Dell’invenzione. Dialogo

Insieme editoriale: Opere morali e filosofiche

Il Dialogo si inserisce in quel ragionamento intorno al vero poetico che tanto ha interessato Manzoni, presentandosi come prosecuzione dell’indagine estetica affrontata in momenti diversi e in ultimo nel Discorso sul Romanzo Storico. Commenta a riguardo Prini: «Là era messo energicamente in rilievo il conflitto tra la pratica linguistica della descrizione dei fatti e quella dell’invenzione del verisimile, così da risultarne evidente l’impossibilità che nei componimenti misti di storia e d’invenzione si costituissero in unità l’assenso storico e l’assenso poetico. All’arte era dunque assegnato come proprio soltanto il campo del verisimile, ossia del possibile, ossia del puramente inventato.» (PRINI 1986, p. 56). Ora, tra le pagine del Dialogo, la disamina estetica, avvalendosi del pensiero e della dialettica rosminiana, sfocia in un’indagine di stampo metafisico. L’opera rispecchia la struttura dialogica socratico-platonica: Primo, che incarna il pensiero filosofico di Manzoni, cerca di condurre Secondo alla comprensione di verità estetiche, ontologiche e etiche, attraverso interrogativi e ragionamenti linguistici. La prima questione affrontata nel Dialogo sorge dalla domanda «cosa fa l’artista quando inventa?», e viene inizialmente esaminata attraverso un’analisi etimologica: «Inventare è un derivato da Inventum, o un frequentativo d’Invenire. Ecco: se mi volete dire espressamente che l’artista trova, sono contento; perchè c’è sottinteso, e sottinteso necessariamente, che l’oggetto era, prima che lui ci facesse sopra la sua operazione.» Questo è un passaggio ostico per Secondo che perplesso ribatte «Quel fiore ideato da lui per la prima volta, ho da dire che era già? Non ego.» La difficoltà di Secondo sta nel comprendere che il modo dell’essere, così come è espresso dalla filosofia rosminiana, è ontologicamente differente dal modo reale: l’idea è semplice, è immutabile, l’idea è; e per questo l’idea del fiore è preesistente all’«operazione» dell’artista. E nel corso del Dialogo, Primo accompagna Secondo nella comprensione di questi attributi dell’Idea, senza pretendere di esaurirli, ma con l’invito a «studiare insieme» la filosofia. «L’idea è semplice» afferma Primo e quindi non può essere «decomposta» come invece può fare il botanico con il fiore. «Il botanico che decompone realmente un fiore reale, per acquistarne un’idea più compita, e accompagna, anzi dirige col pensiero la sua operazione materiale, sarebbe accomodato bene se, volendo paragonare la nova e più ricca idea con l’anteriore, questa non la trovasse più, perché fosse stata fatta in pezzi, e sparpagliata qua e là, insieme con il fiore reale. Eh via! Ingrato che siete. Invece di negare all’idea i suoi innegabili attributi, dovreste ringraziarla inginocchioni, che, rimanendovi presente, nella sua immortale semplicità, vi dia il mezzo, l’unico mezzo di riconoscere, in tanti pezzetti di materia, le parti d’un tutto che non è più. Anzi l’unico mezzo per poter dire a voi stesso: ho notomizzato un fiore». E prosegue «e ci ritroviamo ancora, al punto di prima, al monologo di Hamlet: "Essere o non essere tale e la questione." [ . . . ] O una creazione impossibile, o un possibilissimo ritrovamento. Vi pare di potervi decidere? O avete altri argomenti?». Ecco che finalmente, Secondo, seppur con alcune incertezze, compie la prima «alzata di piede» verso il «passo dell’uscio», ammettendo l’unità dell’idea e la sua immutabilità: «Ebbene, ve lo concedo. Ma bisogna assolutamente che ve ne dica insieme un’altra. [ . . .] dov’era l’idea prima che fosse presente all’artista. Chi sa che lì ci si veda un po’ più chiaro!».

