amore, da far nascer dubbio nel riguardante, se fossero state attirate quivi dalla mercede, o da quella carità spontanea che va in cerca dei bisogni e dei dolori. Una di esse, tutta accorata in volto, staccava dal suo seno esausto un meschinello piangente, e andava tristamente in cerca della bestia, che potesse far le sue veci. Un'altra mirava con occhio di compiacenza quello che le si era addormentato sulla poppa, e, baciatolo mollemente, lo andava ad adagiare sur una coltrice in una capanna. Ma una terza, abbandonando il suo petto al lattante straniero, in una cert'aria però non di trascuranza ma di preoccupazione, guardava fiso in cielo: a che pensava ella, in quell'atto, con quel guardo, se non a un nato dalle sue viscere che, forse poco prima, aveva succhiato quel petto, che,forse v'era spirato sopra? Altre donne più provette attendevano ad altri servigi. Quale accorreva alle grida d'un pargolo affamato, lo raccoglieva, e lo portava presso una capra pascente ad un mucchio d'erba fresca, e glielo presentava alle poppe, garrendo insieme e careggiando colla voce l'inesperto animale, sicchè si prestasse dolcemente all'uficio. Questa balzava a cansare un'altra capra che scalpitava un poverino, tutta intenta a lattarne un altro: quella portava attorno il suo, ninnandolo fra le braccia, cercando ora di addormentarlo col canto, ora di acquetarlo con dolci parole, chiamandolo con un nome ch'ella le aveva imposto. Giunse in quella un cappuccino colla barba bianchissima, recando due pargoletti strillanti, uno per braccio, raccolti allora allora presso alle madri esanimate; e una donna corse a riceverli, e andava guatando, fra la brigata e nel gregge, per trovar tosto chi tenesse lor luogo di madre. Più d'una volta il giovane, sospinto dalla sua cura, s'era staccato dallo spiraglio, per andarsene, e poi vi aveva rimesso l'occhio, per guardare ancora un momento. Levatosi di là finalmente, andò lungo l'assito, fin che un mucchietto di capanne appoggiate a quello, lo costrinse a dar di volta. Andò allora lungo le capanne, colla mira di riguadagnar l'assito, di voltarne il canto e scoprir paese nuovo. Or mentre guardava oltre, per istudiar la via, un'apparizione repentina, passeggiera, istantanea, gli ferì lo sguardo e gli mise l'animo sossopra. Vide, a un cento passi di distanza, trapassare e perdersi tosto fra le trabacche un cappuccino, un cappuccino che anche così da lontano e di fuga, aveva tutto l'andare, tutto il fare, tutta la forma del padre Cristoforo. Colla smania che potete pensare, corse verso quella parte; e lì, a girare, a cercare, innanzi, indietro, dentro e fuori, per giravolte e per istrette, tanto che rivide con altrettanta gioia quella forma, quel frate medesimo; lo vide poco lontano, che, scostandosi da una gran pentola, andava, con una scodella in mano, verso una capanna; poi lo vide sedersi in sull'uscio di quella, fare un segno di croce sulla scodella che teneva dinanzi, e, guardandosi attorno, come uno che stia sempre all'erta, mettersi a mangiare. Era proprio il padre Cristoforo. La storia del quale, dal punto che l'abbiam perduto di vista, fino a questo incontro, sarà raccontata in due parole. Non s'era mai mosso di Rimini, nè aveva pensato a muoversene, se non quando la peste scoppiata in Milano gli offerse occasione di ciò che aveva sempre tanto desiderato, di dar la vita pel prossimo. Supplicò con grande istanza d'esserci richiamato, per servire ed assistere gli appestati. Il conte zio era morto; e del resto il tempo abbisognava più d'infermieri che di politici: sicchè egli fu esaudito senza difficoltà. Venne tosto a Milano; entrò nel lazzeretto; e vi stava da circa tre mesi. Ma la consolazione di Renzo nel ritrovar così il suo buon frate, non fu netta pure un momento: insieme colla certezza ch'egli era lui, ricevette una dolorosa impressione del come egli era mutato. Il portamento, curvo e come doglioso; la faccia, scarna e sparuta; e in tutto si vedeva una natura esausta, una carne rotta e cadente, che si aiutasse e come si sorreggesse ad ogni istante, con uno sforzo dell'animo. Andava egli pure tendendo lo sguardo nel giovane che veniva a lui, e che, col gesto, non osando colla voce, cercava di farglisi distinguere e riconoscere. «Oh padre Cristoforo!» disse poi, quando gli fu così presso, da essere inteso senza gridare. «Tu qui!» disse il frate, mettendo in terra la scodella, e levandosi da sedere. «Come sta ella, padre? come sta?» «Meglio di tanti poveretti che tu vedi,» rispose il frate: e la sua voce era fioca, cupa, mutata come tutto il resto. L'occhio soltanto era quel di prima, o un non so che più vivo e più splendido; quasi la carità, sublimata nell'estremo dell'opera, ed esultante del sentirsi vicina al suo Principio, vi restituisse un fuoco più ardente, e più puro di quello che l'infermità vi andava ad ora ad ora spegnendo. «Ma tu,» proseguiva, «come sei in questo luogo? perchè vieni così ad affrontare la peste?» «L'ho avuta, grazie al cielo. Vengo… a cercar di… Lucia.» «Lucia! È qui Lucia?» «È qui: almeno spero in Dio che la ci sia ancora.» «È ella tua moglie?» «Oh, caro padre! no che non è mia moglie. Non sa nulla di tutto quello che è accaduto?» «No, figliuolo: da che Dio m'ha allontanato da voi, io non ne ho saputo più nulla; ma ora ch'Egli mi ti manda, dico il vero che desidero assai di saperne. Ma… e il bando?» «Le sa dunque le cose, che m'hanno fatte?» «Ma tu, che avevi tu fatto?» «Senta; se volessi dire d'aver avuto giudizio, quel giorno in Milano, direi la bugia; ma cattive azioni non ne ho fatte mica.» «Te lo credo, e lo credevo anche prima.» «Ora dunque le potrò dir tutto.» «Aspetta,» disse il frate; e, dati alcuni passi fuor della capanna, chiamò: «padre Vittore!» Poco stante, comparve un giovane cappuccino, al quale egli disse: «fatemi la carità, padre Vittore, di attendere, anche per me, a questi nostri poveretti, intanto ch'io me ne sto ritirato: e se alcuno però mi domandasse me, vogliate chiamarmi. Quel tale principalmente! se mai desse il più picciolo segno di tornare in sentimento, ch'io ne sia subito avvisato, per carità.» Il giovane frate rispose che farebbe; e il vecchio tornato verso Renzo, «entriamo qui,» gli disse. «Ma…» soggiunse tosto, fermandosi, «tu mi pari ben rifinito: tu dei aver bisogno di mangiare.» «È vero» disse Renzo: «ora ch'ella mi ci fa pensare, mi ricordo che sono ancora digiuno.» «Aspetta,» disse il frate; e, tolta un'altra scodella, l'andò a riempiere al pentolone; tornato, la presentò con un cucchiaio a Renzo; lo fe' sedere sur un saccone che gli serviva di letto; poi andò a una botte che stava in un canto, e ne portò un bicchier di vino, che pose sur un deschetto presso al suo convitato; riprese quindi la sua scodella, e si mise a sedere accanto a lui. «Oh padre Cristoforo!» disse Renzo: «tocca a lei di far codeste cose? Ma ella è sempre quel medesimo. La ringrazio mo di cuore.» «Non ringraziar me,» disse il frate: «la è roba dei poveri; ma anche tu sei un povero in questo momento. Ora dimmi quello che non so, dimmi di quella nostra poveretta; e cerca di far con poche parole; chè il tempo è scarso, e il da fare assai, come tu vedi.» Renzo principiò, tra un cucchiaio e l'altro, la storia di Lucia: come era stata ricoverata nel monastero di Monza, come rapita… All'imagine di tali patimenti e di tali pericoli, al pensiero di essere egli stato quello che aveva indirizzata in quel luogo la povera innocente, il buon frate rimase senza respiro; ma lo riebbe poi tosto, all'udire come ella era stata mirabilmente liberata, renduta alla madre e allogata da questa presso a donna Prassede. «Ora le dirò di me,» proseguì il narratore; e raccontò in succinto la giornata di Milano, la fuga; e come era sempre stato lontano da casa, e ora, essendo ogni cosa sossopra, s'era assicurato di andarvi; come non aveva trovato colà Agnese; come in Milano aveva saputo che Lucia si trovava al lazzeretto. «E son qui,» conchiuse, «son qui a cercarla, a veder se è viva, e se… mi vuole ancora… perchè… alle volte…» «Ma come sei tu qui indirizzato?» chiese il frate: «hai qualche indizio del dove ella sia stata riposta, del quando ci sia venuta?» «Niente, caro padre; niente se non che è qui, se pur la c'è, che Dio voglia!» «Oh poveretto! Ma che diligenza hai tu finora fatta qui?» «Ho girato e girato; ma, tra l'altre cose, non ho mai veduto quasi altro che uomini. Ho ben pensato che le donne debbano essere in un luogo a parte; ma non vi sono mai potuto arrivare: se la è così, ora ella me lo insegnerà.» «Non sai tu, figliuolo, che è proibito d'entrarvi agli uomini che non v'abbiano qualche incumbenza?» «Oh bene, che cosa mi può accadere?» «La regola è giusta e santa, figliuol caro: e se la quantità e la gravezza dei guai non lascia ch'ella si possa far rispettare con tutto il rigore, è ella una ragione questa perchè un galantuomo la trasgredisca?» «Ma, padre Cristoforo!» disse Renzo: «Lucia doveva essere mia moglie; ella sa come siamo stati separati; son venti mesi che patisco e porto pazienza; son venuto fin qui, a rischio di tante cose, l'una peggio dell'altra; e adesso mo…» «Non so che dire,» ripigliò il frate, rispondendo piuttosto ai suoi pensieri che alle parole del giovane: «tu vai a buona intenzione; e piacesse a Dio che tutti quelli che hanno libero accesso in quel luogo, vi si comportassero come posso fidarmi che tu farai. Dio, il quale certamente benedice questa tua perseveranza d'affetto, questa tua fedeltà in volere e in cercare colei ch'Egli t'aveva data, Dio, che è più rigoroso degli uomini, ma più indulgente, non vorrà guardare a quel che ci possa essere d'irregolare in codesto tuo modo di cercarla. Ricordati solo, che della tua condotta in quel luogo avremo a render conto tutti e due, agli uomini facilmente no, ma a Dio senza fallo. Vien qui.» In così dire, s'alzò, e con lui Renzo; il quale, non lasciando di dar retta alle sue parole, s'era intanto consigliato seco stesso di non parlare, come da prima s'era proposto, di quella tal promessa di Lucia. – Se sente anche questo, – aveva pensato, – mi fa delle altre difficoltà sicuro. O la trovo; e saremo sempre a tempo a discorrere: o… e allora! che serve? – Trattolo sull'apertura della capanna, ch'era volta a settentrione, il frate ripigliò: «ascolta; il nostro padre Felice, che è il presidente qui del lazzeretto, conduce oggi, a far la quarantena altrove i pochi guariti che ci sono. Tu vedi quella chiesa lì nel mezzo…» e, levando la destra scarna e tremolante, segnava a manca nell'aere torbido la cupola del tempietto torreggiante sopra le miserabili tende; e seguiva: «là intorno si vanno ora ragunando, per uscire in processione dalla porta per la quale tu dei essere entrato.» «Ah! egli era per questo dunque, che lavoravano a disimpedir la strada.» «Appunto: e tu dei anche avere inteso qualche tocco di quella campanella.» «Uno ne ho inteso.» «Era il secondo: al terzo saran tutti radunati: il padre Felice farà loro due parole; e poi si avvierà con loro. Tu, a quel segno, portati colà; fa di allogarti dietro la radunanza, sull'orlo del viale, dove, senza dar disturbo, nè farti scorgere tu possa vederli passare; e vedi… vedi… vedi se la ci fosse. Se Dio non ha voluto che la ci sia; quella parte,» e levò di nuovo la mano, additando il lato dell'edificio che avevano di rimpetto: «quella parte della fabbrica, e una parte del campo che gli è dinanzi, è assegnata alle donne. Vedrai uno steccato che divide questo da quel quartiere, ma dove interrotto, dove aperto, sicchè non troverai difficoltà all'entrare. Dentro poi, non facendo tu nulla che dia ombra a nessuno, nessuno probabilmente non dirà nulla a te; se però ti si facesse qualche ostacolo, di' che il padre Cristoforo da *** ti conosce, e darà conto di te. Cercala quivi; cercala con fiducia e… con rassegnazione. Perchè, ricordati che è gran cosa ciò che tu sei venuto a domandar qui: tu domandi una persona viva al lazzeretto! Sai tu quante volte io ho veduto rinnovarsi questo mio povero popolo! quanti ne ho veduti portar via! quanto pochi uscire!… Va preparato a fare un sagrificio…» «Già! capisco anch'io,» interruppe Renzo, travolgendo lo sguardo, e oscurandosi tutto in volto: «capisco! Vo: guarderò, cercherò, in un luogo, nell'altro, e poi ancora da cima a fondo, per tutto il lazzeretto… e se non la trovo…!» «Se non la trovi?» disse il frate in aria d'un serio aspettare, e con uno sguardo che ammoniva. Ma Renzo a cui l'ira già già rigonfiata in cuore, appannava la vista e toglieva il rispetto, ripetè e seguì: «se non la trovo, farò di, trovare qualchedun altro. O in Milano, o nel suo scelerato palazzo, o in capo del mondo, o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante che ci ha separati; quel birbone che, se non fosse stato egli, Lucia sarebbe mia, da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme. Se c'è ancora colui, lo troverò…» «Renzo!» disse il frate, afferrandolo per un braccio, e guardandolo ancor più severamente. «E se lo trovo,» continuò quegli, cieco affatto della collera, «se la peste non ha già fatto una giustizia… Non è più il tempo che un poltrone, co' suoi bravi attorno, possa metter la gente alla disperazione, e ridersene: è venuto un tempo che gli uomini s'incontrino viso a viso: e… la farò io la giustizia!» «Sciaurato!» gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripigliata tutta l'antica pienezza e sonorità: «sciaurato!» e il suo capo gravato sul petto s'era sollevato, le guance si coloravano dell'antica vita e il fuoco degli occhi aveva non so che di terribile. «Guarda, sciaurato!» E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l'altra dinanzi a sè, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all'intorno. «Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu sai tu quale sia la giustizia! Va, sciaurato, vattene! Io sperava… sì, ho sperato che, prima della mia morte, Dio mi avrebbe dato questa consolazione di udir che la mia povera Lucia fosse viva; forse di vederla, e di sentirmi promettere, ch'ella manderebbe una preghiera là verso quella fossa dov'io sarò. Va, tu m'hai tolta la mia speranza. Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l'ardimento di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei, perchè ella è di quelle anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va! non ho tempo di più darti retta.» E, così dicendo, gettò da sè il braccio di Renzo, e si mosse verso una capanna d'infermi. «Ah padre!» disse Renzo, andandogli dietro in atto di supplichevole: «mi vuol ella mandar via a questo modo?» «Come!» riprese con voce non meno severa il cappuccino: «ardiresti tu di pretendere che io rubassi il tempo a questi afflitti i quali aspettano ch'io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta? Ti ho ascoltato quando tu domandavi consolazione e indirizzo; mi son tolto alla carità, per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore: che vuoi da me? vattene. Ne ho veduti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori, che gemevano di non potersi umiliare dinanzi all'offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare?» «Ah gli perdono! gli perdono da vero, gli perdono per sempre!» sclamò il giovane. «Renzo!» disse, con una severità più pacata il frate: «pensaci; e di' un po' quante volte gli hai perdonato.» E, stato alquanto senza ricever risposta, tutto a un tratto chinò il capo, e con voce raumiliata riprese: «tu sai perchè io porto quest'abito!» Renzo esitava. «Tu lo sai!» riprese il vecchio. «Lo so,» rispose Renzo. «Io ho odiato anch'io: io, che t'ho sgridato per un pensiero, per una parola, l'uomo che io odiava, ch'io odiava cordialmente, ch'io odiava da gran tempo, io l'ho ucciso.» «Sì, ma un prepotente, un di quei…» «Taci,» interruppe il frate: «credi tu, se ci fosse una buona ragione, ch'io non l'avrei trovata in trent'anni? Ah! s'io potessi ora metterti in cuore il sentimento che ho avuto poi sempre, e che ho, per l'uomo ch'io odiava! S'io potessi! io? Ma Dio lo può: Egli lo faccia!… Senti, Renzo; Egli ti vuol più bene che tu non te ne voglia: tu hai potuto pensar la vendetta; ma Egli ha abbastanza forza e abbastanza misericordia per impedirtela; ti fa una grazia di cui altri era troppo indegno. Tu sai, tu l'hai detto tante volte, ch'Egli può fermar la mano d'un prepotente; ma sappi che può anche fermar quella d'un vendicativo. E perchè sei povero, perchè sei offeso, credi tu ch'Egli non possa difendere contra te un uomo che ha creato a sua imagine? Credevi tu ch'Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai tu che cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi con un tuo sentimento allontanar da te ogni benedizione. Perchè, comunque ti andasser le cose, qualunque fortuna ti venisse, tieni ben per certo che tutto sarà castigo, finchè tu non abbi perdonato, perdonato in modo, da non poter dire mai più: io gli perdono.» «Sì, sì,» disse Renzo tutto commosso, e tutto confuso: «capisco ch'io non gli aveva mai perdonato da vero; capisco che ho parlato da bestia e non da cristiano: e adesso, con la grazia del Signore, sì, gli perdono mo proprio di cuore.» «Pregherei il Signore di darmi pazienza a me, e di toccargli il cuore a lui.» «Ti ricorderesti che il Signore non ci ha detto di perdonare ai nostri nemici, ci ha detto di amarli? Ti ricorderesti ch'Egli lo ha amato a segno di morir per lui?» «Sì, col suo aiuto.» «Ebbene; vieni a vederlo. Hai detto: lo troverò; lo troverai. Vieni e vedrai contro chi tu potevi serbar odio, a chi tu potevi desiderar del male, volergliene fare, sopra che vita tu volevi far da padrone.» E, presa la mano di Renzo, e strettala come avrebbe potuto fare un giovane sano, si mosse. Quegli, senza osar di chiedere altro, gli tenne dietro. Dopo un breve cammino, il frate ristette presso all'apertura d'una capanna; fissò gli occhi in faccia a Renzo, con un tal misto di gravità e di tenerezza; e lo tirò dentro. La prima cosa che appariva all'entrarvi era un infermo seduto in sulla paglia nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il padre, dimenò il capo, come accennando di no: il padre abbassò il suo, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo intanto, girando con una curiosità inquieta lo sguardo su gli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno dall'un de' lati, sur una coltrice, ravvolto in un lenzuolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coltre: lo fissò, riconobbe don Rodrigo; e dava addietro: ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo trasse appiè del giaciglio, e, stesavi sopra l'altra mano, segnava col dito l'uomo che v'era prosteso. Stava l'infelice immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; smorta la faccia e sparsa di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l'avreste detta la faccia d'un cadavere, se una contrazione violenta non vi avesse rivelata una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, per un anelito affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore con uno strignere adunco delle dita, livide tutte, e in sulla punta nere. «Tu vedi!» disse il frate, con voce bassa e solenne. «Può esser castigo, può esser misericordia. Qual sentimento tu proverai ora per quest'uomo, che, sì! ti ha offeso, tal sentimento il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro dì egli è qui, come tu lo vedi, senza dare indizio di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un'ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse riserba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d'un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest'uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione… d'amore!» Tacque; e, giunte le mani, chinò il volto sovr'esse, come a pregare: Renzo fece il simigliante. Erano da pochi momenti in quella positura, quando intonò il terzo tocco della squilla. Si mossero entrambi, come di concerto; ed uscirono. Nè l'uno fece domande, nè l'altro proteste: i loro volti parlavano. «Va adesso,» ripigliò il frate, «va preparato a fare un sagrificio, a lodar Dio, qualunque sia l'esito delle tue ricerche. E qualunque sia, vieni a darmene conto: noi lo loderemo insieme.» Qui, senz'altro dire, si separarono; l'uno tornò dond'era venuto; l'altro s'avviò al tempietto, il qual non era discosto più che un trar di mano. Chi avrebbe mai detto a Renzo, qualche ora prima, che, nel forte d'una tale ricerca, al cominciar de' momenti più dubbiosi e più decisivi, il suo cuore sarebbe stato diviso tra Lucia e don Rodrigo? Eppure la era così: quella figura veniva a mescersi a tutte le imagini care o terribili che la speranza e il timore gli mettevano a vicenda dinanzi, in quel tragitto; le parole udite appiè di quella coltrice, si cacciavano tra i sì e i no, ond'era combattuta la sua mente; e non poteva conchiudere una preghiera per l'esito felice del grande cimento, senza attaccarvi quella che aveva principiata colà, e che il suono della squilla aveva tronca. Il tempietto ottangolare che sorge, elevato sul suolo d'alcuni gradi, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperto da tutti i lati, senz'altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per così dire, a traforo: in ogni fronte un arco, fra due intercolunnii; dentro girava un portico attorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d'otto archi, retti da pilastri, sormontati da una cupoletta, e rispondenti a quei delle fronti; per modo che l'altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo. Ora, convertito l'edifizio a tutt'altr'uso, i vani delle fronti son murati; ma l'antica ossatura, rimasta intatta, indica assai chiaramente l'antico stato e l'antica destinazione di quello. Renzo era appena avviato, che vide il padre Felice comparire nel portico del tempio e farsi all'arco di mezzo del lato che è volto alla città, dinanzi al quale era disposta la radunanza, al basso, nella corsìa; e tosto dal suo contegno s'accorse ch'egli aveva cominciata la predica. Si rigirò per quei viottoli, in modo di arrivare alla coda dell'uditorio, come gli era stato suggerito. Giuntovi, si fermò cheto cheto, lo trascorse tutto collo sguardo; ma non vedeva di là altro che una spessezza, direi quasi un selciato di teste. Nel mezzo, ve n'era un certo numero coperte di fazzoletti, o di veli: ivi ficcò egli più attentamente gli occhi; ma, non gli riuscendo di scoprirvi entro nulla di più, li levò anch'egli colà dove tutti tenevano fissi i loro. Rimase tocco e compunto dalla venerabile figura del dicitore; e, con quel che gli poteva restar d'attenzione in un tal punto d'aspetto, intese questa parte del solenne ragionamento. «Diamo un pensiero ai mille e mille che sono usciti per di là;» e, col dito levato sopra la spalla, accennava dietro sè la porta che mette al cimitero detto di san Gregorio, il quale allora era tutto, si può dire, una gran fossa: «diamo attorno un'occhiata ai mille e mille che rimangon qui, troppo incerti donde siano per uscire; diamo un'occhiata a noi, così pochi, che ne usciamo a salvamento. Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perchè l'ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un picciolo popolo corretto dall'afflizione e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente come la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, la impieghiamo nelle opere che si possono offrire a Lui? se non a fine che la memoria dei nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi? Questi intanto, in compagnia dei quali abbiamo penato, sperato, temuto; fra i quali lasciamo degli amici, dei congiunti; e che tutti son poi finalmente nostri fratelli; quelli fra questi, che ci vedranno passare in mezzo a loro, mentre forse riceveranno qualche sollievo nel pensare che altri esce pur salvo di qui, ricevano edificazione dal nostro contegno. Tolga Dio che possano scorgere in noi una gioia clamorosa, una gioia mondana dell'avere scansata quella morte, contro la quale stanno essi ancor dibattendosi. Veggano che ci partiamo ringraziando per noi e pregando per essi; e possano dire: anche fuor di qui, questi si ricorderanno di noi, continueranno a pregare per noi poveretti. Cominciamo da questo viaggio, dai primi passi che siam per dare, una vita tutta di carità. Quelli che sono tornati nell'antico vigore diano un braccio fraterno ai fiacchi; giovani, sostenete i vecchi; voi che siete rimasti senza figliuoli, vedete, attorno a voi, quanti figliuoli rimasti senza padre! siatelo per loro! E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori.» Qui un sordo mormorìo di gemiti e di singulti che andava crescendo nell'adunanza, fu sospeso a un tratto, al vedere il predicatore porsi una corda al collo, e cader ginocchioni; e in gran silenzio si stava aspettando quel ch'egli fosse per dire. «Per me,» diss'egli, «e per tutti i miei compagni, che, fuor d'ogni nostro merito, siamo stati trascelti all'alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi domando umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempiuto un sì grande ministero. Se la pigrizia, se l'indocilità della carne ci ha renduti meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se una ingiusta impazienza, se un colpevole rincrescimento ci ha fatto talvolta mostrarvi un volto annoiato e severo; se talvolta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quella umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione, che vi sia stata di scandalo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica.» E, fatto sull'udienza un gran segno di croce, si levò. Noi abbiam potuto riferire, se non le formali parole, il senso almeno e l'assunto di quelle ch'egli proferì da vero; ma il modo con che furon porte non è cosa da potersi descrivere. Era il modo d'un uomo che chiamava privilegio quello di servire agli appestati, perchè lo teneva per tale; che confessava di non avervi degnamente corrisposto, perchè sentiva di non avervi corrisposto degnamente; che domandava perdono, perchè era persuaso d'averne bisogno. Ma la gente che s'era veduti attorno quei cappuccini non d'altro occupati che di servirla, che ne aveva veduti tanti morire, e quello che parlava per tutti, sempre il primo alla fatica, come nell'autorità, se non quando s'era trovato anch'egli presso a morire; pensate con che singhiozzi, con che lagrime rispose a una tale proposta. Il mirabile frate tolse poi una gran croce che stava appoggiata a un pilastro, la inalberò dinanzi a sè, lasciò sull'orlo del portico esteriore i sandali, scese gli scaglioni del tempio, e, tra la folla che gli diè riverentemente passaggio, s'avviò per mettersi alla testa di essa. Renzo, tutto lagrimoso nè più nè meno che se fosse stato un di quelli a cui era chiesta quella singolare perdonanza, si trasse anch'egli più addietro, e venne a porsi a fianco d'una capanna; e quivi stette aspettando, mezzo appiattato, colla persona indietro e il capo innanzi, cogli occhi ben aperti, con una gran palpitazione di cuore, ma insieme con una certa nuova e particolare fiducia, nata, cred'io, dalla tenerezza in che l'aveva posto la predica e lo spettacolo della tenerezza generale. Ed ecco arrivare il padre Felice, scalzo, con quella corda al collo, con quella lunga e pesante croce alzata; pallido e scarno il volto, un volto che spirava compunzione insieme e coraggio, a passi tardi, ma risoluti, come di chi vuoi risparmiare l'altrui debolezza, e in tutto come uomo a cui quelle fatiche e quei disagi di soprabbondanza dessero la forza di sostenere i tanti necessarii e inseparabili da quel suo incarico. Seguivano immediatamente i fanciulli più grandicelli, a piè nudo una gran parte, ben pochi interamente vestiti, quale affatto in camicia. Venivano poi le donne, dando quasi tutte la mano a una fanciulletta e cantando alternativamente il Miserere; e il suono fiacco di quel le voci, lo smortore e la languidezza di quei volti eran cose da occupar tutto di pietà l'animo di chiunque si fosse quivi trovato come semplice spettatore. Ma guardava, esaminava, di fila in fila, di faccia in faccia, senza trapassarne una; che l'andar lento lento della processione gliene dava agio bastante. Passa e passa; guarda e guarda; sempre per niente: gittava mezze occhiate alla torma che rimaneva ancora addietro, e che si andava scemando: sono ormai poche file; siamo all'ultima; son tutte passate; furon tutti visi sconosciuti. Colle braccia spenzolate, e colla testa piegata su una spalla, lasciò andar l'occhio dietro a quella schiera, mentre gli passava dinanzi quella degli uomini. Una nuova attenzione, una nuova speranza gli nacque al veder dopo questi comparire alcuni carri, che portavano i convalescenti non abili ancora al cammino. Quivi le donne venivano ultime; e il treno progrediva pur così adagio che Renzo potè ugualmente rassegnar tutte quell'altre convalescenti, senza che una gli sfuggisse. Ma che? esamina il primo carro, il secondo, il terzo, e via discorrendo, sempre con la stessa riuscita, fino ad uno, dietro cui non veniva più che un altro cappuccino, con un aspetto serio, e con un bastone in mano, come regolatore del convoglio. Era quel padre Michele che abbiam detto essere stato dato per coadiutore nel governo al padre Felice. Così si dileguò del tutto quella soave speranza; e, dileguandosi, non solo portò via il conforto che aveva recato, ma, come accade il più sovente, lasciò l'uomo in peggior condizione di prima. Ormai la contingenza più felice era di trovar Lucia inferma. Pure, all'ardore d'una speranza presente sottentrando quello del timore cresciuto, s'attaccò egli con tutte le forze dell'animo a quel tristo e debole filo; uscì nella corsìa, e si mosse verso donde la processione era venuta. Quando fu appiè del tempietto, andò a porsi ginocchione sull'ultimo gradino; e quivi fece a Dio una preghiera, o per dir meglio un viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, d'istanze, di querele, di promesse: uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini, perchè non hanno abbastanza acume per intenderli, nè