Lettera n. 265

Mittente
Manzoni, Alessandro
Destinatario
Grossi, Tommaso
Data
17 settembre 1827 (17 7bre 1827)
Luogo di partenza
Firenze
Luogo di arrivo
[Milano]
Lingua
italiano, latino, milanese
Incipit
Ho bell'e veduto che, a voler ridursi a scrivere
Regesto

Manzoni informa Grossi della revisione linguistica del romanzo e gli riferisce alcune voci e locuzioni milanesi che trovano riscontro nell'uso toscano. Racconta dell'incontro con il granduca Leopoldo II, il quale ha lodato l'Ildegonda e i Lombardi di Grossi. Dà il proprio consenso per la vendita dell'edizione torinese (Pomba 1827) in Lombardia e dà notizie degli altri membri della famiglia.

Note

Dai due riferimenti interni «dopo quel ch'io ti ho scritto ieri» e «Volevo spedirti questa per la posta, ma, partendo, oggi medesimo (18) il sig.r Segretario Bianchi [...] mi valgo della sua gentile esibizione per dar la lettera a lui» si ricava che Manzoni chiuse la lettera il 18 settembre.

Testimoni
Edizioni
  • SFORZA 1912-1921, vol. II, p. 320.
  • ARIETI-ISELLA 1986, lettera n. 265, vol. I, pp. 432-439, note alle pp. 917-920.
  • SARGENTI 2005, vol. I, pp. 367-373.
  • CARTEGGI LETTERARI 2016, lettera n. 92, pp. 252-259, note alle pp. 259-264.
Opere citate