Si apre così una seconda questione strettamente connessa all’origine delle idee; ma prima di procedere all’indagine, Primo riassume così la disamina estetica: «L’inventare non è altro che un vero trovare; perchè il frutto dell’invenzione è un’idea, o un complesso d’idee; e l’idee non si fanno, ma sono, e sono in un modo loro». Primo conduce Secondo a riconoscere che le idee non possono essere ricavate dai ragionamenti della mente, né tanto meno dai sensi, ma sono in mente Dei, e rifiuta di proseguire l’indagine, ma cita la fonte di questi quesiti e la sorgente delle verità esposte. «Basta, basta, caro mio. Vedo che voi andate avanti a chiedermi un libro, e un libro, che sarei il più ameno ciarlatano del mondo, se vi dicessi d’essere in caso di farlo. Ma, per fortuna, è fatto. Eccolo lì: Rosmini, Ideologia e Logica, volume quarto. Lì troverete le risposte ai quesiti che, per la mia parte, sono contentissimo d’avervi tirato a fare». Il tema è ostico, e Manzoni preferisce affidarsi alle pagine del venerato filosofo invece di proseguire egli stesso nella speculazione. L’invito di Primo è quello di leggere l’opera e di lasciare che nasca il desiderio di studiare «quelli che seguono». Ne segue una splendida pagina dedicata all’elogio del pensiero rosminiano, coronata dal «congaude veritati»: espressione che pare essere l’ammissione di una piena e gioiosa adesione alla dottrina del filosofo roveretano (PRINI, p. 214).

«Dal disputare sull’invenzione» il dialogo prosegue a «parlare della giustizia» (STELLA 1998, p. 703). Apparentemente un notevole salto tematico, ma possibile perché entrambi gli argomenti di discussione affondano le proprie radice in uno stesso terreno: il modo delle Idee. E le idee non possono nascere dalla mente che le contempla, perché ciò sarebbe come far nascere «la luce dall’occhio, il mezzo necessario all’operazione, dall’operazione medesima». Discorrere di giustizia significa per Primo, esaminare una verità, che in quanto idea, non può essere contingente né tanto meno mutata a piacimento dagli uomini. Questi sono i presupposti che rendono libero Manzoni di condurre il lettore nella seconda parte del Dialogo dedicata alla morale. Ora Primo conduce il neofita interlocutore a comprendere l’utilità di una retta filosofia agli effetti della vita pratica (CASTOLDI 2004, p. XCVII). Per giungere a tale obiettivo, Primo si avvale di tre esempi attinti dalla Rivoluzione francese: Robespierre, Mirabeau e Vergniaud; e un ultimo dalla storia romana: Bruto. In circostanze diverse, questi noti uomini hanno commesso lo stesso errore: hanno avuto «una fede cieca a un arbitrario placito filosofico». L’incorruttibile si era affidato ai principi di Rousseau, credendo che l’uomo nasca buono e che soltanto le istituzioni siano le responsabili distruttrici di una originaria felicità. Mosso da tale credenza ha proposto «l’utopia della società perfetta, del paradiso realizzato sulla terra, [ . . . ] e l’eliminazione di tutti coloro che si oppongono in nome delle istituzioni e dei ceti che rappresentano» (PRINI 1986, p. 72). E la massima di Mirabeau «La petite morale tue la grande», ha potuto ingannare tante menti perché ha trovato fondamento e giustificazione in una dottrina che riduce la giustizia in utilità, leva di mezzo «l’idea d’obbligazione, e l’idea corrispondente di divieto, le quali non sono punto incluse nell’idea d’utilità». Questo stessa fede in un principio arbitrario è stato il movente che ha fatto pronunciare a Vergniaud la parola «La mort», durante la votazione sulla sorte di Luigi XVI, sebbene si fosse prima dichiarato con «eloquenza straordinaria» contrario a quella pena; giustificando la contraddizione con queste parole «Ho visto alzarsi davanti a me la fantasima della guerra civile; e non ho creduto che la vita d’un uomo potesse esser messa in bilancia con la salute d’un popolo». E qui commenta Primo: «Era la gran morale che ammazzava la piccola», era la sostituzione di «una legge eterna» con una previsione umana. Infine, l’esempio di Bruto che esclama: «O virtù, tu non sei che un nome vano!», un nome vano, precisa Primo, perché «non ascolta quel no eterno, risoluto, sonoro», ma decide il corso delle proprie azioni basandosi su una giustizia propria e contingente (elemento quest'ultimo che potrebbe far parte del dossier ancora aperto dei rapporti Manzoni-Leopardi). Al termine del Dialogo, interviene il terzo protagonista, il taciturno osservatore che come osserva Primo, in una variante poi cassata, «pare un giornalista che deve stendere la sua relazione della seduta», e che espone infatti la propria volontà di «mettere in carta» le cose che aveva udite, «chè la memoria aveva un bel da fare a tenerle insieme.», ma questo solo dopo aver chiesto la pagina di quel«volume che era ancora aperto sul tavolino».