sofferenza per ascoltarli; non sono grandi abbastanza per sentirne compassione senza disprezzo. Si rizzò, alquanto più rincorato; volse attorno al tempio, si trovò nell'altra corsìa che non aveva ancora veduta e che faceva capo all'altra porta; dopo non molto andare, vide a dritta e a sinistra lo steccato di cui gli aveva detto il frate, ma tutto a squarci e a valichi, appunto com'egli aveva detto; entrò per uno di quelli, e si trovò nel quartiere delle donne. Quasi in sul primo passo che vi diede, gli venne veduta per terra una campanella, di quelle che i monatti portavano ai piedi, intera, co' suoi laccetti; gli cadde in cuore che un tale stromento avrebbe potuto servirgli come di passaporto là entro; lo ricolse, guardò se nessuno lo guardava, e se l'allacciò. E tosto die' principio alla ricerca, a quella ricerca, che, per la moltiplicità sola degli oggetti sarebbe stata fieramente gravosa, quand'anche gli oggetti fossero stati tutt'altri; cominciò a scorrer con l'occhio, anzi a contemplar nuove scene di guai, così simili in parte alle già vedute, in parte così dissimili: chè, sotto la stessa calamità, era qui un altro patire, per dir così, un altro languire, un altro dolersi, un altro sopportare, un altro compatirsi e soccorrersi a vicenda; era, in chi guardasse, un'altra pietà, per dir così, e un altro ribrezzo. Aveva già fatto non so quanto di strada, senza frutto e senza accidenti; quando s'intese dietro le spalle un «oh!» una chiamata, che pareva venire a lui. Si volse e vide, a una certa distanza, un commissario, che levò le mani, accennando a lui proprio, e gridando: «là nelle stanze, chè v'è bisogno d'aiuto: qui è appena finito di spazzare.» Renzo s'avvisò immediatamente per chi veniva preso, e che la campanella era cagione dell'equivoco; si die' della bestia d'aver pensato soltanto ai disturbi che quella insegna gli poteva scansare, e non a quelli che gli poteva tirare addosso; ma pensò nello stesso punto al come sbrigarsi subito da colui. Gli fe' replicatamente e in fretta un cenno del capo, come a dire che aveva inteso, e che obediva; e si tolse alla sua vista, cacciandosi da una banda fra le capanne. Quando gli parve d'essere abbastanza lontano, pensò anche a levarsi d'attorno la causa dello scandalo; e, per far quella operazione senza essere osservato, andò a porsi in una stretta fra due capannucce, che avevano i dorsi volti l'una all'altra. Si china a sciorre i laccetti, e stando così col capo appoggiato alla parete di paglia dell'una delle capannucce, gli vien da quella all'orecchio una voce… Oh cielo! è egli possibile? Tutta la sua anima è in quell'orecchio: la respirazione è sospesa… Sì! sì! è quella voce!… «Paura di che?» diceva quella voce soave: «abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso.» Se Renzo non mise uno strido, non fu per timore di farsi scorgere, fu perchè non n'ebbe il fiato. Le ginocchia gli mancaron sotto, gli s'appannò la vista; ma fu un primo momento; al secondo, era in piedi, più desto, più vigoroso di prima; in tre salti girò la capanna, fu sull'uscio, vide colei che aveva parlato, la vide in piedi, inchinata sopra un lettuccio. Si volge essa al romore; guarda, crede di travedere, di sognare; guarda più fiso, e grida: «oh Signor benedetto!» «Lucia! v'ho trovata! vi trovo! siete proprio voi! siete viva!» sclamò Renzo, avanzando, tutto tremante. «Oh Signor benedetto!» replicò, ben più tremante, Lucia: «voi? che cosa è questa? in che maniera? perchè? La peste!» «L'ho avuta. E voi…!» «Ah! anch'io. E di mia madre…?» «Non l'ho veduta, perchè è a Pasturo; credo però che stia bene. Ma voi… come siete ancora smorta! come parete debole! Guarita però, siete guarita?» «Il Signore m'ha voluto lasciare ancora quaggiù. Ah Renzo! perchè siete voi qui?» «Perchè?» disse Renzo facendosele sempre più accosto: «mi domandate perchè? Perchè ci doveva io venire? Fa bisogno ch'io ve lo dica? Chi ho io a cui pensi? Non mi chiamo più Renzo, io? Non siete più Lucia, voi?» «Ah, che cosa dite! che cosa dite! Ma non vi ha fatto scrivere mia madre…?» «Sì: anche troppo m'ha fatto scrivere. Belle cose da fare scrivere a un povero disgraziato, tribolato, fuggiasco, a un giovane che, dispetti almeno, non ve ne aveva mai fatti!» «Ma Renzo! Renzo! giacchè sapevate… perchè venire? perchè?» «Perchè venire? Oh Lucia! perchè venire, mi dite? Dopo tante promesse! Non siam più noi? Non vi ricordate più? Che cosa mancava?» «Oh Signore!» sclamò dolorosamente Lucia, giugnendo stretto le mani, e levando gli occhi al cielo: «perchè non mi avete fatta la grazia di prendermi con Voi…! Oh Renzo, che cosa avete mai fatto? Ecco; io cominciava a sperare che… col tempo… mi sarei dimenticata…» «Bella speranza! Belle cose da dirmele a me in sulla faccia!» «Ah, che cosa avete fatto! E in questo luogo! tra queste miserie! tra questi spettacoli! qui dove non si fa altro che morire, avete potuto… !» «Quei che muoiono, bisogna pregar Dio per loro, e sperare che andranno in un buon luogo; ma non è mica giusto, nè anche per questo, che quei che vivono abbiano da vivere disperati…» «Ma, Renzo! Renzo! voi non pensate a quel che dite. Una promessa alla Madonna!… Un voto!» «E io vi dico che son promesse che non contano niente.» «Oh Signore! Che dite voi? Dove siete stato, in questo tempo? Con chi avete trattato? Come parlate?» «Parlo da buon cristiano; e della Madonna penso meglio io che non voi; perchè credo che non vuol promesse in danno del prossimo. Se la Madonna avesse parlato, oh allora! Ma che cos'è stato? una vostra idea di voi. Sapete che cosa dovete promettere alla Madonna? Promettetele che la prima figlia che avremo, le metteremo nome Maria; chè questo son qui anch'io a prometterlo: queste son cose che fanno ben più onore alla Madonna: queste son divozioni che hanno più costrutto, e non portano danno a nessuno.» «No no; non dite così: non sapete quello, che vi diciate: non sapete voi che cosa sia fare un voto: non siete stato voi in quel caso: non avete provato. Lasciatemi, lasciatemi, per amor del cielo!» E si scostò impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio. «Lucia!» diss'egli, senza muoversi: «ditemi almeno, ditemi: se non fosse questa ragione… sareste la stessa per me?» «Uomo senza cuore!» rispose Lucia, volgendosi, e tenendo a stento le lagrime: «quando mi aveste fatte dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste contento? Andate, oh andate! dimenticatevi di me: non eravamo destinati! Ci rivedremo lassù: già non ci si ha da star molto in questo mondo. Andate; cercate di far sapere a mia madre che son guarita, che anche qui Dio mi ha sempre assistita, che ho trovata un'anima buona, questa brava donna, che mi fa da madre; ditele che spero ch'ella sarà preservata da questo male, e che ci rivedremo quando Dio vorrà, e come vorrà. Andate, per amor del cielo, e non vi ricordate di me… se non quando pregate il Signore.» E, come chi non ha più altro da dire, nè vuol altro intendere, come chi vuol sottrarsi a un pericolo, si ritirò ancor più presso al lettuccio, dove giaceva la donna di cui ella aveva parlato. «Sentite, Lucia, sentite!» disse Renzo, senza però farsele più accanto. «No, no; andate, per carità!» «Sentite: il padre Cristoforo…» «Che?» «È qui». «Qui? Dove? Come lo sapete?» «Gli ho parlato poco fa; sono stato un pezzo con lui: e un religioso della sua qualità, mi pare…» «È qui! per assistere i poveri infermi, sicuro. Ma egli? l'ha avuta egli la peste?» «Ah Lucia! ho paura, ho paura pur troppo…» e mentre Renzo tentennava così nel proferire la parola dolorosa per lui, e che doveva esserlo tanto a Lucia, questa s'era staccata di nuovo dal lettuccio, e si ravvicinava a lui: «ho paura che l'abbia adesso!» «Oh povero sant'uomo! Ma che dico, pover'uomo? Poveri noi! Com'è egli? è in letto? è assistito?» «È in piedi, va attorno, assiste gli altri; ma se lo vedeste, che cera egli ha, come si regge! Se n'è veduti tanti e tanti, che pur troppo… non si sbaglia!» «Oh! e gli è qui!» «Qui, e poco lontano: poco più che da casa vostra a casa mia… se vi ricordate…!» «Oh Vergine santissima!» «Bene, poco più. E pensate se abbiamo parlato di voi! M'ha detto delle cose… E se sapeste che cosa mi ha fatto vedere! Sentirete; ma ora voglio cominciare a dirvi quel che m'ha detto prima, egli, colla sua bocca. M'ha detto che faceva bene a venirvi a cercare, e che il Signore ha caro che un giovane tratti così, e mi avrebbe aiutato a far ch'io vi trovassi; come è proprio stato la verità: ma già è un santo. Sicchè, vedete!» «Ma, se ha parlato così, egli è perchè non sa mica…» «Che volete che sappia egli delle cose che avete fatte voi di vostra testa, senza regola, e senza parere di nessuno? Un brav'uomo, un uomo di giudizio, com'egli è, non va mica a pensar cose di questa sorta. Ma quel che m'ha fatto vedere…!» E qui raccontò la visita a quella capanna: Lucia, quantunque i suoi sensi e il suo animo, avessero in quel soggiorno dovuto avvezzarsi alle più forti impressioni, stava tutta compresa d'orrore e di pietà. «E anche lì,» proseguì Renzo, «ha parlato da santo: ha detto che il Signore forse ha destinato di far grazia a quel poveretto… (adesso non potrei proprio dargli un altro nome)… che aspetta di prenderlo in un buon punto; ma vuole che noi preghiamo insieme per lui… Insieme! avete inteso?» «Sì, sì; lo pregheremo, ognuno dove il Signore ci terrà: le orazioni le sa metter insieme Egli.» «Ma se vi dico le sue parole… !» «Ma, Renzo, egli non sa…» «Ma non capite che, quando è un santo che parla, è il Signore che lo fa parlare? e che non avrebbe parlato così, se non la dovesse esser proprio così… E l'anima di quel poveretto? Io ho ben pregato e pregherò per lui; di cuore ho pregato, proprio come se fosse stato per un mio fratello. Ma come volete che stia, al mondo di là, il poveretto, se di qua non s'aggiusta questa cosa, se non è disfatto il male ch'egli ha fatto? Che se voi vi mettete alla ragione, allora tutto è come prima: quel che è stato è stato: egli ha avuta la sua pena di qua…» «No, Renzo, no: Dio non vuole che facciamo del male, per far Egli misericordia: lasciate far a Lui, per questo: noi, il nostro dovere è di pregarlo. S'io fossi morta quella notte, Dio non gli avrebbe dunque potuto perdonare? E se non son morta, se sono stata liberata…» «E vostra madre, quella povera Agnese, che mi ha sempre voluto tanto bene, e che si struggeva tanto di vederci marito e moglie, non ve l'ha detto anch'ella che l'è una idea storta? Ella, che vi ha fatto capire la ragione anche delle altre volte, perchè, in certe cose, pensa più giusto di voi…» «Mia madre! volete che mia madre mi desse il parere di mancare a un voto! Ma, Renzo! voi non siete in voi.» «Oh, volete ch'io ve la dica? Voi altre donne queste cose non le potete sapere. Il padre Cristoforo m'ha detto ch'io tornassi da lui a contargli se vi avevo trovata. Vo: lo sentiremo lui: quel che dirà egli…» «Sì, sì; andate da quel sant'uomo: ditegli, ch'io prego per lui, e che preghi per me, che ne ho di bisogno tanto tanto! Ma, per amor del cielo, per l'anima vostra, per l'anima mia, non tornate più qui, a farmi del male, a… tentarmi. Il padre Cristoforo, quegli saprà spiegarvi le cose, e farvi tornare in voi; egli vi farà mettere il cuore in pace.» «Il cuore in pace! Oh! questo, toglietevelo del capo. Già me l'avete fatta scrivere questa parolaccia; e so io quel che ne ho patito; e ora avete anche cuore di dirmela. E io mo vi dico chiaro e tondo che il cuore in pace non lo metterò mai. Voi volete dimenticarvi di me; e io non voglio dimenticarmi di voi. E vi protesto, vedete, che, se mi fate perdere il giudizio, non lo racquisto più. Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona regola! Volete condannarmi a essere arrabbiato per tutta la vita; e da arrabbiato vivrò… E quel poveretto! Lo sa il Signore se non gli ho perdonato di cuore; ma voi… Volete dunque farmi pensare per tutta la vita che se non era egli…? Lucia! avete detto ch'io vi dimentichi: ch'io vi dimentichi! Come ho da fare? A chi credete ch'io pensassi in tutto questo tempo?… E dopo tante cose! dopo tante promesse! Che cosa v'ho fatto io, da che ci siamo lasciati? Perchè ho patito, mi trattate così? perchè ho avuto delle disgrazie? perchè la gente del mondo m'ha perseguitato? perchè ho passato tanto tempo fuori di casa, tristo, lontano da voi? perchè, al primo momento che ho potuto, son venuto a cercarvi?» Lucia, quando il pianto le concesse di formar parole, sclamò, giugnendo di nuovo le mani e levando al cielo gli occhi notanti nelle lagrime: «o Vergine santissima, aiutatemi voi! Voi sapete che, dopo quella notte, un momento come questo io non l'ho mai passato. Mi avete soccorsa allora; soccorretemi anche adesso!» «Sì, Lucia; fate bene d'invocar la Madonna; ma perchè volete mo credere che Ella, che è tanto buona, la madre della misericordia, possa aver piacere di farci patire… me almeno… per una parola scappata in un momento che non sapevate quello che vi diceste? Volete credere che v'abbia aiutata allora, per lasciarci imbrogliati dopo?