I promessi sposi

+ Testo della lettera

Ti ringrazierei, se non fossimo noi, anzi avrei a chiederti scusa delle brighe che tu ti pigli e ch'io ti do per la trascrizione dei due manoscritti. Ti sarà stato detto dalla Fanny, anzi l'avrai letto nelle lettere a lei dirette (della qual lettura ci fai una storia così graziosa) che non ti pigli anche la briga di mandarmi qui le copie, giacché non avrei tempo di servirmene. Il tempo mi sfuma; però ne do quanto posso allo studio della lingua, e spero di portarvi qualche cosa e forse più di quello che si credeva tutti insieme. Ho trovate persone che riuniscono in sommo grado la scienza e la compiacenza; e quantunque io ne usi e ne abusi principalmente per la revisione della mia tiritera, pure ne hanno abbastanza anche per soddisfare alle mie richieste intorno alle cose generali della lingua. | Non puoi credere quanto quella mia idea della uniformità del n[ost]ro dialetto colla lingua parlata di qui, idea che mi pareva e mi pare sempre più capitale capitalissima, per risolvere molte quistioni pratiche della lingua attuale e molte quistioni storiche intorno allo stato della lingua ne' tempi addietro, non puoi, dico, credere quanto questa idea mi si sia confermata ed estesa per quella poca osservazione del fatto, e molto più per gli aiuti che mi si danno in questa osservazione. Spero, come t'ho detto, di portarti un buon numero di note mie e d'altri: (e nel ti di portarti è inchiuso anche Rossari, e forse non occorreva dirlo). Oltre quel che si risponde alle mie domande espresse, non passa giorno, ch'io non raccolga accidentalmente nel discorso modi di dire, dei quali io sarei andato a cercare il corrispondente toscano, e non l'avrei trovato, o l'avrei trovato nei libri disusato, ignorato, morto fradicio. Mi ricordo d'essere stato lì lì (così si dice, non: a un pelo) per fare un baratto onde sostituire archibugiata a schioppettata, ch'io non aveva mai avuto il piacere d'incontrare né in libri di lingua, né nei vocabolarii. Ma guai se mi fossero toccate tutte le schioppettate che ho intese nominare; né ho mai inteso in quel senso dire altro; e avendone chiesto, mi fu detto che questo è il termine più comune: che archibugiata non sarebbe strano, ma non vien così in su la lingua, e che fucilata è vocabolo militare. Te ne dirò un'altra, e sarà l'ultima. Niccolini, il quale è uno dei pazienti revisori della mia storia (vedi chi sono andato a pescare; ti par ch'io sia ghiotto, eh?) Niccolini mi disse una di queste sere: a quel passo dove usate la frase con un'aria di me ne rido, potete levare quella giunta: come dicono i milanesi; perché si direbbe benissimo anche qui. Io dissi che questo mi faceva piacere tanto più che il me ne rido non è tanto milanese. La nostra locuzione, soggiunsi, è la più strana del mondo: e sorridendo, appunto come chi dice una cosa pazza, noi diciamo, continuai, diciamo, e chi sa dove lo siamo andati a pigliare, diciamo: me ne impipo. – Eh! me n'impipo si dice anche noi. – Voi? – Noi. (E qui considera, tu o Rossari, che altro suono abbia quel noi nella bocca d'un Niccolini, che nella nostra di noi, che abbiamo quel noi attaccato collo sputo, che così si dice appunto, non già: appiccato colla sciliva, come credevamo noi). Dunque, per continuare il dialogo, voi!, ripetei io, – io credeva che voi diceste piuttosto: io me n'indormo. – Che! me n'indormo non lo dice nessuno in Toscana. – E me n'impipo?... – Me n'impipo lo dicono tutti. All'indomani io contava questa storia all'altro mio buon revisore, di cui bisogna ch'io ti dica qualche cosa in parentesi. È questi il Dottor Cioni dotto e amabile uomo, | l'autore di quelle novelle che furon credute d'un cinquecentista, e oltre il resto, così pratico della lingua la più e la meno comune, che avendogli io data in mano la tua noterella, (Rossari di nuovo) egli, lette le definizioni di quei pazzi stromenti di fabbro e di legnaiuolo e di bottaio, m'improvvisò il nome di molti, e mi darà, spero, la risposta a tutti in iscritto. Io contava dunque la storia al bravo Cioni, il quale mi disse: sicuro, sicuro, impiparsene è la parola più propria e più usata nel linguaggio familiare. Io allora, sorridendo come aveva fatto con Niccolini, noi poi, soggiunsi, appicchiamo a questo verbo una giunta stranissima, cavata non so donde... – Ed è? – Diciamo: impiparsi dell'Olanda. – Sicuro, sicuro, impiparsi dell'Olanda, così diciamo anche noi. – Anche voi? – Anche noi. Ora sappi che questo non è che un saggio dei tanti altri modi lombardo-toscani, che vo raccogliendo, e di cui v'ho a empiere o a romper gli orecchi.
[...]
Quanto al permesso che Ferrario domanda d'introdurre copie della edizione di Torino, digli che faccia pure quel che gli torna conto; e dicendolo tu a Giudici in mio nome, credo non farà bisogno una mia dichiarazione più autentica. Del resto se qualche altro libraio mi domanda lo stesso consenso, è probabile ch'io glielo dia: e di questo ti prego avvertir Ferrario; e non occorre dire che tu lo saluti tanto tanto in nome mio. I danari delle copie rilevate li tenga pur lui, che me li darà al mio ritorno. E tu fa il simile di quelli che hai riscossi. Le copie di Pavia hanno a essere trentasei, e le pagherà Mauri al quale Casati ha lasciato la grande amministrazione del negozio; e tu, metti anche questi a cumulo col gran capitale. L'Ab[a]te Pagani non so se pagherà a Fusi o a me direttamente. Ti ringrazio dei due manifestini: forse saprai che qui se ne fa un'altra edizione in sei volumetti, uno per settimana, e ne son venuti fuori due: avrà anche sei rametti. Facciano un po' quel che vogliono, ch'io intanto sto preparando la mia seconda corretta e accresciuta. Al qual proposito, giacché fra noi si parla di tutte queste cose, ti dirò anche che | il caro e bravo Cioni, dopo quel ch'io ti ho scritto ieri di lui, non trovando che bastasse il far così delle noterelle, mi s'è esibito di legger tutti i tre volumi insieme con me, e di far le correzioni a questo modo. Pensa s'io ho accettato; ma vedi se si può esser più gentile e più paziente, anzi dirò coraggioso di questo brav'uomo, il quale avrà una bella faccenda a ripassar quei settantun foglio, in qualche quindici giorni che noi passeremo ancor qui.
[...]
Gli amici da salutare non li nomino, tu gli hai nell'altre mie, e senza questo, li conosci, credo. Nomino però Visconti, per pregarti di dirgli che mi scusi se non gli ho ancor risposto, che gli rispondo spesso col cuore, e prima di partire lo farò colla penna. Ma tu sai come sono occupato: ho settantun lenzuolo da risciaquare, e un'acqua come Arno, e lavandaie come Cioni e Niccolini, fuor di qui non le trovo in nessun luogo. Chiudo in fretta, anzi tronco, perché il tempo è misurato misurato.