Storia del testo

Il dialogo , scritto tra la primavera e l'estate del 1850, corona la profonda amicizia tra lo scrittore lombardo e il filosofo roveretano Antonio Rosmini. A farli incontrare fu probabilmente il Tommaseo nel marzo del 1826, l’incontro era stato anticipato dalla lettura da parte di Manzoni dell’L’Educazione Cristiana: opera in cui trovò «la persuasione razionale del proprio cristianesimo» (STELLA 1998, p. 702). Da quel momento, nacque oltre a una sincera affinità intellettiva, anche una profonda amicizia, testimoniata dalla corrispondenza che tennero dall’agosto del 1826 fino al 1855, anno della morte del filosofo (CARTEGGIO MANZONI-ROSMINI 2003). Prima del felice incontro con Rosmini, Manzoni si era già interessato di filosofia guardando soprattutto all’orizzonte francese; ma non aveva mai aderito pienamente alle speculazioni d’oltralpe (GHISALBERTI 1963B, p. 889). L’amore per l’arte speculativa si ravvivò grazie al pensiero del filosofo cristiano, che indagò pazientemente attraverso un continuo e vivace dialogo. Gli scrittori iniziarono ben presto a scambiarsi le proprie pagine: nel 1830 Rosmini, che aveva già avuto l’onore di leggere I Promessi Sposi prima della pubblicazione, inviò a Manzoni il Nuovo Saggio sull’origine delle Idee: opera di fondamentale importanza nel pensiero filosofico del roveretano. Lo scrittore lombardo, in una lettera di risposta gli manifesto così il suo giudizio «La vo studiando quest’opera, e mi trovo ad ogni istante istruito, illuminato da importanti, recondite e non meno evidenti verità speciali; come mi pare di intendere e di gustare il principio generale, e mi pare pure che lo gusterò sempre di più andando innanzi; tanto più che la parte che vi fa l’idea dell’essere mi sembra indipendente dalla questione della sua origine; questione della quale Ella ha mostrato l’importanza, mostrando le singolari anzi uniche relazioni di questa idea con tutte le operazioni della mente; ma che, per me, com’Ella ha potuto vedere, è rimasta, se non piuttosto è diventata questione» (CARTEGGIO MANZONI-ROSMINI 2003, p. 36). Manzoni mostrò così, allo stimato filosofo, le sue iniziali perplessità riguardo alla «questione», ovvero all’origine dell’idea dell’essere, e al suo carattere innato. Sono un’ulteriore testimonianza di questa iniziale «tenace resistenza» anche le postille abrase ritrovate sul Nuovo Saggio sull’Origine delle Idee, identificate nelle pagine rosminiane dedicate al tema delle idee innate (MARTINELLI 2002B, p. 348). Fu quindi un lento percorso, disseminato da acuti e sagaci interrogativi, che condusse Manzoni ad un sempre maggiore avvicinamento al pensiero rosminiano, fino a tesserne le lodi nelle pagine del Dialogo.