… Se poi questa fosse una scusa; se la è ch'io vi sia venuto in odio… ditemelo… parlate chiaro.» «Per carità, Renzo, per carità, pei vostri poveri morti, finitela, finitela, non mi fate morire… Non sarebbe un buon punto. Andate dal padre Cristoforo, raccomandatemi a lui, non tornate più qui, non tornate più qui.» >«Vo; ma pensate se non voglio tornare! Tornerei se fosse in capo del mondo, tornerei.» E disparve. Lucia andò a sedersi, o piuttosto si lasciò cadere a terra, accanto al lettuccio; e, appoggiata a quello la testa, continuò a piangere dirottamente. La donna, che infino allora era stata ad occhi e orecchi aperti, senza fiatare, domandò che fosse quell'apparizione, quel dibattito, questo pianto. Ma forse il lettore domanda dal canto suo chi fosse costei: e, per soddisfarlo, non ci bisogneranno, nè anche qui, troppe parole. Era un'agiata mercantessa, di forse trent'anni. Nello spazio di pochi giorni s'era veduto morire in casa il marito e tutta quanta la figliolanza: presa, di lì a poco, anch'ella dalla infermità comune, trasportata al lazzeretto; era stata deposta in quella capannuccia, in tempo che Lucia, dopo aver superata, senza avvedersene, la furia del male, e mutate, pur senza avvedersene, più compagne, cominciava a riaversi e a ricuperare il sentimento, perduto fino dal primo accesso della malattia, nella casa ancora di don Ferrante. Il tugurio non poteva capire che due ospiti: e tra queste due, afflitte, derelitte, sbigottite, sole in tanta moltitudine, era ben tosto nata una intrinsichezza, un'affezione, quale appena sarebbe potuta venire da una lunga consuetudine. In breve Lucia era stata a termine di poter prestar servigi all'altra, che s'era trovata aggravatissima. Ora che questa pure aveva passato il pericolo, si facevano compagnia e animo e guardia a vicenda, s'erano promesso di non uscir del lazzeretto, se non insieme; e avevan pur presi altri concerti, per non separarsi nè anche dappoi. La mercantessa che, avendo lasciata sotto la custodia d'un suo fratello commissario della sanità, la casa e il fondaco e la cassa, tutto ben fornito, era per trovarsi sola e trista padrona di troppo più che non le bisognasse a vivere comodamente, voleva tener Lucia con sè, come una figliuola o una sorella; al che questa aveva aderito, pensate con che gratitudine a lei e alla Providenza; ma solo per fino a quando potesse aver novelle di sua madre, e intendere, come sperava, la volontà di essa. Del resto, riserbata com'era, nè della promessa dello sposalizio, nè dell'altre sue avventure straordinarie, non aveva mai toccato un motto. Ma ora, in un tanto concitamento d'affetti, ella aveva almen tanto bisogno di sfogarsi, quanto l'altra desiderio d'intendere. E, stretta con ambe le mani la destra di lei, si fece tosto a soddisfare alla domanda, senz'altro ritegno, fuor quello che i singulti ponevano alle dolenti parole. Renzo intanto trottava in gran fretta verso il quartiere del buon frate. Con un po' di studio, e non senza qualche passi perduti, gli riuscì finalmente di arrivarvi. Trovò la capanna; lui non ve lo trovò; ma, ronzando e adocchiando nel contorno, lo scorse in una trabacca, che, curvo al suolo e quasi boccone, stava confortando un morente. Ristette, aspettando in silenzio. Poco stante, lo vide chiuder gli occhi a quel poveretto, rizzarsi poi ginocchione, pregare un momento, e levarsi. Allora si trasse innanzi, e andò alla volta di lui. «Oh!» disse il frate, vistolo venire: «ebbene?» «La c'è: l'ho trovata!» «In che stato?» «Guarita, o almeno fuor del letto.» «Sia lodato il Signore!» «Ma…» disse Renzo, quando gli fu tanto accosto da poter parlar sotto voce: «c'è un altro imbroglio.» «Che vuoi tu dire?» «Voglio dire che… Già ella sa come è buona quella povera giovane; ma alle volte è un po' fissa nelle sue idee. Dopo tante promesse, dopo tutto quello, ch'ella sa, adesso mo dice che non mi può sposare, perchè dice, che so io? che in quella notte della paura, s'è scaldata la testa, e s'è, come a dire, votata alla Madonna. Cose senza costrutto, n'è vero? Cose buone chi ha la scienza e il fondamento da farle, ma per noi gente ordinaria, che non sappiamo bene come s'hanno da fare… n'è vero che son cose che non tengono?» «E ella molto lontano di qui?» «Oh no: pochi passi di là dalla chiesa.» «Aspettami qui un momento,» disse il frate: «e poi v'andremo insieme.» «Vuoi dire ch'ella le darà ad intendere…» «Non so nulla, figliuolo; bisogna ch'io senta quello ch'ella sarà per dirmi.» «Capisco», disse Renzo, e stette cogli occhi fissi a terra e colle braccia avvolte in sul petto, a masticarsi la sua incertezza rimasta intera. Il frate andò di nuovo in cerca di quel padre Vittore, lo pregò di supplire ancora per lui, entrò nella sua capanna, ne uscì colla sporta in sul braccio, tornò all'aspettante, gli disse: «andiamo»; e andò innanzi egli, avviandosi a quella tal capanna, dove, qualche tempo prima, erano entrati insieme. Questa volta, lasciò Renzo di fuora; entrò egli, e dopo un istante, ricomparve, e disse: «niente! Preghiamo; preghiamo.» Poi riprese: «adesso guidami tu.» E senz'altro, si posero in cammino. Il tempo s'era andato sempre più rabbruscando, e annunziava ormai certa e poco lontana la burrasca. Spessi lampi rompevano l'oscurità cresciuta, e lumeggiavano d'un fulgore istantaneo i lunghissimi tetti e gli archi de' portici, la cupola del tempio, i bassi comignoli delle capanne; e i tuoni scoppiati con istrepito repentino, scorrevano romoreggiando dall'una all'altra regione del cielo. Andava innanzi il giovane, attento alla via, e coll'animo pieno d'inquieta aspettazione, rallentando a forza il passo, per misurarlo alle forze del suo seguace; il quale, stanco dalle fatiche, aggravato dal male, oppresso dall'afa, camminava faticosamente, levando tratto tratto al cielo la faccia smunta, come per cercare un più libero respiro. Renzo, giunto che fu a vista della capannuccia si fermò, si volse, disse con voce tremante: «la è qui.» Entrano… «Eccoli!» grida la donna del lettuccio. Lucia si volge, si leva precipitosamente, va incontro al vecchio, gridando: «oh chi vedo! O padre Cristoforo!» «Ebbene, Lucia! da quante angustie v'ha liberata il Signore! Dovete esser ben contenta d'aver sempre sperato in Lui.» «Oh sì! Ma lei, padre? Povera me, come è cambiato! Come sta? dica: come sta?» «Come Dio vuole, e come, per sua grazia voglio anch'io,» rispose con volto sereno il frate. E, trattala in un canto, soggiunse: «sentite: io non posso rimaner qui che pochi momenti. Siete voi disposta a confidarvi in me, come altra volta?» «Oh! non è ella sempre il mio padre?» «Figliuola, dunque; che è codesto voto che Renzo m'ha detto?» «È un voto che ho fatto alla Madonna, di non maritarmi.» «Ma avete voi pensato allora, che eravate legata da una promessa?» «Trattandosi del Signore e della Madonna!… non ci ho pensato.» «Il Signore, figliuola, gradisce i sagrifìzii, le offerte, quando le facciamo del nostro. È il cuore ch'Egli vuole, la volontà: ma voi non potevate offrirgli la volontà d'un altro, al quale voi vi eravate già obbligata.» «Ho fatto male?» «No, poveretta, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita l'intenzione del vostro cuore afflitto, e l'avrà offerta a Dio per voi. Ma ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?» «Io non pensava che fosse male, da confessarmene: e quel poco bene che si può fare, si sa che non bisogna contarlo.» «Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dall'adempiere la promessa che avete fatta a Renzo?» «Quanto a questo… per me… che motivo…? Non potrei dire… niente altro,» rispose Lucia, con una esitazione così fatta che annunziava tutt'altro che una incertezza del pensiero; e il suo volto ancor discolorato dalla malattia, fiorì tutto a un tratto del più vivo rossore. «Credete voi,» riprese il vecchio, abbassando lo sguardo, «che Dio ha data alla sua Chiesa l'autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini ponno aver contratti con Lui?» «Sì, che lo credo.» «Ora sappiate che noi, deputati alla cura dell'anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che, per conseguenza io posso, quando voi lo domandiate, sciogliervi dall'obbligo, qualunque sia, che possiate aver contratto con codesto voto.» «Ma non è egli peccato, tornare indietro, pentirsi d'una promessa fatta alla Madonna? Io allora l'ho fatta proprio di cuore…» disse Lucia, violentemente agitata dall'assalto d'una tale inaspettata, bisogna pur dire, speranza, e dall'insorgere opposto d'un terrore fortificato da tutti i pensieri che da tanto tempo erano la principale occupazione dell'animo suo. «Peccato, figliuola?» disse il padre: «peccato il ricorrere alla Chiesa e domandare al suo ministro che faccia uso dell'autorità che ha ricevuto da essa e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto come voi due siate stati condotti ad unirvi; e, certo, se mai m'è potuto parere che due fossero uniti da Dio, voi eravate, voi siete quelli: ora non vedo perchè Dio vi abbia a voler separati. E lo benedico che m'abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo nome, e di rendervi la vostra parola. E se voi mi domandate ch'io vi dichiari sciolta da codesto voto, io non dubiterò di farlo; e desidero anzi che lo domandiate.» «Allora…! allora…! io lo domando,» disse Lucia con un volto non turbato più che di pudore. Il frate chiamò con un cenno il giovane, il quale se ne stava nel canto il più discosto, guardando (giacchè altro non poteva) fiso fiso al dialogo in cui egli era tanto interessato; e, avutol presso, disse con voce spiegata a Lucia: «coll' autorità che tengo dalla Chiesa, io vi dichiaro sciolta dal voto di verginità, annullando ciò che vi potè essere d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione che poteste averne contratta.» Pensi il lettore che suono facessero all'orecchio di Renzo tali parole. Ringraziò vivamente con gli occhi colui che le aveva proferite; e tosto cercò, ma invano, quelli di Lucia. «Tornate con sicurezza e con pace ai pensieri di prima,» seguì a dirle il cappuccino: «domandate di nuovo al Signore le grazie che Gli domandavate, per essere una moglie santa; e confidate ch'Egli ve le concederà più abbondanti, dopo tanti guai. E tu,» disse volgendosi a Renzo, «ricordati, figliuolo, che se la Chiesa ti rende questa compagna, non lo fa per procurarti una consolazione temporale e mondana, la quale, se potesse pure essere intera e senza mistura di alcun dispiacere, avrebbe a finire in un gran dolore, al momento di lasciarvi; ma lo fa per avviarvi tutti e due sulla strada della consolazione che non avrà fine. Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d'avere a lasciarvi, e colla speranza di ritrovarvi per sempre. Rendete grazie al cielo che vi ha condotti a questo stato, non per mezzo alle allegrezze turbolente e passeggiere, ma coi travagli e fra le miserie, per disporvi ad una allegrezza raccolta e tranquilla. Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira di allevarli per Lui, d'instillar loro l'amore di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto. Lucia! v'ha egli,detto,» e accennava Renzo, «chi ha veduto qui?» «Oh padre; me l'ha detto!» «Voi pregherete per lui! Non ve ne stancate. E anche per me pregherete!… Figliuoli! voglio che abbiate una memoria del povero frate.» E qui cavò dalla sporta una scatola d'un legno dozzinale, ma tornita e polita con una certa finitezza cappuccinesca; e proseguì: «qui dentro è il resto di quel pane… il primo che ho domandato per carità; quel pane, di cui avete inteso parlare! Lo lascio a voi: conservatelo; mostratelo ai vostri figliuoli! Verranno in un tristo mondo, in un secolo doloroso, in mezzo ai superbi e ai provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino pel povero frate!» E porse la scatola a Lucia, da cui fu presa con riverenza, come si sarebbe fatto d'una reliquia. Poi, con voce più pacata, riprese: «ora ditemi; che appoggi avete voi qui in Milano? Dove pensate di poter collocarvi all'uscir di qui? E chi vi condurrà da vostra madre, che Dio voglia aver conservata in salute?» «Questa buona signora mi fa essa intanto da madre: noi andremo fuor di qui insieme, e poi essa penserà a tutto.» «Dio la benedica,» disse il frate accostandosi al lettuccio. «La ringrazio anch'io,» disse la vedova, «della consolazione che ha data a queste povere creature; sebbene io avessi fatto conto di tenermi sempre con me questa cara Lucia. Ma la terrò intanto; l'accompagnerò io al suo paese, la consegnerò a sua madre; e,» soggiunse a bassa voce, «voglio farle io il corredo. Ne ho troppa della roba; e di quelli che dovevano goderla con me, non ho più nessuno!» «Così,» rispose il frate, «ella può fare un gran sagrificio al Signore, e del bene al prossimo. Non le raccomando questa giovane, che già vedo come sia diventata sua: non c'è che da lodar Dio, il quale sa mostrarsi padre anche nei flagelli, e che, col farle trovare insieme, ha dato un così chiaro segno d'amore all'una e all'altra. Orsù,» riprese poi, volgendosi a Renzo, e prendendolo per mano: «noi due non abbiam più nulla da far qui: e ci siamo stati anche troppo. Andiamo.» «Oh padre!» disse Lucia: «la vedrò io ancora? Io sono guarita, io che non fo niente di bene a questo mondo; e lei…!» «È già molto tempo,» rispose con tuono serio e dolce il vecchio, «che domando al Signore una grazia grande assai, di finire i miei giorni in servizio del prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, mi aiutino a ringraziarlo. Via; date a Renzo le vostre commissioni per vostra madre.» «Contatele quel che avete veduto,» disse Lucia al promesso sposo: «che ho trovata qui un'altra madre, che verrò con essa più presto che potrò, e che spero, spero di trovarla sana.» «Se v'abbisogna danari,» disse Renzo, «io ho qui addosso tutti quelli che voi mi avete mandati, e…» «No, no,» interruppe la vedova: «ne ho io anche troppi.» Andiamo,» replicò il frate. «A rivederci, Lucia…! e anche lei, dunque, quella buona signora,» disse Renzo, non trovando parole che significassero quello ch'egli sentiva in un tal punto. «Chi sa che il Signore ci faccia la grazia di rivederci ancora tutti!» sclamò Lucia. «Sia Egli sempre con voi, e vi benedica,» disse alle due compagne fra Cristoforo; e uscì con Renzo della capanna. La sera non era molto lontana, e la crisi del tempo pareva ancor più imminente. Il cappuccino offerse di nuovo al giovane disalbergato di ricoverarlo per quella notte nel suo povero soggiorno. «Compagnia, non te ne potrò fare,» soggiunse: «ma avrai da stare al coperto.» Renzo però si sentiva addosso una smania d'andare; e non si curava di rimaner davvantaggio in un luogo simile, quando non gli sarebbe stato lecito di rivedervi Lucia, nè pure avrebbe potuto starsene un po' col buon frate. Quanto all'ora e al tempo, si può dire che notte e giorno, sole e pioggia, zefiro e rovaio erano per lui tutt'uno in quel momento. Rendette dunque grazie, dicendo che voleva portarsi il più presto a cercar d'Agnese. Quando furono nella corsìa, il frate gli strinse la mano, e disse: «se la trovi, che Dio il voglia! quella buona Agnese, salutala anche in mio nome; e a lei, e a tutti quelli che rimangono e si ricordano di fra Cristoforo, di' che preghino per lui. Dio ti accompagni e ti benedica per sempre.» Oh caro padre…! ci rivedremo? ci rivedremo?» «Lassù, spero.» E con queste parole, si spiccò da Renzo; il quale, rimasto a guardarlo fin che lo vide sparire, tirò in fretta verso la porta, gittando a dritta e a sinistra gli ultimi sguardi di compassione sul dolente campo. V'era un movimento straordinario, uno strascinar di carri, un correr di monatti, un aggiustar le tende delle trabacche, un brancolar di languenti a queste e ai portici, per ripararsi dal nembo soprastante. Appena in fatti ebbe Renzo varcato la soglia del lazzeretto e preso la via (alla dritta, per ritrovare il viottolo dond'era sbucato il mattino sotto le mura), cominciò come una gragnuola di goccioloni grandi e radi, che, battendo e risaltando sulla via bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; ben tosto si spessarono in pioggia, e prima ch'egli giugnesse al viottolo, la veniva giù a secchie. Egli, lunge dal darsene fastidio, vi sguazzava sotto, si godeva in quella rinfrescata, in quel borboglìo, in quel brulichìo dell'erbe e delle foglie, mosse, sgocciolanti, rinverdite, lucenti; mandava certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s'era fatto nel suo destino. Ma, quanto più schietto e pieno sarebbe stato questo suo sentimento, s'egli avesse potuto indovinare quel che si vide pochi giorni appresso: che quell'acqua portava via, lavava giù, per così dire il contagio; che, da quella in poi, il lazzeretto, se non era per restituire ai viventi tutti i viventi che conteneva, almeno non ne avrebbe più ingoiati altri; che, fra una settimana, si vedrebbe riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più che di quarantena; e della pestilenza non rimarrebbe, se non qualche segno qua e là; quello strascico che ognuna si lasciava dietro per qualche tempo. Andava dunque il nostro viaggiatore con grande alacrità, senza aver disegnato nè dove, nè come, nè quando, nè se avesse da fermarsi la notte, sollecito soltanto di portarsi innanzi, di arrivar presto al paese, di trovar con cui parlare, a cui raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in via per Pasturo, alla cerca d'Agnese. Andava, colla mente tutta a romore delle cose di quel giorno; ma da sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l'ho trovata; è guarita; è mia! E allora dava un salterello, con che faceva uno spruzzolo all'intorno, come un barbone uscito a riva d'un'acqua; talvolta si contentava di una fregatina di mani: e innanzi con più voglia di prima. Guardando alla via, ricoglieva, per dir così, i pensieri, che vi aveva lasciati il mattino, e il giorno innanzi, venendo; e con più gusto quelli appunto che allora aveva più cercato di parar dalla fantasia, i dubbii, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, fra tanti morti e morenti! – E l'ho trovata viva! – conchiudeva. Si rimetteva nei più forti punti, nelle più terribili scurità di quel giorno, si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver manco il tempo di masticarla, chè addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Tornava in su quel momento quando fu finita di passare la processione dei convalescenti: che momento! che crepacuore non trovarvela! e ora non gliene importava più niente. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l'aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla in piedi! Ma che? c'era ancora quel gruppo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo. E quella rabbia contra don Rodrigo, quel rangolo maladetto che esacerbava tutti i guai e avvelenava tutti i conforti, sterpato anche quello. Talchè a fatica saprei imaginare uno stato di maggior contento, se non fosse stata l'incertezza intorno ad Agnese, il rammarico pel fra Cristoforo, e quel trovarsi tuttavia in mezzo ad una pestilenza. Arrivò a Sesto, che imbruniva; nè l'acqua dava segno di voler ristare. Ma, sentendosi più in gambe che mai, e con tante difficoltà di trovare dove porsi, e così inzuppato, non pensò neppure ad albergo. La sola esigenza che gli si facesse sentire, era un forte appetito; chè un successo come quello gli avrebbe fatto smaltire altro che la poca minestra del cappuccino. Osservò se trovasse anche qui una bottega di fornaio; ne vide una; ebbe due pani colle molle, e con quell'altre cerimonie. Uno in tasca e l'altro a' denti; e innanzi. Quando passò per Monza, era notte fatta: tuttavia trovò il verso di venirne fuora dalla parte che metteva in su la strada giusta. Ma da questo in poi, che, a dir vero, era un gran merito, potete imaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi di momento in momento. Affondata (com'eran tutte; e dobbiamo averlo detto altrove) fra due rive, quasi un letto di fiume, sarebbe a quell'ora potuta dirsi, se non un fiume, una gora davvero; e a qualche passo, buche e pozzanghere, da volerci del buono a riaverne le scarpe, e talvolta i piedi. Ma Renzo ne usciva come poteva, senza impazienze, senza male parole, senza pentimenti; pensando che ogni passo, per quanto costasse, lo portava innanzi, e che l'acqua cesserebbe quando a Dio piacesse, e che a suo tempo, verrebbe giorno, e che la strada ch'egli faceva intanto, allora sarebbe fatta. E dirò anche che non vi pensava se non proprio nei momenti di maggior bisogno. L'eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era in riandare la storia di quei tristi anni passati: tanti viluppi, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per torsi giù anche dalla speranza, e dar perduta ogni cosa; e contrapporvi le imaginazioni d'un avvenire così diverso, e l'arrivar di Lucia, e le nozze, e il far casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita. Come la facesse ai bivii, che pur ve n'era; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fosser quelli che gli facessero trovar sempre la buona strada, o se l'imboccasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; che egli stesso, il quale soleva contare la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no, (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l'avesse intesa da lui più d'una volta) egli stesso, a questo luogo, diceva che di quella notte non si ricordava che come se l'avesse passata in letto a sognare. Fatto sta che, sul finir di essa, si trovò disceso all'Adda. Non era spiovuto mai; ma, a un certo tempo, da diluvio l'era divenuta pioggia e poi un'acquerugiola fina, cheta, uguale uguale: le nubi alte e rade facevano un velo continuo, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo lasciò vedere a Renzo il paese d'intorno. V'era dentro il suo; e quello ch'egli ne provasse non si saprebbe significare. Altro non so dire, se non che quei monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era come diventato tutto roba sua. Gittò anche l'occhio addosso a sè, e si trovò un po' strano, quale a dir vero, da quel che si sentiva, s'imaginava anche di dover parere: sciupata e come impigliata addosso ogni cosa: dal cocuzzolo alla cintola, tutto un mollume, una gronda; dalla cintola alle suola, poltiglia e loto: i luoghi dove non ve ne fosse si sarebber potuti chiamare essi zacchere e schizzi. E se si fosse veduto tutto intero in uno specchio, con le falde del cappello flosce e spenzolanti, e i capelli stirati e incollati sul viso, si sarebbe fatto ancor più specie. Quanto a stanco, lo poteva essere, ma non ne sapeva nulla: e il freschetto del mattino sopraggiunto a quello della notte e di quel poco bagno, non gli dava altro che una fierezza, una voglia d'andar più in fretta. È a Pescate; costeggia quell'ultimo tratto dell'Adda, dando però un'occhiata malinconica a Pescarenico; passa il ponte; per vie e per campi, arriva in breve alla casa dell'ospite amico. Questi che, appena levato, stava in sull'uscio a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così guazzosa, così fangosa, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a' suoi giorni non aveva veduto un uomo peggio conciato e più contento. «Ohe!» disse: «già qui? e con questo tempo? Come è ella andata?» «La c'è,» disse Renzo: «la c'è: la c'è.» «Sana?» «Guarita, che è meglio. Ho da ringraziarne il Signore e la Madonna per fin che campo. Ma, cose grandi, cose di fuoco: ti conterò poi tutto.» «Ma come sei aggiustato!» «Son bello eh?» «A dir la verità, potresti adoperare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù. Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco.» «Non rifiuto mica. Sai dove la m'ha preso? proprio alla porta del lazzeretto. Ma niente! il tempo il suo mestiere, ed io il mio.» L'amico andò e tornò con due bracciate di stipa: ne pose una per terra, l'altra in sul focolare, e, con un po' di bragia rimasta dalla sera, ne fe' presto levare una bella fiamma. Renzo intanto s'era tolto il cappello di capo, e, scossolo due o tre volte l'aveva gittato in terra: e, non così facilmente, s'era tratto il farsetto. Cavò allora dal taschino delle brache il coltello, col fodero tutto molliccio, che pareva stato in macero; lo mise su un deschetto e disse: «anche costui è aggiustato a dovere; ma l'è acqua! l'è acqua! sia ringraziato il Signore… Sono stato a un pelo!… Ti dirò poi.» E si fregava le mani. «Adesso fammi un altro piacere,» soggiunse: «quel fagottello che ho lasciato qui di sopra, vammelo a pigliare, chè prima che s'asciugasse questa roba che ho indosso…!» Tornato col fagotto, l'amico disse: «penso che avrai anche appetito: capisco che da bere, per la strada, non te ne sarà mancato; ma da mangiare…» «Ho trovato da comperar due pani, ieri in sulla bass'ora; ma, per verità non m'hanno toccato un dente.» «Lascia fare,» disse l'amico; versò acqua in una pentola, che appese poi alla catena; e soggiunse: «vado a mugnere: quando tornerò col latte, l'acqua sarà a ordine; e si fa una buona polenta. Tu in tanto aggiustati con tuo comodo.» Renzo, rimasto solo, si levò daddosso, non senza fatica, il resto dei panni, che eran come appiastricciati alle carni; si rasciugò, si rivestì di nuovo da capo a piedi. L'amico tornò; si mise al lavoro della polenta: Renzo intanto si sedette, aspettando. «Sento ora che sono stanco,» disse: «ma è una bella tirata! Però questo è niente. Ho da contartene per tutt'oggi. Come è conciato Milano! Quel che bisogna vedere! quel che bisogna toccare! Cose da aver poi schifo di sè medesimo. Sto per dire che non ci voleva meno di quel bucatino che ho avuto. E quel che m'hanno voluto fare quei signori di laggiù! Sentirai. Ma se tu vedessi il lazzeretto! V'è da perdersi nelle miserie. Basta; ti conterò tutto… E la c'è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu hai da essere testimonio, e, peste o non peste, almeno qualche ora, voglio che stiamo allegri.» Del resto mantenne ciò, che aveva detto all'amico di voler contargliene tutto il giorno; tanto più, che, avendo sempre continuato a piovigginare, questi lo passò tutto al coperto, parte seduto a canto all'amico, parte in faccenda dietro a una sua tinella e a una picciola botte, e ad altri lavori preparatorii per la vendemmia e per la fattura del vino; nel che Renzo non lasciò di dargli mano; chè, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a non far niente, che a lavorare. Non potè però tenersi di fare una scorserella fino alla casa d'Agnese, per rivedere una certa finestra, e per dare anche lì una fregatina di mani. Andò, e tornò inosservato, e si corcò per tempo. Per tempo si levò il mattino vegnente; e, veggendo cessata l'acqua, se non tornato il sereno, si mise tosto in via per Pasturo. Era ancor per tempo quando vi giunse: chè non aveva manco fretta e voglia di finire, di quel che possa averne il lettore. Cercò d'Agnese; udì ch'ell'era sana e in tuono, e gli fu indicata una casetta isolata dov'ella stava. V'andò; la chiamò a nome dalla strada: a una tal voce, ella venne in furia alla finestra; e, mentre stava colla bocca spalancata per mandar fuora non so che parola, non so che suono, Renzo la prevenne dicendo: «Lucia è guarita: l'ho veduta ier l'altro: vi saluta; verrà presto. E poi ne ho, ne ho delle cose da dirvi.» Tra la sorpresa dell'apparizione, e la gioia della notizia, e la smania di saperne di più, Agnese cominciava ora una esclamazione, ora una domanda, senza finir nulla: poi, dimenticando le cautele che era solita a prendere da molto tempo, disse: «vengo ad aprirvi». «Aspettate: e la peste?» disse Renzo: «voi non l'avete avuta, credo.» «Io no: e voi?» «Io sì; ma voi dunque dovete aver giudizio. Vengo da Milano; e, sentirete, sono proprio stato nel contagio fino agli occhi. E vero che mi son tutto mutato da capo a piè; ma l'è una porcheria che la s'attacca alle volte come un malefìzio. E giacchè il Signore v'ha preservata fìn'ora, voglio che v'abbiate cura, per fin che sia finito questo influsso; perchè siete la nostra mamma: e voglio che campiamo insieme un bel pezzo allegramente, a conto del gran patire che abbiam fatto, almeno io.» «Ma…» cominciava Agnese. «Eh!» interruppe Renzo: «non c'è ma che tenga. So quel che volete dire; ma sentirete, sentirete, che dei ma non ce n'è più. Andiamo in qualche luogo all'aperto, dove si possa parlar con comodo, senza pericolo; e sentirete.» Agnese gl'indicò un orto ch'era dietro alla casa; entrasse quivi, s'assettasse sur una di due panchette ch'erano a rimpetto; ella scenderebbe tosto, e verrebbe a porsi in su l'altra. Così fu fatto: e son certo che, se il lettore, informato com'è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder cogli occhi quella conversazione così animata, a udir colle orecchie quei racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, quell'esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni dell'avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che ci avrebbe pigliato gusto assai, e sarebbe stato l'ultimo a venir via. Ma d'averla in sulla carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d'inchiostro, e senza trovarvi un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che ami meglio che noi gliela lasciamo indovinare. La conclusione fu che si andrebbe a far casa tutti insieme su quel di Bergamo, nel paese dove Renzo aveva già un buon avviamento: quanto al tempo non si poteva decider nulla, perchè dipendeva dalla peste e da altre circostanze: appena finito il pericolo Agnese tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve l'aspetterebbe: intanto Renzo farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo, a veder la sua mamma, e a tenerla informata di quel che potesse occorrere. Prima di partire, offerse anche a lei danari, dicendo: «gli ho qui tutti, vedete, quei tali: avevo fatto voto anch'io di non toccarli, fin che la cosa non fosse schiarita. Adesso mo, se ne avete bisogno, portate qui una scodelletta d'acqua e aceto; vi getto dentro i cinquanta scudi begli e lampanti.» «No, no,» disse Agnese: «ne ho ancora più del bisogno per me: i vostri, teneteli saldi, che saran buoni per piantar la casa.» Renzo se ne tornò con questa consolazione di più dell'aver trovata sana e salva una persona tanto cara. Stette il rimanente di quel giorno e la notte, in casa dell'amico; il domani, in via di nuovo, ma da un'altra banda, verso il paese adottivo. Trovò quivi Bortolo, pure in buona salute, e in minor timore di perderla; chè, in quei pochi giorni, le cose, anche là, avevan preso rapidamente una bonissima piega. Gli ammalamenti eran divenuti radi, le malattie non eran più quelle; non più quei lividori mortali, nè quella violenza di sintomi; ma febbricciattole, intermittenti la maggior parte, con al più qualche gavoccioletto scolorato, che si curava come un fignolo ordinario. Già la faccia del paese compariva mutata; i superstiti cominciavano a venir fuori, a noverarsi fra loro, a farsi a vicenda condoglienze e congratulazioni. Si parlava già di ravviare i lavori: i padroni sopravvissuti pensavano già a cercare e a caparrare operai, e in quelle arti principalmente dove il numero ne era stato scarso anche prima del contagio, com'era quella della seta. Renzo, senza fare il lezioso, promise (salve però le debite approvazioni) al cugino di rimettersi al lavorìo, quando verrebbe accompagnato a stabilirsi in paese. Die' intanto ordine ai preparamenti più necessarii: si provide di più capace alloggio, cosa divenuta pur troppo facile e poco costosa, e lo fornì di mobili e d'arredi, mettendo mano questa volta al tesoro, ma senza farvi dentro un grande sdruscito, chè d'ogni cosa v'era dovizia e gran mercato. Dopo non so quanti giorni, tornò al paese natìo, che vide anche più notabilmente cangiato in bene. Trottò subito a Pasturo; trovò Agnese ben rassicurata, e disposta a venirne a casa quando che fosse; tanto che ve la condusse egli: nè diremo quali fossero i loro sentimenti, quali le parole, al rivedere insieme