L’opera fu scritta in terra piemontese, a Lesa, sul lago Maggiore, nella villa della famiglia Stampa, dove Manzoni si ritirò per un intero biennio: dal 29 luglio del 1848 al settembre del 1850 a seguito della disfatta di Carlo Alberto contro l’Austria di Radetzky. Pochi chilometri distanziavano Manzoni dalla Rosminiana Casa della carità di Stresa. Qui i colloqui tra lo scrittore milanese e il prete roveretano si fecero quasi quotidiani (Dell’Invenzione 1986, pp. 9-10). Le prime notizie del dialogo si trovano in una lettera datata 1 febbraio 1850 in cui Teresa Stampa chiese al figlio Stefano di inviare a Lesa «volumi di consultazione per il dialogo Dell’Invenzione», e probabilmente nel luglio dello stesso anno l’opera fu conclusa (GHISALBERTI 1963B, p. 891).

Lo studio dell’autografo ha permesso di osservare che, seppur il dialogo sia stato scritto in un breve arco temporale la stesura non fu affatto semplice: tre fogli del manoscritto risultano sostituiti da Manzoni durante la stesura dell’opera e molte carte presentano grandi sezioni di testo cassate e riscritte più volte. Inoltre alcune sezioni di testo dedicate al tema della giustizia mancano nel manoscritto; ad esempio la lunga descrizione riservata a Rousseau è presente nel manoscritto in forma molto ridotta rispetto a quella che si può leggere nel testo a stampa, il che suggerisce ampi interventi in fasi di bozze. È interessante notare infine come il manoscritto presenti delle notazioni numeriche, in inchiostro rosso, scritte da Manzoni accanto ad alcune locuzioni. Da un’analisi di questi loci, si può ipotizzare, che la volontà dell’autore sia stata quella di contrassegnare delle espressioni idiomatiche utilizzate nel testo.L’opera fu pubblicata per la prima volta nelle Opere varie del 1845-55, figurando nel fascicolo sesto del 1850.

Date di elaborazione

gennaio-giugno 1850


Testimoni manoscritti
  • Manz.B.X.6 • Milano, Biblioteca Nazionale Braidense

Prima edizione
  • OPERE VARIE 1845 = Manzoni Alessandro, Opere varie di Alessandro Manzoni. Edizione riveduta dall'autore, Milano, Redaelli, 1845
    (Fascicolo 6 (1850))

Edizioni di riferimento
  • MARINI 2016 = Marini Maria Cristina, Il Dialogo Dell'Invenzione di Alessandro Manzoni. Edizione critica, Tesi di laurea magistrale. Università di Parma a.a. 2015/2016. Relatrice Prof. Giulia Raboni
    (I testi presenti nella scheda sono tratti con pochi adattamenti dalla Tesi magistrale)
  • CASTOLDI 2004 = Manzoni Alessandro, Dell'invenzione e altri scritti filosofici, Premessa di Carlo Carena. Introduzione e note di Umberto Muratore. Testi a cura di Massimo Castoldi. In appendice: Le stresiane, di Ruggero Bonghi, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2004 (Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni : testi criticamente riveduti e commentati / diretta da Giancarlo Vigorelli, 16)
  • PRINI 1986 = Manzoni Alessandro, Dell'invenzione: dialogo, A cura di Pietro Prini, Brescia, Morcelliana, [1986]
  • GHISALBERTI 1963B = Manzoni Alessandro, Opere morali e filosofiche, Milano, Mondadori, 1963 (Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, “I classici italiani, voll. 3)

Risorse correlate
Edizione del testo in preparazione

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