quei luoghi. Agnese rinvenne ogni cosa come l'aveva lasciata. Sicchè ebbe a dire che, questa volta, trattandosi d'una povera vedova e d'una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli. «E l'altra volta,» soggiugneva, «che si sarebbe creduto che il Signore guardasse altrove, e non pensasse a noi, giacchè lasciava portar via il povero fatto nostro, ha mo fatto vedere il contrario; perchè mi ha mandato da un'altra parte di bei soldi con cui ho potuto rimettere ogni cosa. Dico ogni cosa, e non dico bene; perchè il corredo di Lucia che coloro avevano raspato, ancor bello e intiero, insieme col resto, quello mancava ancora; ed ecco che ora ci viene da un'altra banda. Chi mi avesse detto, quando io m'adoperava tanto ad allestire quell'altro: tu credi tu di lavorar per Lucia, neh?: povera donna! Lavori per chi non sai: sa il cielo, questa tela, questi panni, a che sorta di creature andranno indosso: quelli per Lucia, il corredo davvero che ha da servire per lei, ci penserà un'anima buona, la quale tu non sai nè anche che la ci sia.» La prima cura di Agnese fu quella di preparare nella sua povera casetta l'alloggio il più decente che potesse a quell'anima buona: poi andò in cerca di seta da dipanare; e col suo aspo ingannava gli indugi. Renzo, dal canto suo, non passò in ozio quei giorni già tanto lunghi per sè: sapeva far due mestieri per buona sorte; si rimise a quello del contadino. Parte aiutava il suo ospite, pel quale era una gran ventura l'avere in un tal tempo spesso al suo comando un'opera, e un'opera di quella abilità; parte coltivava e rimetteva in onore l'orticello d'Agnese trasandato affatto nell'assenza di lei. Quanto al suo proprio podere, non ci pensava punto, dicendo ch'ell'era una parrucca troppo scarmigliata, e che ci voleva altro che due braccia a ravviarla. Nè vi metteva pure il piede; nè manco in casa: chè gli avrebbe fatto male a vedere quella desolazione; e aveva già preso il partito di disfarsi d'ogni cosa, a qualunque prezzo, e d'impiegare nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ritrarre. Se i rimasti vivi erano l'uno all'altro come risuscitati, egli, per quei del suo paese, lo era come a dire due volte: ognuno gli faceva accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia. Direte forse come andava ella col bando? L'andava benone: egli non ci pensava quasi più, supponendo che quelli i quali avrebbero potuto eseguirlo non ci pensassero più nè anche loro: nè s'ingannava. E questo non nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte di tante cose; ma era, come si è potuto vedere anche in più d'un luogo di questa storia, cosa comune a quei tempi, che gli ordini, tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non v'era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi e li facesse valere, rimane vano sovente senza effetto, quando non lo avessero avuto in sul primo momento; come palle di moschetto, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non danno fastidio a nessuno. Conseguenza necessaria della grande facilità con cui li gettavano quegli ordini, a dritto e a traverso. L'attività dell'uomo è limitata, e tutto il di più che v'era nell'ordinare, doveva tornare a tanto meno nell'eseguire. Quel che va nelle maniche non può andar ne' gheroni. Chi volesse anche sapere come Renzo la facesse con don Abbondio, in quel tempo d'aspetto, dirò che stavano alla larga l'uno e l'altro: questi, per timore di sentire a intonar qualche cosa di matrimonio, e, al solo pensarvi, si vedeva sorgere nella fantasia don Rodrigo da una parte, co' suoi bravi, il cardinale dall'altra co' suoi argomenti: questi, perchè aveva risoluto di non parlargliene che al momento di conchiudere, non volendo risicar di farlo inalberare innanzi tratto, di suscitar, chi sa mai?, qualche difficoltà, e d'imbrogliar le cose con chiacchiere inutili. Le sue chiacchiere le faceva con Agnese. «Credete ch'ella venga presto?» domandava l'uno. «Io spero di sì,» rispondeva l'altro: e spesso quegli che aveva dato la risposta, faceva poco di poi la domanda medesima. E con queste e con simili furberie, s'ingegnavano a far passare il tempo, che pareva loro più lungo a misura che n'era più passato. Al lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in compendio che, qualche giorni dopo la visita di Renzo al lazzeretto, Lucia ne uscì colla buona vedova; che, essendo stata ordinata una quarantena generale, esse la fecero insieme, rinchiuse nella casa di quest'ultima; che una parte del tempo fu spesa in allestire il corredo di Lucia, al quale, dopo aver fatto qualche cerimonie, dovette lavorare ella stessa; e che, terminata la quarantena, la vedova lasciò in consegna il fondaco e la casa a quel suo fratello commissario; e si fecero i preparamenti pel viaggio. Potremmo anche soggiugner subito: partirono, giunsero, e quel che segue; ma, con tutta la buona voglia di accomodarci a codesta fretta del lettore, c'è tre cose appartenenti a quel tratto di tempo, che non vorremmo passare sotto silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo avuto il torto. La prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più in particolare e più ordinatamente che non avesse potuto in quella agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della signora che l'aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempirono insieme l'animo d'una dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe dalla vedova che la sciaurata, caduta in sospetto di atrocissimi fatti, era stata per ordine del cardinale trasportata in un monastero di Milano; che quivi, dopo molto infuriare e sbattersi, s'era ravveduta, s'era accusata; e che la sua vita attuale era un supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di torgliela, non avrebbe potuto trovarne un più severo. Chi volesse conoscere più per minuto questa trista storia, la troverà nel libro e al luogo che abbiam citato altrove, a proposito della stessa persona. L'altra cosa è che Lucia, inchiedendosi del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che potè vedere nel lazzeretto, intese quivi, con più dolore che stupore, com'egli era morto della peste. Finalmente: prima di partire, ella avrebbe anche desiderato di saper qualche cosa de' suoi antichi padroni, e di fare, com'ella diceva, un atto di dovere, se alcuno ne rimaneva. La vedova l'accompagnò alla casa, dove seppero che l'uno e l'altra erano andati fra que' più. Di donna Prassede, quando si dice ch'ella era morta, è detto tutto; ma per don Ferrante, trattandosi ch'egli era stato dotto, l'anonimo ha stimato che portasse il pregio di stendersi un po' più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello ch'egli ne lasciò scritto. Dice adunque che, al primo parlar che si fece della peste, don Ferrante fu uno dei più risoluti e sempre poi uno dei più costanti a negarla; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. «In rerum natura,» diceva egli, «non ci ha che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può essere nè l'uno nè l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono o spirituali o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale è sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicchè è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono o semplici o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perchè, se fosse, invece di passare da un corpo all'altro, volerebbe, al più presto, alla sua sfera. Non è acquea; perchè bagnerebbe e verrebbe disseccata dai venti. Non è ignea; perchè abbrucerebbe. Non è terrea; perchè sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perchè ad ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Resta da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; chè questo è il loro achille, questo il pretesto per fare tanti ordini senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe ad essere accidente trasportato, due parole che fanno alle pugna; non ci essendo in tutta la filosofia cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passare da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, fuggon da Scilla e danno in Cariddi: perchè, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi principii, che serve venirci tanto a parlare di vibici, di esantemi, di antraci…?» «Tutte corbellerie,» scappò su una volta un tale. «No; no,» riprese: «non dico questo io: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoperare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, buboni violacei, furoncoli nigricanti, sono tutte parole rispettabili, che hanno il loro bell'e buon significato; ma dico che non fanno niente alla quistione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a vedere donde vengano.» Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso alla opinione del contagio, trovava da per tutto orecchie benevole, dolci e rispettose: perchè non è da dire quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorchè vuoi provare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l'errore di quei medici non istava già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell'assegnarne la causa e i modi; allora (parlo dei primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di morbo), allora, invece d'orecchie, egli trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare non c'era luogo, e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi. «La c'è pur troppo la vera cagione,» diceva egli: «e sono costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in aria… La neghino un po', se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s'è inteso dire che le influenze si propaghino… E loro signori, mi vorranno negar le influenze? Mi negheranno che ci sia degli astri? O mi vorranno dire che stieno lassù a far niente, come tante capocchie di spilli confitti in un torsello?… Ma quello che non posso intendere, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schifare il contatto materiale dei corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale dei corpi celesti! E tanta faccenda, per bruciar degli stracci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?» His fretus, vale a dire su questi fondamenti, non usò nessuna precauzione contro la peste; la prese, e andò a letto, andò a morire, come un eroe di Metastasio, pigliandosela colle stelle. E quella sua famosa libreria? La è forse ancora dispersa attorno pei muricciuoli. Una bella sera, Agnese sente un legno fermarsi alla porta. – E ella, senz'altro! – Era ella proprio, colla buona vedova: le accoglienze vicendevoli se le imagini il lettore. Il mattino seguente, capita Renzo di buon'ora, ignaro dell'accaduto, e senz'altro disegno che di sfogarsi un po' con Agnese su quel tanto tardare di Lucia. Gli atti ch'ei fece e le cose che disse, al trovarsela in prospetto, si rimettono pure alla imaginazione del lettore. Le dimostrazioni di Lucia a lui furono tali, che non ci vuol molto a renderne conto. «Vi saluto: come state?» diss'ella, cogli occhi bassi, e senza scomporsi. Nè crediate che Renzo trovasse quel modo troppo asciutto, e se ne avesse a male. Prese benissimo la cosa pel suo verso; e, come fra gente educata si sa far la tara ai complimenti, così egli capiva benissimo che cosa si dovesse sottintendere a quelle parole. Del resto, era facile accorgersi ch'ella aveva due maniere di porgerle; una per Renzo, e un'altra per tutta la gente ch'ella potesse conoscere. «Sto bene quando vi vedo,» rispose il giovane, con una frase a stampa, ma che avrebbe inventata egli in quel momento. «Il nostro povero padre Cristoforo…!» disse, «pregate per l'anima sua: sebbene si può esser quasi sicuri che a quest'ora egli prega per noi lassù.» «Me l'aspettavo, pur troppo,» disse Renzo. Nè fu questa la sola corda di mesto suono che si toccasse in quel colloquio. Ma che? per qualunque soggetto si passasse, il colloquio gli riusciva sempre delizioso. Come quei cavalli bisbetici, che s'impuntano e si piantano lì, e levano una zampa e poi un'altra, e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille cerimonie prima di dare un passo, e poi tutto a un tratto pigliano la carriera, e vanno quasi portati dal vento, così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli parevano ore; adesso le ore gli parevano minuti. La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma vi faceva dentro benissimo: nè Renzo, quando la vide in quel lettuccio, avrebbe mai potuto imaginarsela d'un umore così compagnevole e gaio. Ma il lazzeretto e la campagna, la morte e le nozze non son mica tuttuno. Con Agnese ella aveva già fatta amicizia; con Lucia poi era un piacere a vederla, tenera insieme e scherzevole, e come la stuzzicava garbatamente e senza sforzare, quanto appena ci voleva per dar più anima ai suoi moti e alle sue parole. Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio a prendere i concerti per lo sposalizio. V'andò, e, in una cert'aria di burla rispettosa, «signor curato,» gli disse: «le è poi andato via quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Adesso siamo a tempo; la sposa c'è: e son qui per sentire quando le sia comodo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto.» Non già che don Abbondio rispondesse di non volere; ma cominciò a tentennare, a tirar fuori certe scuse, a far certe insinuazioni: e perchè mettersi in piazza e far gridare il suo nome, con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi egualmente altrove; e questo e quest'altro. «Ho capito,» disse Renzo: «ella ha ancora un po' di quel mal di capo. Ma senta, senta.» E si fece a descrivere in che stato aveva veduto quel povero don Rodrigo; e che già a quell'ora doveva sicuramente essere andato. «Speriamo,» conchiuse, «che il Signore gli avrà fatto misericordia. «Questo non ci ha a che fare,» disse don Abbondio: «v'ho io detto di no? Non dico di no io; parlo… parlo per buone ragioni. Del resto, vedete, fin che l'uomo ha fiato in corpo… Guardatemi me: sono una conca fessa; sono stato anch'io, più di là che di qua: e son qui; e… se non mi vengono addosso dei disturbi… basta…, posso sperare di starci ancora un pochetto. Figuratevi poi certi temperamenti. Ma, come dico, questo non ci ha che far nulla.» Dopo un po' d'altro dialogo nè più nè meno concludente, Renzo strisciò una bella riverenza, se ne tornò alla sua brigata, fece la sua relazione, e terminò con dire: «son venuto via, che ne era pieno, e per non risicare di perder la pazienza e di parlar male. In certi momenti, pareva proprio quello dell'altra volta; proprio quella mutria, quelle ragioni: son sicuro che, se la durava ancora un po', mi tornava in campo con qualche parola in latino. Vedo che la vuol essere un'altra lunghiera: è meglio fare addirittura quel che dice egli, andare a maritarsi dove abbiamo da vivere.» «Sapete che cosa faremo?» disse la vedova: «voglio che andiamo noi altre donne a fare una prova anche noi, e vedere se ci troviamo un po' più il bandolo. Così avrò anch'io il gusto di conoscerlo quest'uomo, se è proprio come dite. Dopo pranzo, voglio che andiamo; per non tornare a dargli addosso così subito. Adesso, signor sposo, menateci un po' a spasso noi altre due intanto che Agnese è in faccende: chè a Lucia farò io da mamma: e ho proprio voglia di vedere un po' alla distesa queste montagne, questo lago di cui ho tanto inteso parlare; e il poco che ne ho già veduto mi pare una gran bella cosa.» Renzo le condusse di primo tratto alla casa del suo ospite, dove fu un'altra festa: e gli fecero promettere che, non solo quel dì, ma ogni dì, se potesse, verrebbe a pranzare colla brigata. Passeggiato, pranzato, Renzo si partì subitamente, senza dire dove andasse. Le donne rimasero un pezzetto a confabulare, a concertarsi sul modo di pigliar don Abbondio; e finalmente andarono all'assalto. – Son qui loro, – diss'egli tra sè; ma fece buon viso: grandi rallegramenti con Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera. Le fece sedere; poi si gettò nel gran discorso della peste: volle sentire da Lucia come l'aveva passata in que' guai: il lazzeretto porse opportunità di far parlare anche quella che le era stata compagna; poi, come era giusto, don Abbondio parlò anche della sua burrasca; poi dei gran mi rallegro con Agnese, che n'era uscita netta. La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due anziane stavano alla vedetta, se mai venisse il bel tratto di far parola dell'essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio. Ma che volete? don Abbondio non ci sentiva da quell'orecchia. Guarda che dicesse di no; ma eccolo di nuovo a quel suo tergiversare e volteggiare e andar di palo in frasca. «Bisognerebbe,» diceva, «poter far levare quella catturaccia. Ella, signora, che è da Milano, conoscerà più o meno il filo delle cose, avrà delle buone protezioni, qualche cavaliere di peso: chè con questi mezzi si sana ogni piaga. Se poi si volesse andar per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacchè codesti giovani, e qui la nostra Agnese hanno già intenzione di spatriarsi (e io non so che dire: la patria è dove si sta bene), mi pare che si potrebbe far tutto là, dove non c'è bando che tenga. Non vedo proprio l'ora di saperlo conchiuso questo parentado, ma lo vorrei conchiuso bene, tranquillamente. Dico il vero: qui, con quella cattura viva, spiattellar dall'altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un cattivo servizio. Veda lei; vedete voi.» Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribattere quelle ragioni; don Abbondio a riprodurle sott'altra forma: s'era sempre da capo. Quand'ecco entra Renzo, con un andar risoluto, e con una notizia in faccia, e dice: «è arrivato il signor marchese ***.» «Che vuol dir questo? Arrivato dove?» domanda don Abbondio, levandosi. «È arrivato nel suo palazzo, che era quello di don Rodrigo; perchè questo signor marchese è l'erede per fidecommisso, come dicono; sicchè non c'è più dubbio. Per me, ne sarei contento se potessi sapere che quel pover'uomo fosse morto bene. A buon conto, finora ho detto per lui de' paternostri, adesso gli dirò dei De profundis. E questo signor marchese è un bravissim'uomo.» «Sicuro,» disse don Abbondio: «l'ho sentito nominare più d'una volta per un bravo signore davvero, per un uomo della stampa vecchia. Ma che sia proprio vero…?» «Al sagrestano gli crede?» «Perchè?» «Perchè egli l'ha veduto co' suoi occhi. Io sono stato solamente lì nel contorno, e, a dir la verità, vi sono andato appunto perchè ho pensato: qualche cosa là si dovrebbe sapere. E più d'uno e di due mi hanno contato la cosa. Ho poi scontrato Ambrogio, che veniva proprio di lassù, e che lo ha veduto, come dico, far da padrone. Lo vuol sentire, Ambrogio? L'ho fatto aspettar qui fuori apposta.» «Sentiamo,» disse don Abbondio. Renzo andò a chiamare il sagrestano. Questi confermò la cosa di punto in punto, v'aggiunse altri particolari, sciolse tutti i dubbii; e poi se ne andò. «Ah! è morto dunque! è proprio andato!» sclamò don Abbondio. «Vedete, figliuoli, se la Providenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l'è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! chè non ci si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa pestilenza; ma l'è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, disposti; bisognava dire che chi era destinato a far loro le esequie, si trovava ancora in seminario, a fare i latinucci. E in un batter d'occhio sono spariti, a cento alla volta. Non lo vedremo più andare attorno con que' tagliacantoni dietro, con quell'albagìa, con quella puzza, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, egli non c'è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quelle imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: chè adesso lo possiamo dire.» «Io gli ho perdonato di cuore,» disse Renzo. «E fai bene: è tuo dovere,» rispose don Abbondio: «ma si può anche ringraziare il cielo, che ce ne abbia liberati. Ora, venendo a noi, io vi torno a dire: fate voi quel che credete. Se volete ch'io vi mariti io, son qui; se vi torna più comodo altrimenti, fate voi. Quanto alla cattura, vedo anch'io che, non ci essendo adesso più nessuno che vi tenga di mira e voglia farvi del male, non è cosa da pigliarsene gran fastidio: massime che c'è stato di mezzo quel decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante. E poi la peste! la peste! ha dato di penna a di gran cose la peste! Sicchè, se volete… oggi è giovedì… domenica vi dico in chiesa; perchè quel che si è potuto fare altra volta, non conta più niente, dopo tanto tempo; e poi ho la consolazione di maritarvi io.» «Ella sa che eravamo venuti appunto per questo,» disse Renzo. «Benissimo; e io vi servirò: e voglio darne parte subito a sua eminenza.» «Chi è sua eminenza?» domandò Agnese. «Sua eminenza,» rispose don Abbondio, «è il nostro signor cardinale arcivescovo, che Dio conservi.» «Oh, in questo mi scusi,» replicò Agnese: «chè, sebbene io sia una povera ignorante, le posso certificare che non gli si dice così; perchè, quando siamo state la seconda volta per parlargli, come parlo a lei, uno di quei signori preti mi tirò da parte, e m'insegnò come si doveva trattare con quel signore, e che gli si doveva dire vossignoria illustrissima, e monsignore.» «E adesso, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato dell'eminenza: capite mo? Perchè il papa, che Dio lo conservi anche lui, ha prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia questo titolo. E sapete perchè sarà venuto a questa risoluzione? Perchè l'illustrissimo, che era per loro e per certi principi, adesso vedete anche voi, che cosa è diventato, a quanti si dà: e come se lo succiano su volentieri! E che volevate fare? Toglierlo a tutti? Richiami, rancori, guai, dispetti, e per soprappiù continuar come prima. Dunque il papa ha trovato un bonissimo ripiego. A poco a poco poi si comincerà a dar dell'eminenza ai vescovi; poi lo vorranno gli abati, poi i prevosti: perchè gli uomini son fatti così; sempre vogliono andare innanzi, sempre innanzi: poi i canonici…» «E i curati?» disse la vedova. «No no,» riprese don Abbondio: «i curati a tirar la carretta: non abbiate paura che gli avvezzino male i curati, del reverendo, fino alla fine del mondo. Piuttosto, non mi stupirei che i cavalieri, i quali sono assuefatti a sentirsi dar dell'illustrissimo, a esser trattati come i cardinali, un bel giorno volessero dell'eminenza anche loro. E se la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora, il papa che si troverà allora, penserà qualche altra cosa pei cardinali. Orsù, torniamo al fatto nostro: domenica vi dirò in chiesa; e intanto, sapete che cosa ho pensato per servirvi meglio? Intanto domanderemo la dispensa per le altre due volte. Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia a dar dispense, se la va da per tutto come qui. Per domenica ne ho già… uno… due… tre; senza contarvi voi: e ne può capitare qualche altro. E poi in seguito, vedrete; c'è entrato il fuoco; non resterà uno scompagnato. Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire adesso; chè questa era la volta che trovava anch'ella il compratore. E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo stesso.» «Proprio: la s'imagini che, solamente nella mia parrocchia, domenica passata, cinquanta matrimonii.» «Se lo dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non ha cominciato a volarle attorno qualche moscone?» «No, no; io non ci penso, nè ci voglio pensare.» «Sì, sì; che vorrà ella esser la sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese…» «Uf! ella ha voglia di ridere,» disse questa. «Sicuro che ho voglia di ridere; e mi pare che sia ora finalmente. Ne abbiamo passate delle brutte, neh? i miei giovani; delle brutte ne abbiamo passate: questi quattro dì che ci abbiamo a stare ancora, si può sperare che vogliano essere un po' men tristi. Ma! fortunati voi, che, non accadendo disgrazie, avete un pezzo ancora da parlare dei guai andati! Io povero vecchio… I birbi possono morire; della peste si può guarire; ma agli anni non c'è rimedio: e, come dice, senectus ipsa est morbus.» «Adesso mo,» disse Renzo, «parli pur latino fin che vuole, che non mi fa niente.» «Tu l'hai ancora col latino, tu: bene bene, t'aggiusterò io: quando mi verrai innanzi con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe paroline in latino, ti dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace. Eh?» «Ah! che so io quel che dico,» ripigliò Renzo: «non è mica quel latino lì che mi fa paura: quello è un latino sincero, sacrosanto, come quel della messa: anche loro lì bisogna che leggano quel che è sul libro. Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a tradimento, nel buono d'un discorso. Per esempio, adesso mo che siamo qui, che tutto è finito; quel latino che andava cavando fuori, qui proprio, in quel cantone, per darmi ad intendere che non poteva, e che ci voleva delle altre cose, e che so io, me lo tragga un po' in volgare adesso.» «Taci lì buffone, taci lì: non rimescolar queste cose; chè, se dovessimo ora fare i conti, non so chi avrebbe a avere. Io ho perdonato tutto: non ne parliamo più: ma me ne avete fatti dei tiri. Di te non mi fa stupore, che sei un malandrinaccio; ma dico quest'acqua cheta, questa santarella, che si sarebbe creduto far peccato a guardarsene. Ma già, so io chi l'aveva ammaestrata, so io, so io.» Così dicendo, appuntava e vibrava verso Agnese l'indice che prima aveva tenuto rivolto a Lucia: nè si potrebbe significare con che bonarietà, con che piacevolezza facesse quei rimproveri. Quella notizia gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran tempo; e saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferire tutto il resto di quella conversazione, ch'egli prolungò, ritenendo più d'una volta la brigata pronta a partire, e fermandola poi ancora un pochetto in su l'uscio da via, sempre a parlar di bubbole. Il dì seguente, gli capitò una visita quanto inaspettata tanto gradita; il signor marchese di cui s'era parlato: un uomo tra la virilità, e la vecchiezza, il cui aspetto era come un suggello di ciò che la fama diceva di lui: aperto, benevolo, placido, umile, dignitoso, e qualche cosa che indicava una mestizia rassegnata. «Vengo,» diss'egli, «a portarle i saluti del cardinale arcivescovo.» «O che degnazione d'entrambi!» «Quando fui a prender congedo da quest'uomo incomparabile, il quale mi onora della sua amicizia, mi parlò egli di due giovani promessi sposi di codesta parrocchia, che hanno avuto a soffrire per causa di quel poveretto di don Rodrigo. Monsignore desidera di averne notizia. Son vivi? E le loro cose sono elle aggiustate?» «Aggiustato ogni cosa. Anzi, io m'era proposto di scriverne a sua eminenza; ma ora che ho l'onore…» «Si trovan essi qui?» «Qui; e il più presto che si potrà, saranno marito e moglie.» «E io la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche d'insegnarmi il modo più convenevole. In questa calamità, io ho perduto i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho fatte tre eredità considerabili. Del superfluo ne avevo anche prima: sicchè ella vede che il darmi una occasione d'impiegarne, e massime una come questa, è rendermi veramente un servigio.» «Il cielo la benedica! Perchè non sono tutti come lei i…? Basta; io la ringrazio anch'io di cuore per questi miei figliuoli. E giacchè vossignoria illustrissima mi da tanto animo, signor sì che ho uno spediente da suggerirle, il quale forse non le dispiacerà. Sappia dunque che questa buona gente son risoluti d'andare ad accasarsi altrove, e di vendere quel poco che hanno al sole qui: una vignetta il giovane, di nove o dieci pertiche, salvo il vero, ma abbandonata, imboschita affatto: bisogna far conto dello spazio, nient'altro; di più una casetta egli, e un'altra la sposa: due topaie, veda. Un signore come vossignoria non può sapere come la vada pei poveri, quando sono a quello di dover disfarsi del loro. Finisce sempre ad andare in bocca di qualche furbo, che, se dà il caso, farà da un pezzo l'amore a quel luoghetto, e quando sa che l'altro ha bisogno di vendere, si ritira, fa lo svogliato; bisogna corrergli dietro e darglielo per un pezzo di pane: massime poi in circostanze come queste. Il signor marchese ha già veduto dove vada a parare il mio discorso. La carità più fiorita che vossignoria illustrissima possa fare a questa gente, è di cavarli da questa stretta, comperando quel poco fatto loro. Io, a dir vero, ci ho dentro il mio interesse, il mio guadagno, che vengo ad acquistare nella mia parrocchia un compadrone come il signor marchese; ma vossignoria deciderà secondo che le parrà: io ho parlato per obedire.» Il marchese lodò assai il suggerimento, ne rendette grazie, pregò don Abbondio di voler essere arbitro del prezzo, e d'imporlo esorbitante, e colmò la maraviglia di lui, col proporgli che si andasse tosto insieme a casa della sposa, dove sarebbe probabilmente anche lo sposo. Per via, don Abbondio, tutto gongolante come potete imaginare, ne pensò e ne disse un'altra. «Giacchè vossignoria illustrissima è tanto inclinata a far del bene a questa gente, ci sarebbe un altro servigio da render loro. Il giovane ha addosso una cattura, una specie di bando, per qualche scappuccio che ha fatto in Milano, due anni sono, quel giorno del gran fracasso, dove s'è trovato dentro, senza malizia, da ignorante, come un sorcio nella trappola: niente di serio, veda: ragazzate, cervellinaggini: di fare un male proprio è incapace: e posso dirlo, chè l'ho battezzato io, e l'ho veduto venir su: e poi, se vossignoria vuol pigliarsi spasso, come sovente ne hanno i signori a udir questa povera gente ragionar su alla carlona, potrà fargli contare la storia a lui, e sentirà. Adesso, trattandosi di cose vecchie, nessuno gli dà molestia; e, come ho detto, egli pensa di andarsene fuori stato; ma, col tempo, o tornando qui o altro, non si sa mai, lei m'insegna ch'è sempre meglio trovarsi netto. Il signor marchese, in Milano, conta, come è dovere, e per quel gran cavaliere, e per quel grand'uomo che è… No, no, mi lasci dire; chè la verità vuole avere il suo luogo; Una raccomandazione, una parola d'un par suo è più che non bisogna per ottenere una buona assolutoria.» «Non c'è impegni forti contro codesto giovane?» «Oibò, oibò; non crederei. Gli hanno fatto fuoco addosso al primo momento; ma ora credo che non ci sia più altro che la semplice formalità.» «Così essendo, la cosa sarà facile; e la piglio volentieri sopra di me.» «E poi non vorrà che si dica ch'è un grand'uomo. Lo dico, e lo voglio dire; a suo dispetto lo voglio dire. E se io tacessi anche, già non servirebbe a nulla, perchè parlano tutti: e vox populi, vox Dei.» Trovarono appunto le tre donne e Renzo. Come questi rimanessero, pensatelo: io mi credo che anche quelle nude e scabre pareti, e le impannate e i deschetti e le stoviglie si maravigliassero di ricevere fra loro un ospite così straordinario. Animò egli la conversazione, parlando del cardinale e delle altre cose, con aperta cordialità, e insieme con delicata misura. In breve venne alla proposta. Don Abbondio pregato da lui di pronunziare il prezzo, si fece innanzi; e, dopo un po' d'atti e di scuse, e che non era sua farina, e che non potrebbe altro che andare a tentone, e che parlava per obedienza, e che se ne rimetteva, proferì, al parer suo, uno sproposito. Il compratore disse che, per la parte sua, egli era contentissimo, e, come se avesse franteso, ripetè il doppio; non volle sentire di rettificazioni, e troncò e conchiuse ogni discorso convitando la brigata a pranzo pel dì dopo le nozze, al suo palazzo, dove si farebbe l'istrumento in regola. – Ah! – diceva poi tra sè don Abbondio, tornato a casa: – se la peste facesse sempre e da per tutto le cose a questo modo, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una a ogni generazione; e si potrebbe stare a patti di fare una malattia. – Venne la dispensa, venne l'assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono con sicurezza trionfale proprio a quella chiesa, dove proprio per bocca di don Abbondio furono sposi. Un altro trionfo e ben più singolare fu, il dì appresso, l'andata a quel palazzotto; e vi lascio considerare che cose dovessero passar loro per la mente in salir quell'erta, all'entrare per quella porta; e che discorsi dovessero fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in mezzo all'allegria, or l'uno or l'altro menzionò più d'una volta, che, per compier la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo. «Ma per lui,» dicevano poi, «sta meglio di noi sicuramente.» Il signore fe' loro gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi con Agnese e con la cittadina; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle assistere a un po' di quel primo convito, e aiutò anzi a servire. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stato cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato per un brav'uomo, ma non per un originale, come ora si direbbe; v'ho detto ch'era umile, non già che fosse un portento d'umiltà. Ne aveva abbastanza per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari. Dopo i due pranzi, fu steso il contratto per mano d'un dottore, il quale non fu l'Azzecca-garbugli. Questi, voglio dire la sua spoglia, era ed è tuttavia a Canterelli. E per chi non è di quelle parti, capisco anch'io che qui ci vuole una spiegazione. Al di sopra di Lecco forse un mezzo miglio, e quasi in sul fianco dell'altro paese chiamato Castello, è un sito detto Canterelli, dove s'incrocicchiano due strade; e all'un canto del crocicchio, si vede un rialto, come un poggetto artificiale, con una croce in cima; il quale non è altro che un gran mucchio di morti in quel contagio. La tradizione, per verità, dice semplicemente i morti del contagio; ma debb'esser quello senz'altro, che fu l'ultimo e il più micidiale di cui resti memoria. E sapete che le tradizioni, chi non le aiuta, per sè dicon sempre troppo poco. Nel ritorno non ci fu altro inconveniente, se non che Renzo era un po' incomodato dal peso dei soldi che portava via. Ma l'uomo, come sapete, aveva fatte ben altre male vite. Non parlo del travaglio della mente, che non era picciolo, a pensar del modo migliore di farli fruttare. A vedere i progetti che passavano per quella mente, le fantasie, i dibattimenti; a sentire i pro e i contro, per l'agricoltura e per l'industria, egli era come se vi si fossero incontrate due accademie del secolo passato. E l'affare per lui era ben più pressante e più impacciato; perchè, essendo egli un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c'è di scegliere?: l'uno e l'altro, in buon'ora; chè i mezzi, in sostanza, sono i medesimi; e son due cose come le gambe, che due vanno meglio d'una sola. Non si pensò più che a fare i fagotti, e a mettersi in viaggio, casa Tramaglino per la nuova patria, e la vedova per Milano. Le lagrime, i ringraziamenti, le promesse di andarsi a trovare furon molte. Non meno tenera, dalle lagrime in poi, fu la separazione di Renzo e della famiglia dall'ospite amico: nè crediate che con don Abbondio le cose passassero freddamente. I tre poveretti avevano sempre conservato certo attaccamento rispettoso al loro curato; e questi, in fondo, aveva sempre voluto lor bene. Sono quei benedetti affari, che imbrogliano gli affetti. Chi domandasse se non vi fu anche del dolore in distaccarsi dal paese natìo, da quelle montagne; certo che ve n'ebbe: chè del dolore, ce n'è, sto per dire, un po' da per tutto. Convien però credere che non fosse molto forte, giacchè avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grandi inciampi, don Rodrigo e il bando, erano tolti. Ma già da qualche tempo erano avvezzi tutti e tre a risguardar come loro il paese a cui andavano. Renzo l'aveva fatto parer buono alle donne, raccontando le agevolezze che vi trovavano gli operai, e cento cose del bel vivere che vi si faceva. Del resto avevan tutti passato dei momenti ben amari in quello a cui volgevano le spalle; e le memorie triste finiscono sempre a guastare nella mente i luoghi che le richiamano. E se quei luoghi sono i natii, c'è forse in tali memorie qualche cosa di più aspro e pugnente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della nutrice, cerca con avidità e con fiducia la poppa che lo ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la nutrice, per divezzarlo, la intigne d'assenzio, il bambino ritrae il labbro, poi torna a provare, ma finalmente ne rifugge; piangendo sì, ma ne rifugge. Che direte mo ora, udendo che, appena giunti, e allogati nel nuovo paese, Renzo vi trovò dei disgusti begli e preparati? Miserie; ma basta così poco a disturbare uno stato felice! Ecco in breve la cosa. Il parlare che quivi s'era fatto di Lucia, buon tempo prima ch'ella vi arrivasse; il sapere che Renzo le aveva tanto penato dietro, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per ogni cosa sua, avevano fatta nascere una certa curiosità di veder la giovane, e una certa aspettazione della sua bellezza. Ora sapete com'è l'aspettazione: imaginosa, corriva, sicura; alla prova poi, difficile, sdegnosa: non trova mai il suo conto, perchè, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa pagare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevano forse che ella dovesse aver le chiome proprio d'oro, e le guance proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro, e che so io? cominciarono a levar le spalle, ad arricciare il naso e a dire: «è ella questa? Dopo tanto tempo, dopo tanto parlare, s'aspettava altra cosa! Che è poi? Una contadina come tante altre. Eh! per di queste e delle meglio, ce n'è da per tutto.» Venendo poi ai particolari, notavano chi un difetto chi un altro: nè mancarono di quelli che la trovavano tutta brutta. Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo queste cose; così non c'era gran male fin lì. Chi lo fece il male, chi allargò lo sdruscito, furono certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete?, gliene seppe amaro assai. Cominciò a ruminarvi sopra, a farne di gran piati, e con chi gliene parlava, e più a lungo nel suo sè. – E che cosa ne importa a voi? E chi vi ha detto di aspettare? Sono io mai venuto a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi, v'ho io mai risposto altro, se non ch'ell'era una buona giovane? E una contadina! V'ho io detto mai che vi avrei menato qui una principessa? Vi dispiace? Non la guardate. Ne avete delle belle donne: guardate quelle. – E vedete un po' come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato d'un uomo per tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, conforme al primo disegno, l'avrebbe fatta poco bene. A forza d'esser disgustato, era ormai divenuto disgustoso. Era sgarbato con tutti, perchè ognuno poteva essere un dei critici di Lucia. Non già che trattasse proprio contro il galateo; ma sapete quante belle cose si ponno fare senza offender le regole della buona creanza: fino a sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico in ogni suo tratto; in tutto trovava anch'egli da criticare: basti che, se faceva cattivo tempo due giorni di seguito, subito egli diceva: «eh già, in questo paese!» Vi dico ch'egli era già venuto in tasca a un certo numero di persone, anche a di quelle che prima gli volevano bene; e col tempo, d'una cosa in altra, si sarebbe trovato, per così dire, in istato di ostilità con tutta quasi la popolazione, senza poter forse egli stesso assegnare la prima cagione, conoscer la radice d'un tanto male. Ma si direbbe che la peste avesse preso l'impegno di racconciar tutte le malefatte di costui. Aveva essa portato via il padrone d'un altro filatoio situato quasi in sulle porte di Bergamo; e l'erede, un giovane scapigliato, che in tutto quell'edificio non trovava che vi fosse nulla di divertente, era deliberato, anzi desideroso di vendere anche a mezzo prezzo; ma voleva i danari l'uno in su l'altro, per poterli impiegar subito in consumazioni improduttive. Venuta la cosa agli orecchi di Bortolo, corse egli a vedere; trattò: patti più grassi non si sarebbero potuti sperare; ma quella condizione dei pronti contanti guastava tutto, perchè il suo peculio, composto lentamente di risparmii, era ancor lontano da arrivare alla somma. Tenne l'amico così in mezza parola, se ne tornò in fretta, comunicò l'affare al cugino e gli propose di farlo in società. Un così bel partito troncò le dubitazioni economiche di Renzo, che si risolvette tosto per l'industria, e disse di sì. S'andò insieme; e si conchiuse l'accordo. Quando poi i nuovi padroni vennero a stare sul loro, Lucia, che non era quivi aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a sapere che s'era detto da più d'uno: «avete veduto quella bella baggiana che c'è venuta?» L'epiteto faceva passare il sostantivo. E anche del disgusto ch'egli aveva provato nell'altro paese, gli restò un utile ammaestramento. Prima d'allora era stato un po' avventatello nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticare la donna d'altri, e ogni cosa. Allora capì che le parole fanno un effetto nelle bocche, e un altro nelle orecchie; e prese un po' più d'abitudine di ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle. Non vi deste però ad intendere che non vi fosse qualche fastidiuccio anche qui. L'uomo, (dice il nostro anonimo: e già sapete per prova ch'egli aveva un gusto un po' strano in fatto di similitudini; ma comportategli anche questa, che avrebbe a esser l'ultima) l'uomo, fin che sta a questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti, ben assettati al di fuori, piani, a livello; e si figura che debba essere un giacervi soave. Ma se riesce a cambiare; appena s'è allogato nel nuovo, comincia, premendo, a sentire, qui uno stecco che punta in su, lì una durezza: siamo in somma, a un dipresso alla storia di prima. E per questo, soggiugne egli, dovremmo pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. La è tirata un po' cogli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione. Per altro, continua egli ancora, dolori e impigli della qualità e della forza di quelli che abbiamo narrati, non ve n'ebbe più per la nostra buona gente: fu da quel punto in poi una vita delle più placide, delle più felici, delle più invidiabili; talchè, se ve l'avessi a contare, vi seccherebbe a morte. I negozii andavano benone: in sul principio ci fu un po' d'incaglio, per la scarsezza dei lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni dei pochi ch'erano rimasti. Furon publicati ordini che limitavano i prezzi dell'opere: a malgrado di questo aiuto, le cose si ravviarono; perchè alla fine bisogna bene che le si ravviino. Arrivò da Venezia un altro ordine un po' più discreto: esenzione, per anni dieci, da ogni carico reale e personale ai forestieri che venissero ad abitare in quello stato. Pei nostri fu una nuova cuccagna. Prima che compiesse l'anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura, e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo di adempiere quella sua magnanima promessa, ella fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne venne poi col tempo non so quanti altri, dell'uno e dell'altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli attorno l'un dopo l'altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in volto de' baciozzi, che vi lasciavano il bianco per qualche tempo. E furono tutti inclinati a far bene; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacchè la c'era questa birberia, dovevano almeno approfittarne anch'essi. Il bello era sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che vi aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. «Ho imparato», diceva, «a non mettermi ne' garbugli: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a non bere più del bisogno: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è attorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non affibbiarmi una campanella al piede, prima d'aver pensato che ne possa nascere.» E cento altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sè, ma non ne era appagata; le pareva, così in confuso che vi mancasse qualche cosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di meditarvi ogni volta, «e io,» diss'ella un giorno al suo moralista, «che cosa ho io d'avere imparato? Io non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercarmi me. Quando non voleste dire,» aggiunse ella, soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.» Renzo, alla prima, rimase impacciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conchiusero che i guai vengono bensì sovente per cagione che uno vi dia; ma che la condotta più cauta e più innocente non assicura da quelli; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, ci è sembrata così giusta, che abbiamo pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale se v'ha dato qualche diletto, vogliatene bene all'anonimo e anche un po' al suo racconciatore. Ma se in quella vece fossimo riusciti a noiarvi, siate certi che non abbiam fatto a posta.